i contributi

Dibattito sulla Grande trasformazione digitale: le risposte di Raffaele Barberio, Guido Barlozzetti e Fausto Colombo

a cura di Bruno Somalvico, storico ed esperto dei media |

Sette domande a docenti universitari, giornalisti ed esperti di settore: Raffaele Barberio, direttore di Key4biz; Guido Barlozzetti, conduttore televisivo, critico cinematografico e scrittore; Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Raffaele Barberio
Raffaele Barberio

Prosegue il Dibattito a più voci su Gli effetti prodotti dalla grande trasformazione digitale avviato nel numero estivo con alcuni professori universitari, giornalisti ed esperti di settore. Oggi nel sesto blocco di risposte, Raffaele Barberio, direttore di Key4biz ed esperto di comunicazioni elettroniche; Guido Barlozzetti, conduttore televisivo, critico cinematografico e scrittore; Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e docente del corso di Teoria della comunicazione dei media e di Media e politica presso la facoltà di Scienze Politiche, con accenti diversi analizzano le problematiche evidenziate negli interrogativi loro sottoposti condividendo le riflessioni dell’introduzione del Piccolo dizionario della Grande Trasformazione digitale ma esprimendo punti di vista specifici approdando a considerazioni e soluzioni diverse. Raffaele Barberio in merito alla domanda sulla “riduzione e frammentazione della sfera pubblica destinato a segnare la storia nei prossimi decenni” crede che “ sia un fenomeno irreversibile.

Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

La rete, i social, la possibilità di far correre le opinioni, dà uguali opportunità a tutti, il che non è un punto di vantaggio, dal momento che elimina qualunque filtro di autorevolezza e reputazione. Il colto e l’incolto, l’esperto e l’impostore hanno tutti gli stessi strumenti di rete e a nulla valgono le differenze di capacità trasmissiva che la televisione ha nei confronti della rete: pubblico di massa della televisione contro pubblico segmentato della rete”.  Concorda su ciò anche Guido Balozzetti osservando come “Una volta la competenza (e l’appartenenza di classe) e le élite – con il correlato dell’opinione pubblica – che vi si fondavano nascevano dall’analogico dei rapporti sociali e della cultura. Adesso, dopo la società che chiamavamo di massa, siamo nel digitale fluidificante, diveniente in tempo reale… Servono tante Grete, resistenti e… analogiche”. Fausto Colombo, al contrario, continua “a pensare che l’istanza libertaria e comunitaria e quella neoliberista e turbocapitalista convivano nella rete da sempre. Il sogno di Berners Lee era una democrazia di scienziati modellata sulle accademie e potenziata dalla rete. Quella dei comunitariani che fanno nascere le prime istanze della rete era il potenziamento dell’individualismo dei pionieri americani combinato con il sogno lisergico. Quella dei teorici e degli imprenditori del primo web era lo sviluppo finalmente senza controllo di un capitalismo libero dai vincoli del welfare e della regulation. Il tutto si è mescolato nelle tre internet di oggi (USA, Europa e Cina) e continua a emergere e affondare”.

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  • La grande trasformazione digitale è interpretabile come “una grande trasformazione culturale”? O è più semplicemente una nuova modalità tecnologica (numerica) di produzione e distribuzione di creazioni ed oggetti culturali e della loro diffusione/divulgazione?

Raffaele Barberio
La trasformazione digitale di cui parliamo è la grande trasformazione pervasiva che non trasforma solo le comunicazioni da analogiche a digitali, né si limita a fare un analogo passaggio tra strumenti e device che da analogici vengono sostituiti da strumenti con analoghe e più sofisticate funzioni in codice digitale. C’è qualcosa di più che pesa tanto ed è il profondo cambiamento che riguarda le procedure, le modalità d’uso ovvero un cambio strutturale nell’uso di soluzioni digitali. Naturalmente parliamo di una lunga marcia che è in corso da anni e che prenderà ancora del tempo. Ma oggi il digitale è prevalente ovunque ed in molti paesi ha ormai un posizionamento dominante se non addirittura esclusivo. L’Italia è indietro rispetto a molti Paesi europei. Lo è innanzitutto nella pubblica amministrazione, dove i processi di digitalizzazione sono stati identificati spesso con l’acquisto di apparecchiature informatiche, senza alcuna attenzione al cambio di procedure di lavorazione e all’adeguamento delle organizzazioni del lavoro. Tra le imprese il ritardo è minore, ma va sottolineato il moto di resistenza delle PMI di punta del sistema italiano, per le condizioni di svantaggio con cui sono obbligate a competere, specialmente sui mercati internazionali: con una Pubblica Amminiostrazione che ne rallenta le operatività amministrative, con una fiscalità che è ancora lontana dalla efficienza che deriva dai benefici condivisi di una vera lotta all’evasione, con un sistema giudiziario che patisce i limiti di una giustizia lunga, estenuante e ben chiusa al cambiamento. Tutte ragioni che spiegano il posizionamento di coda dell’Italia e le occasioni mancate del nostro Paese rispetto alle opportunità che la trasformazione digitale offre. Le responsabilità vanno ricercate nel deficit di classe dirigente, nello scadimento della qualità dei decisori politici, sia a livello parlamentare che tra gli amministratori locali, nel più contenuto livello di qualità degli stessi manager.

Guido Barlozzetti
Tecnologia è sempre cultura. È comunque e sempre un rapporto, un sistema di relazioni in divenire, con soglie di cambiamento/trasformazione, di cui l’ultima è ciò che sinteticamente indichiamo come “digitale”. Di questo passaggio rispetto ai precedenti – un passaggio che va sempre ricondotto al “toglie e conserva” hegeliano, nel senso che vi si riscrive anche il “prima” – colpisce la pervasività impercettibile, la performatività tendenzialmente totalizzante, lo scarto tra consapevolezza e controllo.

Fausto Colombo
Mi sembra che la digitalizzazione sia una fra le dimensioni di una lunga, mutevole, plurale rivoluzione con diverse radici: alcune utopie tecnologiche del Novecento, l’evoluzione delle democrazie liberali del dopoguerra e quella globale e multi-lateralista degli anni Duemila, l’egemonia ideologica del neoliberismo dagli anni Ottanta in poi. Un mix complesso che vede evolvere insieme tecnologia, società e culture, fino a mettere in discussione le acquisizioni dell’industria culturale tradizionale (le differenti filiere dei media cui succede la convergenza, il diritto d’autore cui succede l’attuale complesso mix di tecniche di riconoscimento/sfruttamento del lavoro ideativo e creativo, e così via) e le tradizionali distinzioni dei circuiti elitari e di massa, già ridimensionate nella seconda metà del Novecento. In una frase: tecnologie e culture si sono sempre parlate e hanno sempre interagito con le varie dimensioni della socialità. Questo sta accadendo una volta di più.

  • II digitale è davvero un “ordine che cambia radicalmente l’economia, la politica, la società, la storia e muta radicalmente i modi di apprendere, lavorare, relazionarsi, fare impresa, amministrare la cosa pubblica” o è più semplicemente un aggettivo che caratterizza l’attuale fase dello sviluppo tecnologico, come fu per la meccanica, l’elettronica, eccetera?

Raffaele Barberio
Per la verità non può essere un solo aggettivo, come non lo è stato neanche nella transizione tecnologica dell’era della meccanica o dell’elettronica. Certo qui c’è qualcosa di più. Molto di più. Il cambiamento tecnologico di cui siamo promotori e utenti a un tempo cambia tutto: la modalità di esercitare il potere politico, il lavoro, la produzione, le relazioni tra le persone, la struttura delle famiglie, le modalità di apprendimento e tante altre cose. Lascia per la verità di stucco il modo superficiale con cui i nostri governi stiano guidando tale cambiamento. Le visioni e le soluzioni adottate sono quasi tutte contingenti, nel senso che appaiono come estemporanee, prive di politiche industriali di lungo respiro o di progetti educativi o di indirizzi di ricerca di lungo periodo. Sembra che tutto venga fatto in base all’esigenza di dover rivendicare un piccolo risultato a breve, con un metodo di lavoro che spinge a guardare la punta delle proprie scarpe, senza considerare in alcun modo che, se si vuol imboccare la direzione giusta, occorre sempre poter guardare l’orizzonte e avere una visione di lungo periodo. Insomma l’intero Paese soffre degli effetti nefasti del pensiero breve e fondato su articolazioni semplificate.

Guido Barlozzetti
Non un predicato ma un soggetto, lo dico con l’ambiguità della parola, tecnologia-soggetto che espropria il (presunto) soggetto o, forse, per andare oltre terminologie e linguaggi che restano novecenteschi, un ossimoro che tende a realizzarsi compiutamente in un mix incardinato e sfuggente di soggettività/oggettività compresenti. Un paradigma trasversale a tutto? In grado di sussumere tutto l’analogico possibile? O ancora e nonostante la performatività con un estremo, insopprimibile, margine asintotico?

Fausto Colombo
Direi che il digitale è insieme sostantivo e aggettivo. Nella sua accezione aggettivale finirà per scomparire, perché inutile. Cosa rimane delle tecnologie analogiche oggi? Quali non sono state ancora digitalizzate? Possiamo ancora distinguere nelle piattaforme ciò che è comunicazione da ciò che non lo è? Come sostantivo, invece, rimane come il suo significato di dimensione tecnologica in un complesso più ampio, che riusciremo a definire solo fra anni, in prospettiva. In fondo parliamo di rivoluzione industriale e non di rivoluzione meccanica. Perché allora parlare semplicemente di rivoluzione digitale? Quando saranno chiari i passaggi che il mondo sta compiendo in questi ultimi venti anni saremo in grado di trovare una definizione davvero corrispondente. Non bisogna avere paura di aspettare.

  • Per quali ragioni la promessa di “un universo digitale libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere” si è trasformata in una realtà di “disinformazione, polarizzazione settaria, sfiducia risentita, forti diseguaglianze”? È possibile che la straordinaria utopia del World Wide Web possa essere riutilizzata per consentire un dibattito pubblico informato, consapevole e partecipato?

Raffaele Barberio
E chi ha mai detto che l’universo digitale sia per definizione “libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere”? Il digitale consente di fare molte cose che possono migliorare la qualità di vita in modo significativo, ma può gettare le basi per forme multiple di società della sorveglianza di massa. Da cosa potrà dipendere l’imboccare l’una direzione o l’altra? Da molti fattori. I processi di digitalizzazione avrebbero dovuto o dovrebbero essere accompagnati da atteggiamenti di mobilitazione e di accompagnamento convinto.
Questo avrebbe dato piena consapevolezza e avrebbe forse diffuso una maggior vigilanza sui lati oscuri di molte soluzioni digitali che dovrebbero essere corrette o orientate in modo differente. La spinta contrapposta di coloro che spingevano per la piena digitalizzazione e coloro che si sono spremuti per opporre ogni strenua resistenza ha determinato processi che oggi sembrano inarrestabili, perché accentuati da altri fenomeni come la de-natalizzazione, che diminuisce sempre più le fasce giovani della popolazione (che spingono per il nuovo e conferiscono una grande energia ad ogni progetto) a favore delle fasce più anziane, non portate al cambiamento pieno e non motivate all’adozione di nuove soluzioni di prodotti, servizi e procedure.
Il risultato è stato uno svilimento della scolarizzazione con perdita di valore dei percorsi curriculari, il drastico abbassamento (in due-tre decenni) di livello della qualità delle classi dirigenti e del ceto politico, con un pari livellamento verso il basso della qualità di manager pubblici e privati.

Guido Barlozzetti
Non è la prima volta. Quanti messianismi abbiamo attribuito alle tecnologie! Non ce lo ricordiamo e poi siamo ogni volta a contemplare… macerie e contraddizioni bloccate su se stesse. È accaduto con i media tradizionali e le utopie che sono state associate e accade ora con questo post-illuminismo che ci mette un attimo a trasformarsi in post-umanismo della decadenza irreversibile. Magari, saremo anche arrivati al punto di crisi nuovo e … definitivo, ma arranchiamo con i nostri strumenti concettuali e l’Essere (il mondo/tecnologia nella cui relazione stiamo) è dislocato e non … pensabile. Che non ci pensi lui? O che anche il gioco del cinese e della farfalla non sia anch’esso che un’immaginazione?

Fausto Colombo
Continuo a pensare che l’istanza libertaria e comunitaria e quella neoliberista e turbocapitalista convivano nella rete da sempre. Il sogno di Berners Lee era una democrazia di scienziati modellata sulle accademie e potenziata dalla rete. Quella dei comunitariani che fanno nascere le prime istanze della rete era il potenziamento dell’individualismo dei pionieri americani combinato con il sogno lisergico. Quella dei teorici e degli imprenditori del primo web era lo sviluppo finalmente senza controllo di un capitalismo libero dai vincoli del welfare e della regulation. Il tutto si è mescolato nelle tre internet di oggi (USA, Europa e Cina) e continua a emergere e affondare.
Potevamo davvero credere che una tecnologia regalasse l’uguaglianza nel sapere e nelle opportunità? Possiamo davvero credere che una tecnologia renda schiave le masse? Invece il web rimediato dalle piattaforme fa esplodere tutte le contraddizioni, feconde e terribili, della società di massa cui oltre al consumo sono stati messi in mano almeno in parte gli strumenti della produzione. Così siamo pieni di paradossi: cittadini preoccupati chiedono di intervenire contro le fake news e lo hate speech. Altri cittadini, credendo ai complotti propagandati in rete, scendono in piazza per dire no al controllo sociale di uno Stato che si affida alla scienza, credendo a verità trovate su piattaforme che sfruttano i loro dati e insieme combattendo contro un potere ipotetico che vorrebbe monitorarli e piegarli. Grande è insomma la confusione sotto il cielo, e non è detto che la situazione sia eccellente.

  • Per quali ragioni si sono affermati monopoli di fatto di poche piattaforme egemoni fondate su sistemi proprietari e in che modo queste potrebbero essere diversamente regolate e responsabilizzate in un’economia di mercato più aperta?

Raffaele Barberio
Le ragioni sono molteplici e sono innanzitutto di natura economica. Le piattaforme di Big Tech rientrarono sin dall’inizio nella ordinaria strategia di Soft-Power degli Stati Uniti. La loro genesi è ben chiara: sono società tutte figlie dell’immenso sforzo di ricerca e sviluppo dell’economia di guerra degli Stati Uniti dagli anni Cinquanta in poi. Ogni conoscenza di ricerca e sviluppo militare è stata trasferita all’ambito delle applicazioni civili e l’informatica, assieme alle applicazioni Hi-Tech, è quella che più si è avvantaggiata. Oggi il moto è esattamente all’incontrario. Ora è l’apparato militare USA che quando deve sviluppare progetti complessi, si rivolge alle tecnologie della Silicon Valley per l’efficienza che essi garantiscono rispetto ai tradizionali apparati di ricerca militare.
Poi ci sono ragioni di geopolitica, la raccolta di dati su tutti i cittadini del globo è diventata l’ossessione dei Big Tech perché da un immenso valore, quanto allo sfruttamento commerciale dei dati personali, e perché si presta a usi direttamente connessi con il cosiddetto capitalismo della sorveglianza, che sembra essere la china che il mondo rischia di prendere.

Guido Barlozzetti
Intanto siamo dentro un mondo-piattaforma pervasivo e onnisciente. Ci siamo già, e la velocità-capillarità della tecnologia spiega sia il range della diffusione sia i presidi globali che l’hanno gestita e continuano a farlo. E a globale dovremmo rispondere con globale in una nuova riedizione su scala internazionale del confronto tra privato e pubblico, che però è più frastagliato di quanto si possa pensare. Dove li mettiamo ad esempio i tendenziali monopoli tutti nazionali di certe terre rare indispensabili per l’hardware? E sulla questione del controllo anche il bordo tra chi controlla e chi è controllato è ambiguo, i big data servono alle piattaforme egemoni, ma anche al potere politico servono eccome…

Fausto Colombo
Diverse ottime storie del web ci raccontano la struggle for life darwiniana di modelli di sfruttamento della rete (vendita dei pacchetti software per la navigazione, pubblicità, poi acquisizione e mercato dei dati), associata a ideologie dichiaratamente neoliberiste, radicate nella svolta reaganiana e thatcheriana. Insomma, francamente ci si sarebbe stupiti del contrario. Ma non dimenticherei i flussi di comunicazione alternativi che consentono attività di volontariato e di finanziamento dal basso senza precedenti nella storia. Né le nuove esigenze di regulation che crescono nei poteri pubblici, mossi anche da una sempre più acuta comprensione dei fenomeni e da esigenze economiche che la pandemia ha accelerato. Minimum tax, regolazione del lavoro, antitrust applicata ai monopsoni e quindi alle piattaforme stanno rapidamente mettendo a rischio il consolidamento delle piattaforme per come lo abbiamo conosciuto finora.

  • Il controllo della gestione dei big data è davvero lo strumento di una nuova forma di dominio di un capitalismo digitale che esercita una stretta sorveglianza su tutta l’attività in un mondo globalizzato e come tale è destinato ad essere il motore di un nuovo profitto per un lungo periodo dell’umanità o siamo solo in una prima fase di accumulazione primitiva cui seguirà una fase di assestamento e di ridistribuzione delle ricchezze grazie alla ripresa del controllo o comunque dell’indirizzo esercitato da entità statuali o sovra-statuali di fronte alle nuove sfide e ai nuovi rischi globali: sanitari, climatici, ambientali?

Raffaele Barberio
Raccolta, controllo e gestione dei dati sono il versante più pericoloso della trasformazione digitale se non vengono poste delle contromisure. Va interrotta la raccolta senza limite di dati da parte di piattaforme e servizi di rete (dai social agli account di posta elettronica. La tecnologia lo permette, ma il potere delle lobby dei Big Tech è tale da controllare e smontare ogni rischio a livello di decisioni normative centrali degli Stati. Sarà sempre così? Difficile dirlo. Verrebbe voglia di considerare che comunque vadano le cose, tutti i sistemi o meccanismi sono destinati ad usurarsi o a rompersi.
Sarebbe auspicabile da un lato il controllo pubblico esclusivo da parte degli Stati di tutti i dati personali dei rispettivi cittadini. Il controllo di questi dati da parte degli Stati centrali sarebbe la soluzione migliore e questo vale per tutti, dai nostri regimi democratici alla Cina.
Il controllo pubblico dei dati personali dei cittadini consentirebbe, con tutte le applicazioni presenti e future di intelligenza artificiale, di ottimizzare i dati raccolti in chiave di strumento capace di consentire un migliore livello decisionale da parte degli amministratori pubblici. Se enti locali, apparati dello stato centrali e locali, operassero valorizzando l’immensa mole dei dati dei cittadini e delle loro attività quotidiane, tutto potrebbe essere deciso meglio, assicurando efficienza, contenimento dei costi, migliore qualità dei servizi.

Guido Barlozzetti
Siamo in un quadro in movimento, la pandemia ha radicalizzato le contraddizioni del prima, accentua la dimensione biopolitica del controllo e mette a nudo una crisi in cui si intrigano vettorialità diverse che, lungi dall’essere compartimenti stagni, scivolano l’una sull’altra: nazionale, regionale e globale, il potere/sapere della politica, il potere/sapere della scienza, gli oligopoli della tecnologia… il tutto che s’interfaccia con una soggettività smarrita, confusa, performante e dissociata.. E poi c’è il resto che non s’interfaccia, le esclusioni da disuguaglianza, le solitudini, le povertà sospese tra un digitale remoto e un analogico (la sopravvivenza) latitante, l’entropia della vita e il pianeta fra le contraddizioni del controllo e “cosa in sé”.

Fausto Colombo
Siamo solo in una fase. Forse non la prima, ma nemmeno l’ultima. Le cose cambiano. Le generazioni si susseguono con nuove esigenze. Che dire (oltre che di quanto ho ricordato nella risposta precedente) della nuova svolta del potere politico cinese che impone regole sulla privacy alle proprie piattaforme commerciali senza imporle a se stesso? O del patto fra istituzioni europee e Facebook (Meta), Alphabet, Apple, per ridurre anche attraverso censura algoritmica un limite alla fake news sulla pandemia? Le leggi arrivano lentamente rispetto ai fenomeni rivoluzionari. Ma arrivano, e cambiano le carte in tavola. Ovviamente la circolazione globale di informazione fa esplodere anche le contraddizioni, a partire da quella della diseguaglianza. E la concentrazione crescente di capitali rende sempre più visibili ingiustizie cui occorre porre rimedio.

  • “Le bolle e i filtri digitali costruiti attorno gli utenti dalle piattaforme restringono gli spazi pubblici, frammentando e polarizzando le opinioni, anziché favorire come la stampa e i mezzi di comunicazione nelle società aperte la formazione di un’opinione pubblica informata e conoscenze aperte e verificate”. Si tratta di un fenomeno irreversibile di riduzione e frammentazione della sfera pubblica destinato a segnare la storia nei prossimi decenni o è ancora possibile governare la rete e rilanciare quella società della conoscenza aperta e condivisa a cui aspiravano i fondatori del Web?

Raffaele Barberio
Credo sia un fenomeno irreversibile. La rete, i social, la possibilità di far correre le opinioni, dà uguali opportunità a tutti, il che non è un punto di vantaggio, dal momento che elimina qualunque filtro di autorevolezza e reputazione. Il colto e l’incolto, l’esperto e l’impostore hanno tutti gli stessi strumenti di rete e a nulla valgono le differenze di capacità trasmissiva che la televisione ha nei confronti della rete: pubblico di massa della televisione contro pubblico segmentato della rete. Infatti anche la televisione ha intrapreso una corsa verso lo scadimento dei contenuti ed è al centro di un marcato e sembra irreversibile fenomeno di livellamento verso il basso: restringimento dei temi a pochi elementi che coincidono con le polemiche del giorno, scarsa visione internazionale sulle vicende del mondo, banalizzazione di ogni problematica, scarso livello culturale di intrattenitori, giornalisti ed esperti.

Guido Barlozzetti
Ma già nella fondazione del web è insito il germe della contraddizione che spiazza l’ottimismo (post)illuministico. Siamo nel campo della complessità e delle interdipendenze, con demografie variabili, differenze di velocità nello sviluppo industriale, la geopolitica imprevedibile, il supercampo del climate change…
Come diventa informazione tutto ciò? Anche qui siamo a un irreversibile dentro/fuori, tecnologie pervasive, governo dei flussi, reale/fake e la galassia fai-da-te/fanno … loro (ma chi?)  dei cosiddetti social…
Una volta la competenza (e l’appartenenza di classe) e le élite – con il correlato dell’opinione pubblica – che vi si fondavano nascevano dall’analogico dei rapporti sociali e della cultura. Adesso, dopo la società che chiamavamo di massa, siamo nel digitale fluidificante, diveniente in tempo reale… Servono tante Grete, resistenti e… analogiche.

Fausto Colombo
Il tema della sfera pubblica è sempre attuale, ma credo dovrebbe essere rivisto almeno parzialmente.
Intanto è un concetto che rimanda a un’intuizione molto generale (il simbolico ha una valenza politica) che può essere affrontata anche in altri modi (per esempio il concetto di guerra di posizione e di egemonia in Gramsci; o l’idea ormai centenaria di opinione pubblica di Lippman; o la definizione oggi circolante fra i politologi di neo-agorà).
In secondo luogo è un concetto che manca di strumenti di analisi sul campo. È mai esistita una sfera pubblica globale? E una nazionale? Non vi è in questo termine una deriva provinciale o occidento-centrica?
E ci serve fare riferimento a tante piccole sfere pubbliche quante sono le opinioni circolanti? L’idea di società della conoscenza mi sembra anch’essa molto (anzi, ancor più) astratta: conoscenza di cosa? da parte di chi? siamo certi che la conoscenza sia un collante sociale efficace? Insomma: governare la rete è forse possibile, ma credere a un governo degli illuminati su una massa omogenea di cittadini entusiasti mi pare difficile.

  • La politica e la democrazia potranno riconquistare campo nel disegno del futuro e nella ricerca del bene comune o il tecno-capitalismo dei dati e della sorveglianza è destinato ad egemonizzare il governo delle prossime generazioni, segnando il tratto caratteristico di società tecnocratiche, autocratiche, post-democratiche?  

Raffaele Barberio
Non credo che la domanda possa essere posta in modo così netto. Difficile guardare al futuro, e agli scenari che ci riserverà, usando le categorie e le lenti del passato. Credo che molte delle modalità e soluzioni di sorveglianza di massa oggi disponibili siano comuni, a un tempo, sia a regimi a controllo totalitario che ad alcune delle cosiddette democrazie avanzate. Credo che nel prossimo futuro assisteremo a fenomeni di ibridazione dei principi con cui oggi classifichiamo il regime democratico. Perché? Perché molte democrazie non rinunceranno alle soluzioni più sofisticate di sorveglianza di massa e molti regimi totalitari non riusciranno a mantenere impermeabili i sempre più sofisticati sistemi di controllo di massa, perché la tecnologia di cui dispongono e disporranno sarà in parte anche in mano all’opinione pubblica su cui esercitano le funzioni di controllo. Non credo siano plausibili gli scenari dispotici, per intenderci, di quelli che il cinema ci offre con insistenza sempre maggiore, secondo i quali grazie alla sorveglianza di massa i possessori del potere ridurranno a inedite forme di schiavismo le opinioni pubbliche. E allora cosa potrebbe accadere? Credo che dovremo quindi abituarci all’idea che anche i nostri principi di democrazia e di rispetto del gioco democratico, quelli che abbiamo praticato e in cui abbiamo creduto per decenni, saranno trasformati in forme nuove di partecipazione, confronto, valutazione che in parte saranno tutte da scrivere o riscrivere.  

Guido Barlozzetti
Se una lezione ci dà la storia è che nessun sistema è dato una volta per tutte, vale sempre il terzo principio della termodinamica, l’entropia è in agguato… per dire che la piega delle cose è imprevedibile e sorprendente, in meglio o, come da psico-vulgata, in peggio?, impossibile dire e forse anche irrilevante.
Da intellettuali del prima e già largamente indeboliti e spiazzati –  la coscienza, il sapere, l’etica, le ipocrisie connesse. – fatichiamo a vedere uno specchio frantumato, o che aspetta altri occhi. Penso sempre che un centinaio di milioni di anni fa c’erano solo i dinosauri e che nel secolo abbiamo visto esperimenti di governo totalitari che poi sono finiti, ma forse è sempre e solo un grande gioco di composizione di forze: le nostre, che sono tante e diverse, e le altre… Sarà dura anche per i big data.

Fausto Colombo
La politica può recuperare campo, senz’altro, La democrazia non so. Vari indici ci segnalano che le democrazie tradizionali perdono terreno nel panorama mondiale. E che populismi e varie forme di autoritarismo sono sempre più aggressivi.
Penso dobbiamo guardare con interesse a quanto accade in Europa perché l’Unione sta diventando un esperimento significativo, anche se ancora contraddittorio e con aree oscure. Ma – in questa fase di regresso democratico – la sua autodifesa, anche un po’ conservativa, merita di essere analizzata e seguita con attenzione.

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