Ha destato un certo scalpore mediatico l’iniziativa con la quale la Procura di Brindisi ha deciso di chiamare a giudizio alcuni soggetti responsabili di aver utilizzato il tasto “mi piace” in relazione alla diffusione, tramite social network, di un messaggio ritenuto lesivo dell’onore e della reputazione del Sindaco e di alcuni dipendenti comunali.
Da diversi giorni, infatti, il mondo del web critica aspramente tale decisione del Pubblico Ministero, ritenendo l’apposizione del “mi piace” una condotta spesso compiuta distrattamente, priva del disvalore sociale e soprattutto dell’elemento psicologico che dovrebbe contraddistinguere il reato di diffamazione. Una sorta di strumento per dementi, sostanzialmente, utilizzato inconsapevolmente, senza la capacità d’intendere e di volere che normalmente si presume per ogni condotta del cittadino maggiorenne.
Purtroppo o per fortuna, il codice penale non presume che il cittadino sia incapace di valutare le azioni che compie, poiché sarebbe in tal caso abbastanza semplice sostenere l’irrilevanza penale di fatti anche importanti come la rapina o l’omicidio, dov’è molto più probabile, per il tipo di condotta e per le variabili che potrebbero aggravarla, che l’individuo non si renda pienamente conto delle conseguente che potrebbe avere il proprio operato.
Anzi, è prevista espressamente dall’ordinamento l’ipotesi del concorso nel reato, intesa come condivisione di un intento criminale, che si distingue dalla mera connivenza per l’apporto causale che viene dato alla condotta illecita.
La domanda che deve porsi l’interprete, nello stabilire se un soggetto sia “concorrente” nel fatto tipico commesso da altri, è se tale condotta abbia avuto efficienza causale rispetto al fatto illecito, cioè se vi sia stato un contributo partecipativo, materiale o morale, alla condotta criminosa altrui (cui si associano, sotto il profilo psicologico, la coscienza e la volontà di commettere l’azione) o se invece si sia trattato di semplice “connivenza non punibile”, ossia un contegno passivo limitato a tollerare o non censurare il fatto altrui.
Poichè il “mi piace” non consiste certo nella condotta passiva di chi si limita a leggere il post diffamatorio senza commentarlo negativamente e senza segnalarlo a chi potrebbe farlo rimuovere ma, al contrario, contribuisce alla diffusione del messaggio diffamatorio rendendolo visibile ad un pubblico maggiore (tutti gli amici di chi appone il “mi piace” vengono sollecitati dal social network a leggere il messaggio, aumentandone anche il ranking che porta ad una maggiore visibilità complessiva), appare quantomeno difficile poter sostenere che non sia una condotta con efficacia causale rispetto al fatto illecito ed altrettanto discutibile professare che si tratti di una condotta inconsapevole o distratta (ipotesi, quest’ultima, che peraltro non consentirebbe comunque di considerarla penalmente irrilevante).
Ecco perchè, forse, più che criticare l’operato della Procura di Brindisi, dovremmo iniziare a pretendere maggiore responsabilità da parte degli utenti della Rete, che troppo con leggerezza assimilano l’uso dei social network ad un gioco e si comportano di conseguenza.