Con la Sentenza dell’8 novembre 2016 la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata su un tema quantomeno singolare ma evidentemente meritevole di attenzione, qual è quello dell’uso dei social network da parte di un soggetto al quale è stato applicato – dopo un periodo di detenzione in carcere – il regime degli arresti domiciliari con divieto di comunicare con l’esterno.
Lo stalker in questione aveva inopinatamente deciso di tornare a contattare la sua vittima attraverso dei messaggi apparentemente innocui, veicolati tramite un noto social network, rafforzandoli con alcuni degli “stati d’animo” disponibili sul sistema.
La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione che aveva revocato i domiciliari e determinato nuovamente la restrizione in carcere del condannato, ha precisato che il divieto di comunicare per il soggetto ristretto ai domiciliari, deve essere considerato esteso a qualsiasi forma di comunicazione elettronica, tanto più nel momento in cui il contatto con la vittima si estrinseca nell’invio di messaggi criptici che solo quest’ultima è in grado di interpretare correttamente, perché a conoscenza di elementi ad altri ignoti.
Sebbene la pronuncia sia condivisibile, per la tutela rafforzata che intende accordare alla vittima, appare evidente come essa contenga una evidente dicotomia, consistente nel rappresentare la cripticità dei messaggi (quindi non interpretabili, si presume neppure dal giudicante) deducendone nel contempo la natura intimidatoria che si paleserebbe per la sola vittima, basando su tale assunto (privo di riscontri oggettivi) la decisione di revocare la misura dei domiciliari, spalancando nuovamente le porte del carcere all’interessato.
“Strano gioco”, direbbe il computer Joshua di Wargames. Se passasse tale criterio interpretativo si dovrebbe quindi accettare di demandare al giudice anche la valutazione degli stati d’animo di tipo tradizionale, interpretando sorrisi, sguardi, smorfie ed atteggiamenti, e deducendone la rilevanza o l’irrilevanza penale, senza prendere in considerazione le condotte materiali e il reale impatto che potrebbero avere sulla società. Una sorta di “guerra preventiva” della quale, sinceramente, non si sente il bisogno.