Giampiero Gramaglia[1] ricostruisce “Una settimana di alta tensione non solo sopra il cielo di Gaza e in Israele”. Nel primo pezzo, dal titolo Guerra Israele – Hamas: vittime salgono, governo unità nazionale[2]”, dedicato alla Guerra Israele-Hamas, analizza la formazione del governo di unità nazionale in Israele presentando altresì un utile identikit storico-geografico sull’organizzazione terroristica, nel secondo dal titolo “Il bilancio s’aggrava, striscia di accordi mai rispettati“, dopo presentato l’aggravamento del bilancio delle vittime dei danni in Israele, intorno a Gaza e dentro Gaza , l’ex direttore dell’Ansa ripercorre a sommi capi le tappe di una pace mai realizzata dea Israele e i palestinesi.
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Guerra Israele – Hamas: vittime salgono, governo unità nazionale
Da domenica 8 ottobre, Israele bombarda incessantemente la Striscia di Gaza, dal cielo, dal mare e da terra, dopo che sabato9 ottobre un attacco terroristico senza precedenti, con migliaia di miliziani di Hamas e d’altre sigle, aveva fatto almeno 1200 vittime e circa 3500 feriti fra la popolazione israeliana – sono 163 i militari caduti: dato ufficiale –.
Il governo Netanyahu, che ha proclamato lo stato di guerra contro Hamas e ha richiamato centinaia di migliaia di riservisti, continua a valutare se lanciare un attacco di terra contro la Striscia, dove le vittime sono quasi 900 e i feriti oltre 4250. Secondo fonti israeliane, circa 1500 terroristi sono stati “neutralizzati” in territorio israeliano. I dati sono aggiornati al pomeriggio di mercoledì 11 ottobre.
Hamas smentisce l’intenzione di negoziare sulla liberazione degli ostaggi: ne avrebbe catturati circa 150, soldati – anche ufficiali – e famiglie intere con bambini; e minaccia di ucciderne uno a ogni attacco israeliano condotto senza preavviso. L’organizzazione replica ai bombardamenti con lanci di razzi sul sud e sul centro d’Israele: anche nella giornata di mercoledi 11, le sirene d’allarme hanno ripetutamente suonato. Migliaia di israeliani vivono da sabato nei rifugi: le città sono spettrali, negozi chiusi, vie deserte.
A Gaza, dove interi isolati sono ridotti a macerie, oltre cento mila persone sono rimaste senza casa; e gli ospedali sono già sovraffollati di feriti. Gli effetti dell’assedio totale, niente acqua, cibo, luce, benzina, si fanno già sentire: alle difficoltà materiali, si somma lo stress emotivo per le centinaia di raid condotti dall’aviazione israeliana. Le organizzazioni umanitarie chiedono l’apertura di corridoi per portare viveri e medicinali a Gaza e consentirne l’uscita degli abitanti.
Si teme, e si attende, un’escalation nel conflitto. In Israele, il premier Benjamin Netanyahu e il capo dell’opposizione Benny Gantz hanno concordato la formazione di un governo d’unità nazionale che resterà in carica per la durata del conflitto e prenderà solo decisioni ad esso relative; Netanyahu e Gantz ne faranno entrambi parte.
I racconti dell’orrore di sabato si succedono e si accavallano: 22 le località violate, di cui dei video mostrano atrocità. Dopo i 260 giovani uccisi, mentre partecipavano a un rave festival sul confine con la Striscia, si scoprono i 40 bambini massacrati in un kibbutz a Kfar Azza: alcuni sono stati trovati “con le teste decapitate”, “intere famiglie sono state fucilate nei loro letti”. Fra le vittime e i dispersi di questo conflitto, numerosi stranieri: almeno 14 americani uccisi e di più presi in ostaggio; inoltre britannici, tedeschi, francesi, quasi sempre persone con doppia nazionalità. Di due italiani, che vivevano in un kibbutz investito dall’attacco terroristico, non si hanno notizie.
Il presidente statunitense Joe Biden aveva rinnovato, martedì 10 ottobre, l’appoggio a Israele più volte espresso dall’inizio del dramma:
“Faremo in modo che abbia tutto quanto gli serve per proteggere i suoi cittadini, difendersi e rispondere all’attacco”.
Biden bolla l’azione terroristica come “atto di pura malvagità”, promette ulteriori aiuti militari, fra cui il reintegro del sistema anti-aereo Iron Drome, e si attende che il Congresso non metta il bastone fra le ruote.
L’Aeronautica dello Stato ebraico ha annunciato l’uccisione del ministro dell’Economia di Hamas, Jawad Abu Shamala. L’esercito israeliano ha intimato ai palestinesi di lasciare Gaza e raggiungere l’Egitto, ma il Cairo ha chiuso il valico di Rafah a tempo indeterminato. Hamas ha invece avvisato martedì 10 ottobre gli abitanti di Ashkelon, 40 km a nord della Striscia: “Lasciate la città entro le 17”; poi, sono piovuti i razzi, che hanno preso di mira anche l’aeroporto di Tel Aviv.
Dal sud del Libano sotto controllo di Hezbollah, milizia vicina all’Iran e alleata di Hamas, è partita un’altra raffica di ordigni indirizzati verso Israele. L’esercito ha risposto con la sua artiglieria.
In Israele, gli sviluppi militari si intrecciano al dibattito politico su Benjamin Netanyahu, premier d’un governo di ultra destra che non avrebbe dato ascolto agli avvisi egiziani che segnalavano attacchi dei miliziani integralisti. I media raccontano che Abbas Kamel, il capo degli 007 del Cairo, aveva avvertito il governo israeliano verso fine settembre, prospettando “un’operazione terribile” al confine con Gaza.
Ma l’esercito israeliano era piuttosto concentrato sulla lotta al terrorismo in Cisgiordania e aveva pure ridotto i ranghi per una festività ebraica, la Simchat Tora. Le critiche a Netanyahu sono aspre, il quotidiano Haaretz ne chiedeva le dimissioni. Ma la decisione di creare un governo d’emergenza mette la sordina al dibattito.
I ministri degli Esteri dei 27 dell’Unione europea si sono riuniti sempre martedì 10 ottobre: quella che una volta si chiamava ‘questione palestinese’ resta divisiva. Bloccati, comunque, gli aiuti non umanitari a Gaza.
La Lega araba s’è riunita mercoledì 11 ottobre al Cairo: la portata dell’azione terroristica contro e la cattura degli ostaggi preoccupano molti Paesi, in questa fase che pareva distensiva nel Medio Oriente. L’Egitto, che forse medierà, vede
“una pace giusta e globale, basata sulla soluzione dei due Stati”, come via “per raggiungere una sicurezza reale e duratura per il popolo palestinese”.
Politico parla
“del regalo di Hamas a Putin”, perché – spiega – “la Russia fa affidamento, e in parte alimenta, focolai di tensione in parti del Mondo per sottrarre all’Ucraina energie dell’Occidente”.
Se questa lettura è corretta, Niger, Nagorno e Israele sarebbero un’unica strategia.
L’impatto economico di questa guerra è tutto da valutare. Già si parla, però, di forniture energetiche a rischio e di allerta per i gasdotti, potenziali obiettivi terroristici.
Guerra Israele – Hamas: chi sono i protagonisti palestinesi
Hamas, dall’arabo ‘Movimento della resistenza islamica’, venne fondato nel 1987 da Ahmad Yassin, un esponente della Fratellanza musulmana egiziana. Il giorno prima della sua formale costituzione, l’8 dicembre 1987, un incidente tra israeliani e palestinesi nel campo profughi di Jabalia nel nord di Gaza scatenò la prima intifada, la ‘rivolta’ palestinese contro l’occupazione israeliana di Striscia e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme.
Lo statuto di Hamas fu redatto nel 1988. Il suo preambolo cita la lotta contro “l’invasione sionista” in Palestina; il movimento islamico non riconosce infatti il diritto di Israele ad esistere come Stato.
Hamas è considerata un’organizzazione terroristica da Israele e da Stati Uniti, Canada, Unione europea e Giappone. Altri Paesi considerano terrorista solo l’ala armata del movimento islamico.
Il 25 gennaio 2006, qualche mese dopo l’evacuazione degli israeliani dalla Striscia di Gaza, Hamas vinse le elezioni. Nel 2007, cacciò dalla Striscia l’Autorità nazionale palestinese, guidata da al-Fatah. mAl-Fatah (‘l’apertura’) è la componente politica palestinese più moderata, in dialogo con l’Occidente. Il suo leader è Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Ismail Haniyeh è il massimo dirigente politico di Hamas ed è subentrato nel 2017 al leader storico Khaled Meshaal. Dal 2020 Haniyeh gestisce il movimento islamico da Doha, in Qatar.
Yahya Sinwar è invece il leader politico del Movimento islamico che opera all’interno della Striscia di Gaza. Sinwar ha trascorso 22 anni in una prigione israeliana per avere pianificato il rapimento e l’uccisione di due soldati israeliani. Nel 2011, quando in Israele era già premier Netanyahu, Sinwar fu liberato insieme ad altri circa mille prigionieri palestinesi in cambio di Gilad Shalit, un soldato franco-israeliano detenuto per cinque anni da Hamas a Gaza.
Il braccio armato di Hamas, noto con il nome di Brigate Izz al-Din al-Qassam, fu fondato nel 1992. Prende nome dallo sceicco che, negli Anni Trenta, guidò la rivolta palestinese contro i britannici. Oggi il comandante della Brigata al-Qassam è Mohammed Deif (in arabo Ospite). Il nomignolo gli deriva da una pratica dei militanti palestinesi che, per non essere rintracciati dai servizi israeliani, cambiano casa ogni notte.
Deif è un super ricercato da Israele, sopravvissuto a tentativi di cattura numerosi. Un suo fratello è stato ucciso nelle operazioni in corso, insieme alla sua famiglia. In un bombardamento aereo vent’anni or sono, Deif perse una gamba e un braccio; la moglie e il figlio di 7 mesi furono uccisi dalle Forze di difesa israeliane nel 2014. Deif è considerato l’organizzatore dell’attacco a Israele lanciato il
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Il bilancio s’aggrava, striscia di accordi mai rispettati [3]
Israele avverte l’Onu che la popolazione di Gaza Nord, oltre un milione di persone, deve evacuare entro 24 ore: una mossa che, per le Nazioni Unite, avrebbe “conseguenze umanitarie devastanti” e che sembra preludere a un attacco di terra nella Striscia dove continuano senza tregua raid e bombardamenti come ritorsione agli attacchi terroristici letali dello scorso fine settimana. Hamas, invece, invita i palestinesi a restare nelle loro case: la loro presenza fa da scudo a un attacco, o almeno lo intralcia.
In un’aritmetica dell’orrore, le vittime civili palestinesi, quasi 1500, hanno superato le israeliane, circa 1300. Ne restano fuori i 1500 terroristi palestinesi ‘neutralizzati’ dai militari israeliani. E ci sono gli ostaggi, un numero imprecisato, forse fino a 150. Il rischio di escalation è evidenziato dagli scambi di tiri avvenuti nel Nord di Israele con miliziani sciiti in Libano e in Siria e dai raid condotti la scorsa notte dall’aviazione israeliana contro aeroporti e obiettivi nei due Paesi.
La diplomazia internazionale è impegnata su un doppio fronte: testimoniare solidarietà e vicinanza a Israele, dov’è stato il segretario di Stato statunitense Antony Blinken e dove sono oggi leader dell’Ue; e lavorare per ottenere la liberazione degli ostaggi ed evitare una escalation che infiammi ancor più tutta la Regione. In questa fase, sono protagonisti, fra gli altri, Egitto, Qatar, Turchia; e ritrova voce e volto, pur sbiaditi, l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che governa la Cis-Giordania, il cui presidente Abu Mazen era stato quasi assente per oltre 72 ore.
Un attivismo che stride con la distrazione di anni, quasi l’indifferenza degli ultimi 18 mesi, quando l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha catalizzato l’attenzione occidentale. Ma il conflitto tra israeliani e palestinesi in Medio Oriente, ora divenuto la guerra tra Israele e Hamas, non ha mai trovato pace e ha sempre continuato a covare sotto la cenere dello strabismo internazionale, alimentato dal mancato rispetto d’accordi e d’impegni.
Guerra Israele-Hamas: il fronte umanitario
Le agenzie dell’Onu presenti nella Striscia di Gaza prospettano il rischio di una crisi umanitaria: mancano i medicinali, oltre ad acqua, cibo, luce, energia. Si pensa di creare corridoi umanitari: l’opzione non pare imminente. I ministri degli Esteri dei 27 non cancellano l’aiuto umanitario, ma s’impegnano a rivedere i fondi per i palestinesi che Hamas potrebbe utilizzare in modo improprio.
Stati Uniti e Qatar concordano di bloccare l’accesso dell’Iran al 6 miliardi di dollari ‘scongelati’ nell’ambito di uno scambio di prigionieri tra Teheran e Washington, in attesa che vengano accertate eventuali responsabilità iraniane nell’attacco terroristico del 7 ottobre. Il blocco segue aspre critiche dell’opposizione repubblicana all’Amministrazione Biden, perché c’è il sospetto che Teheran abbia finanziato e sostenuto l’operazione terroristica.
Israele – palestinesi: le tappe di una pace mai realizzata
Israele non aveva più visto nulla di simile agli orrori del 7 ottobre da quando, nel 1948, si combatté la Guerra d’Indipendenza: né la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, né la Guerra del Kippur nel 1973 – della quale cadeva l’anniversario il giorno dell’attacco terroristico – s’erano sviluppate sul territorio dello Stato ebraico.
Dopo quei conflitti, la storia dei rapporti fra israeliani e arabi e poi fra israeliani e palestinesi è fatta di accordi che hanno portato grandi speranze e che non sono mai stati rispettati; di lunghi momenti insurrezionali – le Intifade -; di azioni militari israeliane limitate nel tempo ma cruente; di attentati sempre seguiti da rappresaglie talora sproporzionate nel numero delle vittime.
Gli accordi di Camp David, firmati dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal premier israeliano Menachem Begin il 17 settembre 1978, dopo dodici giorni di negoziati segreti a Camp David, sotto gli auspici del presidente statunitense Jimmy Carter, portarono al trattato di pace israelo-egiziano del 1979, il primo del genere fra Israele e un Paese arabo. Valsero il Nobel per la Pace a Sadat e Begin. Ma, tre anni dopo, costarono la vita a Sadat, ucciso al Cairo il 6 ottobre 1981 da un integralista islamico.
Quindici anni più tardi, la mediazione di un altro presidente americano democratico, Bill Clinton, portò agli accordi di Oslo, una serie di intese concluse il 20 agosto 1993 e ratificate il 13 settembre: erano il frutto di negoziati tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’Olp (che agiva in rappresentanza del popolo palestinese), nel quadro di un processo di pace che mirava a superare il conflitto arabo-israeliano e sanciva il principio dei due Stati indipendenti, ciascuno sicuro all’interno delle proprie frontiere.
Protagonisti di quella fase, accanto a Clinton, erano il premier israeliano Yitzhak Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres e il presidente dell’Olp Yasser Arafat, tutti insigniti del Nobel per la Pace. Questa volta, fu un leader israeliano, Rabin, a pagare con la vita l’intesa: un integralista ebreo lo uccise il 4 novembre 1995.
Gli accordi di Oslo, perfezionati nel 1995 dai cosiddetti Oslo 2, portarono a istituire l’Autorità Nazionale Palestinese, con il compito di autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e la Striscia di Gaza – poi passata, tra il 2006 e il 2007, sotto il controllo di Hamas -; e riconoscevano l’Olp come interlocutore di Israele nelle trattative sulle questioni in sospeso.
I negoziati proseguirono, portando nel 1995 ai cosiddetti accordi di Oslo 2, e suscitarono speranze di normalizzazione delle relazioni di Israele con il Mondo arabo. Ma, in realtà, il conflitto non è stato mai risolto, complice l’intersecarsi, a partire dal XX Secolo, della guerra al terrorismo innescata dall’11 Settembre 2001, e la soluzione dei due Stati non è mai stata attuata. Le questioni più importanti ancora irrisolte riguardano i confini di Israele e Palestina, gli insediamenti israeliani, la presenza militare di Israele nei Territori palestinesi; e la situazione a Gaza, ormai incancrenitasi.
Tra il 2017 e il 2020, la presidenza statunitense di Donald Trump segnò un cambio di tendenza, indicando una via ‘economica’ alla pace di Israele con i Paesi arabi e tralasciando la questione palestinese. Sono i cosiddetti ‘accordi di Abramo’, dal nome del profeta condiviso dalle religioni ebraica e musulmana, che hanno finora coinvolto Emirati arabi uniti, Bahrein, Sudan e Marocco e che, fino alla crisi attuale, stavano vedendo un riavvicinamento significativo tra Israele e Arabia saudita.
Gli ‘accordi di Abramo’ hanno segnato la prima normalizzazione delle relazioni tra un Paese arabo e Israele dopo la pace con l’Egitto nel 1979 e quella con la Giordania nel 1994. L’Amministrazione Trump aveva archiviato l’ipotesi dei due Stati; l’Amministrazione Biden l’ha invece ripristinata, senza però fare passi avanti in quella direzione. Ora, però, la deflagrazione della guerra tra Israele e Hamas rischia di squassare tutto il Medio Oriente e non solo.
Mentre Netanyahu auspica “di schiacciare e di distruggere” Hamas, un’analisi dell’Ap afferma che, nelle tre decadi intercorse dagli accordi di Oslo e, in realtà, fin dalla sua fondazione, Hamas ha sempre avuto la stessa “brutale idea” di vittoria e ha attuato “una strategia coerentemente violenta”, per rovesciare il controllo di Israele sulla Striscia e nei Territori. La linea di Hamas ha segnato “costanti progressi”, nonostante le enormi sofferenze inferte dal conflitto alle due parti.
[1] Ha collaborato Maria Selene Clemente.
[2]Scritto per The Watcher Post e pubblicato l’11 ottobre 2023. Cf.
https://www.giampierogramaglia.eu/2023/10/11/israele-hamas-vittime-salgono/.
[3] Scritto per The Watcher Post, 13 ottobre 2023. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2023/10/13/israele-hamas-striscia-intese/