La nuova disciplina delle intercettazioni non soddisfa gli inquirenti e non agevola gli imputati, nè i loro difensori, aprendo un nuovo “pasticcio” italiano che, nel maldestro tentativo di tutelare la riservatezza di chi potrebbe finire sui giornali o essere intercettato senza essere indagato, non affronta il problema principale: la responsabilità degli uffici giudiziari.
Lamentano i PM che lo stralcio immediato delle intercettazioni non rilevanti, con il divieto di trascrizione anche nel brogliaccio della p.g. delegata all’ascolto, potrebbe impedire l’acquisizione di prove la cui importanza potrebbe essere rivalutata successivamente. Argomentazione obiettivamente banale, che sembra voler giustificare una cronica incapacità di valutare correttamente il materiale acquisito in fase di indagine, più che tutelare gli indagati, che fa pensare, tuttavia, ad un problema ben più rilevante: la circostanza che la p.g. possa “distrattamente” cestinare il contenuto delle conversazioni intercettate, eliminando elementi favorevoli all’imputato che potrebbero mettere in crisi l’intera ipotesi accusatoria.
L’assenza di contraddittorio sul concetto di “non rilevanza”, peraltro, rischia di penalizzare oltremodo la difesa dell’imputato, alla quale potrebbero essere effettivamente sottratti elemento ritenuti non rilevanti ed invece successivamente indispensabili (ad esempio perchè una intercettazione sui cellulari, oggi, dimostra anche che il soggetto era nel raggio d’azione di determinate celle telefoniche e non poteva essere da un’altra parte).
Al tempo stesso, questa nuova regolamentazione penalizza gli imputati meno abbienti o, meglio, quelli di fascia intermedia, che non hanno diritto al gratuito patrocinio ma che neppure possono aspirare ad acquisire ed ascoltare tutti i file audio delle intercettazioni alla ricerca di prove a discarico, attività che notoriamente comporta ingenti spese difensive, sia in termini di bolli che di competenze.
Ciò che più disarma, tuttavia, del nuovo testo, è l’assoluta mancanza di richiami alla responsabilità degli Uffici Giudiziari, che ancora oggi risulta un argomento scottante e del quale non è possibile parlare senza attrarre strali ed invettive. Nel momento in cui un fascicolo non viene custodito correttamente ed elementi di indagine finiscono nelle mani dei giornalisti o vengono dispersi, deve essere possibile individuare un colpevole sia sotto il profilo disciplinare che risarcitorio. E’ questa la vera sfida legislativa che nessuno sembra voler raccogliere. Una sfida che dovrebbe estendersi alla verifica dei carichi di lavoro, del corretto uso delle tecnologie, del corretto adempimento dei doveri d’ufficio, e che finalmente consentirebbe di distinguere chi della giustizia effettivamente si fa carico da chi, invece, della giustizia si serve o dalla giustizia semplicemente dipende, senza alcun merito.
Le tecnologie per raggiungere questi obiettivi oggi esistono e si chiamano archiviazione sostitutiva, tracciamento della documentazione, analisi dei dati e dei flussi documentali, credenziali di accesso e registrazione delle sessioni di lavoro, peraltro misure che da tempo dovrebbero aver trovato casa in ogni ambito della PA, sia per le diverse direttive europee tuttora inapplicate che per la disciplina riguardante la protezione sui dati personali, della quale fa scempio il cronico accatastamento dei fascicoli delle procure e dei tribunali in corridoi non presidiati.
Una corretta politica della gestione dei dati e dei flussi documentali potrebbe risolvere da sola il problema della giustizia, senza la necessità di stravolgere ogni volta un comparto che ha invece bisogno di stabilità. E finalmente potremmo chiamarla Giustizia, con la G maiuscola.