Democrazia futura invita tutti i cittadini italiani ad esercitare consapevolmente il proprio voto, scegliendo liberamente da chi farsi rappresentare in Parlamento o, al limite, volendo esprimere il proprio malcontento non riconoscendosi in nessuna delle forze in campo, non astenendosi, bensì lasciando bianca la propria scheda. Per questa ragione facciamo nostro lo spirito di questo post personale pubblicato il 17 settembre su Facebook dal nostro collaboratore Venceslav Soroczynski, pseudonimo dietro al quale si nasconde uno scrittore e critico letterario e cinematografico che vive nel Nord-Est, autore di alcuni brevi contributi nelle rubriche finali della nostra rivista. L’autore considera l’esercizio del voto una festa di una democrazia che ci appartiene. “Un festa della mia democrazia a cui non devo rinunciare”. Inutile dire che per il resto il post esprime solo il pensiero dell’autore. Nei confronti del quale ci sia concesso dissentire su taluni giudizi riguardati alcuni candidati e forze politiche in lizza, sia nella forma sia nei contenuti. Ma lo pubblichiamo volentieri. Perché non ci stanchiamo mai di ripetere come Norberto Bobbio che “Democrazia vuol dire dissenso”.
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La mia Democrazia dà una festa. Si svolgerà nel corso di tutta la giornata del 25 settembre.
Era un po’ che non ne dava e, in effetti, mi mancavano. Ma non c’era verso: quelli del piano di sotto sono contrari, dicono che facciamo rumore e mettiamo in agitazione il condominio. L’amministratore non ne parliamo: non abita neanche qui, ma dobbiamo chiedere il permesso prima a lui e, solo all’ultimo momento, possiamo avvisare gli ospiti. Poi, non si sa come, riesce ogni volta ad avere la lista degli invitati e si permette anche di metterci il naso: dice che sono pericolosi, mettono la musica sbagliata e non sanno bere i cocktail.
Insomma, non è mai il momento giusto. Ma la mia Democrazia, ogni tanto, non ne può più e corre il rischio: una festa la fa.
E quando va in cucina, io la seguo e l’aiuto a riempire i vassoi. Intanto, le parlo: le consiglio di cambiare amministratore, le faccio l’elenco di tutti gli errori che ha fatto, le mostro quanto ci costa e le spiego che ci sta solo usando per raggiungere i suoi scopi. Ma la mia Democrazia certi discorsi non li vuol sentire, dice che non ha voglia di parlare di queste cose durante le feste. Io le chiedo allora quando ne potremo parlare, visto che non ci vediamo mai! Lei ribatte che ci sono ospiti, di là, e che potrebbero entrare da un momento all’altro.
La verità è un’altra, io lo so: la mia Democrazia le questioni scomode non le vuole affrontare. Io cerco di farle capire che, invece, deve occuparsi delle sue cose. Deve: la facciata che dà sulla strada, fra le più belle della città, ha perso pezzi di intonaco; il portone d’ingresso non si chiude, il giardino è trascurato, le erbacce sono ovunque e, negli angoli, si sono accumulati rifiuti. La luce delle scale non funziona e l’ascensore fa un rumore preoccupante. – È ora di fare qualcosa – le dico. Mi metto di fronte a lei e le parlo come se fosse una bambina. – Ma sì, lo so… – risponde lei – Aspettami qui, vado di là a portare i tramezzini –. Appoggio il calice vuoto e la osservo mentre va in salotto, accolta dai commenti famelici degli ospiti, interessati al cibo più che alla padrona di casa. Deve esserci qualcosa di accusatorio nel mio sguardo, perché, quando ritorna in cucina, alza al cielo gli occhi e il palmo delle mani, come a dire che ci posso fare? Poi si appoggia al piano, di fianco a me, e versa da bere a tutti e due. – Si può ancora fumare, qui? – le chiedo. – Sì, – mi risponde – ma non in camera da letto –. Le dico: – Ti sei accorta che ogni volta hai meno ospiti? E sono sempre i peggiori a tornare. Mangiano, bevono e non aiutano a rimettere a posto. Ascolta… – le faccio, mentre di là cominciano a litigare.
Appoggia il bicchiere e mi guarda, io mi giro verso di lei, le prendo il viso fra le mani e la osservo. Mi piace, la mia Democrazia, non saprei come fare senza di lei. Non ho mancato una delle sue feste, da quando avevo diciotto anni. Ci voglio essere, mi va di rivederla. Lei è nata tanti anni fa, ma è ancora giovane e bellissima. O forse è invecchiata, ma io non me ne accorgo, perché non ho lo sguardo dell’estetista. Cerco solo i suoi occhi e sono vivi e luminosi e pieni di speranza.
Ma lei è disorientata, non riesce a difendersi, dimentica chi è. È una donna fragile e se ne approfittano tutti.
Non è che siamo qui da troppo tempo? – mi dice, sottovoce. – Macché, – rispondo io – quelli stanno bene anche senza di te. Anzi, se non ci sei, sono più tranquilli. Sentili! C’è quello più grosso di tutti, com’è che si chiama? Ah, sì, il Partito Demotivante. Senti come parla bene, quel diseredato, comincia ogni discorso dicendo “Noi dobbiamo”: infatti, devono. Anzi, dovevano! Non riesce neanche a guardarti in faccia, mentre parla, deve concentrarsi sul discorso che ha imparato, altrimenti lo dimentica. Non gli interessi affatto, ormai dovresti essertene accorta. E poi si è portato dietro quei due ragazzini che urlano e fanno capricci e si cagano ancora nelle mutande. Hanno anche dei nomi di merda: Italia Vile e reAzione. Guardali! Sono appena arrivati e hanno già smerdato la poltrona che si disputano. E quell’altro, Vomitamente 5 Stronzi? Quello sciocco è partito per l’Antartide con le ciabattine da mare e ha già perso quattro dita dei piedi.
La mia Democrazia ride, sembra non preoccuparsi del rischio che corre.
Ma, secondo me, non ha voglia di tornare di là. E, quindi, continuo: – E quell’altro, com’è che si chiama: Fotti Italia? Egocentrico, falso, incapace di accettare il declino. Non ti ha già stuprata una volta? E gira ancora per la città. E tu ancora lo inviti? E quello col telefono in mano? Bega Salvini Premier, si chiama: un collezionista di figure di merda, che ti deve soldi per i prossimi settant’anni. E poi c’è quella che urla e sgrana gli occhi: la Figlia di Ignobili. Ma la vedi? Sta bruciando le vecchie foto, si vergogna del suo passato remoto e anche di quello recente! Fa finta di essere diversa, ma non vede l’ora di mettersi al tavolo con l’amministratore. Ma poi: non te ne sei accorta? Questi bastardi fanno di tutto per non far venire gli altri ospiti. Hanno messo in giro la voce che alle nostre feste non ci si diverte, che non c’è niente da fare. La verità è che hanno paura di essere buttati fuori da casa tua. E sarebbe ora che tu lo facessi, basta guardare quanto sei annoiata e stufa di vedere sempre le stesse facce orribili.
In quel momento, il telefono della Democrazia suona. Lei lo cerca, fra i bicchieri e i tovaglioli. – Giù in strada c’è qualcun altro! – dice, sorpresa, dopo aver letto il messaggio. E continua a guardare il piccolo schermo. – Però, non ricordo di averli inviatati, questi qui –. E mi mostra il telefono. – Non importa, – faccio io – vai al citofono e falli entrare, magari ci divertiamo –. Io appoggio il bicchiere sul piano della cucina e la guardo negli occhi. Lei mi guarda, sembra avere ancora dei dubbi. – Abbracciami – mi dice, all’improvviso. E io l’abbraccio e la tengo stretta. Poi esce dalla cucina e va verso l’ingresso, senza guardare quelli che sono seduti sul divano.
Il 25 settembre, la mia Democrazia dà una festa. Io ci vado, perché non la vedo da tanto. E mi manca. E spero che venga tanta gente e che sia una grande festa. Come disse Francis Scott Fitzgerald, le grandi feste sono così intime. Nelle feste piccole, non c’è intimità.