Sull’onda della nota quanto dotta analisi effettuata da Umberto Eco su un altro “amico” del piccolo schermo, Mike Bongiorno, Guido Barlozzetti ci propone la fenomenologia di una grande soubrette. Nel breve saggio “Una e trina. Il mito di Raffaella Carrà”, l’esperto e conduttore televisivo descrive infatti la parabola “di un fenomeno televisivo, nella radice etimologica che rimanda al phainomai che dice di un “apparire”: insomma, ciò che di lei abbiamo visto del suo diveniente sembiante sullo schermo della televisione”, ripercorrendola come una triade che da “Folletto erotico” la fa diventare “Signora dei fagioli” sino ad essere “Fata taumaturga”. Divenuta nel tempo solo Raffaella “come quelli, pochi e ognuno a suo modo unico, che chiamiamo per nome, Mike, Corrado, Pippo… insomma, la cerchia degli amici che gli spettatori hanno via via accolto nel loro guscio domestico instaurando un sempiterno e reciproco rapporto di simpatia e fedeltà […] è da questo punto di vista un fenomeno che può aiutare a capire quale costellazione passionale presieda a questa relazione e il modo particolare in cui viene declinata, al punto da generare la continuità di un’affezione che attraversa i decenni” chiarisce Barlozzetti, aggiungendo: “La [sua] scomparsa determina dunque un fenomeno collettivo di lutto e di elaborazione della perdita, in cui va in scena una vera e propria cerimonia collettiva” di cui lo studioso descrive qui i tratti distintivi, sottolineando poi due elementi nella sua “lunga carriera”: “originalità e continuità”, prima di ripercorrere le tappe artistiche di questa “lunga storia mutante” secondo la triade sopraindicata, dall’edizione di Canzonissima del 1970 del “Tuca Tuca” a “La Fata taumaturga di Carràmba! Che sorpresa”. A giusto titolo Raffaella Carrà può essere considerata – conclude Barlozzetti – “un “mostro” della televisione – nel senso etimologico della parola – di un potere metamorfico che non ha mai debordato fino al punto da far saltare i tabù e si è sempre provato con diveniente equilibrio sul bordo in cui si toccano tradizione e trasgressione, seduzione e persuasione, l’evidenza di un mito e il mistero di un’identificazione tra chi appare su un piccolo schermo e chi guarda”.
Nell’effimera storia della televisione Raffaella Carrà ha più di un titolo per insediarsi, così come lo è stata nell’affetto del pubblico che l’ha seguita nelle tante e diverse stagioni di una carriera cominciata all’inizio degli anni Sessanta. Lei come quelli, pochi e ognuno a suo modo unico, che chiamiamo per nome, Mike, Corrado, Pippo… insomma, la cerchia degli amici che gli spettatori hanno via via accolto nel loro guscio domestico instaurando un sempiterno e reciproco rapporto di simpatia e fedeltà.
Ne parliamo come di un fenomeno televisivo, nella radice etimologica che rimanda al phainomai che dice di un “apparire”: insomma, ciò che di lei abbiamo visto del suo diveniente sembiante sullo schermo della televisione. Con “fantasmi realistici” – mi pare l’ossimoro fondante della televisione e del suo potere – abbiamo a che fare e con quelli ci dobbiamo confrontare.
La tele-mitologia, il lutto e la commemorazione
È un rito che si ripete nella circostanza di una scomparsa. Non riguarda solo il territorio della televisione e si estende variamente in tutti gli ambiti del discorso sociale, dallo sport al cinema alla politica alla scienza, vale a dire gli ambiti del discorso sociale in cui emergono delle figure che stringono un rapporto profondo con la “gente”, entità sfuggente che si dà come corrispettivo della comunicazione di massa, nel caso di Raffaella Carrà della televisione generalista che a tutti si rivolge o, meglio si rivolgeva, prima che cominciasse il tempo della convergenza e della rete.
Il rito lo affrontiamo nell’intensità del rapporto che vi si stabilisce tra il pubblico e l’assenza che la cerimonia serve ad elaborare, perché da qui conviene partire per affrontare una protagonista della mitologia televisiva come Raffaella Carrà.
Un regno di cui è bene subito definire alcune coordinate. Non si colloca infatti nell’iperuranio della classicità, da dove governa le cose gli umani con una fatalità che si mescola al capriccio e all’umoralità, e neanche nella sua moderna versione raccolta e custodita nella sala buia da dive e divine del cinema che si manifestano nell’oscurità con un’immagine che risucchia il desiderio e si propone a proiezioni e identificazioni totalizzanti.
Nel regno della mitologia della televisione l’epifania avviene nel tempo della quotidianità, nessuna distanza, tutto alla luce, i teledivi ci guardano, si rivolgono direttamente a noi, come mai un nume hollywoodiano avrebbe fatto. Insomma, ci interpellano in una conversazione che ci elegge a destinatari nel suo schema triangolare che include chi conduce, chi è presente nello studio e chi guarda.
Casa, conversazione e, a chiudere il cerchio, la ripetizione: questi amici, perché questo sono, familiari, confidenti, tutto per essere simpatici, un giorno dopo l’altro, sedimentano, depositano, diventano una presenza abitudinaria di cui non si può fare a meno, un appuntamento a cui non si può mancare.
Quell’amico fa parte di un vicinato che non sta nella strada o nella piazzetta su cui affaccia la casa. Abita nella casa e non tradisce, sarà lì, nel piccolo schermo elettrodomestico all’ora annunciata e manterrà sempre la promessa. Si mostra nella certezza di un rapporto affidabile che viene a dare un lenimento di serenità e confidenza nelle complicazioni e anche nelle solitudini della vita.
Questi elementi però non bastano ancora a dire della genesi della tele-mitologia. O meglio, mentre consentono di capirne la logica differenziale rispetto alle versioni che l’hanno preceduta, non dicono del cosa la fondi, del motivo per cui quel sembiante che appare si insedi nell’immaginario domestico dello spettatore, così da venire incluso nell’ambiente della casa e da aprire il cerchio della famiglia a un nuovo membro che ne accompagna le vicende.
Ecco, Raffaella Carrà è da questo punto di vista un fenomeno che può aiutare a capire quale costellazione passionale presieda a questa relazione e il modo particolare in cui viene declinata, al punto da generare la continuità di un’affezione che attraversa i decenni.
Del grado e dell’intensità raggiunto da questa amicizia testimonia in ogni caso un’evenienza che interviene in modo radicalmente conclusivo: la morte del tele-mito e, appunto, il rito che la accoglie e la padroneggia.
Muoiono questi amici insostituibili e, in un rimbalzo da un medium all’altro, a tempo pieno il pubblico/Paese viene coinvolto, si commuove e partecipa a una cerimonia di addio e di rammemorazione che serve a dire che, sì, il divo è morto ma intanto la sua immagine – che peraltro è il solo tramite attraverso cui l’abbiamo conosciuto – è qui ora e sempre e non la dimenticheremo mai. Torna a invadere i palinsesti come un fantasma ossessivamente replicato per esorcizzare l’inevitabile distacco.
Lo abbiamo verificato in questi anni, quando sono venuti a mancare alcune di queste figure che nel cammino della televisione hanno stretto legami duraturi con il pubblico. Parliamo soprattutto di Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, Fabrizio Frizzi, Anna Marchesini e, appunto, di Raffaella Carrà. Certo, se ne potrebbero citare altre, come Enzo Biagi, Sergio Zavoli o Enzo Tortora, ma dovremmo subito aggiungere che per quanto accolti dagli spettatori, non hanno stabilito il grado di empatia che invece si riscontra negli altri casi.
La scomparsa determina dunque un fenomeno collettivo di lutto e di elaborazione della perdita, in cui va in scena una vera e propria cerimonia collettiva con alcuni tratti caratterizzanti:
- tutti – i tutti del pubblico generalista della televisione – partecipano e sono coinvolti;
- il commiato viene gestito attraverso il ricordo di parenti, amici, colleghi di lavoro in un talk-show che passa da un canale all’altro con immagini della carriera del defunto che deborda da un canale all’altro;
- la cerimonia va avanti fino a includere il rito ufficiale del funerale, dopo di che si conclude e, da un momento all’altro, non potendosi andare oltre e avendo sfiorato l’overdose, si ritorna alla normalità.
Nel caso di Raffaella questo schema ha avuto alcuni tratti distintivi:
- una cerimonia-televisione e, perché Raffaella vuol dire un percorso che dagli anni Sessanta arriva all’attualità e s’intreccia con quello degli Italiani, la cerimonia che ha riguardato il Paese e la sua storia;
- un ricordo che dai talk è passato alla prima serata con la riproposizione su Rai1 di alcune puntate di Carràmba! Che sorpresa, l’ultimogrande successo: Raffaella è tornata nel palinsesto con la messa in onda commemorativa in prima serata;
- l’accompagnamento in diretta della bara che ha attraversato Roma e toccato i luoghi della carriera: lo studio televisivo al Foro Italico, Viale Mazzini e Via Teulada: dunque, una coincidenza tra il tele-divo e l’azienda in cui ha lavorato in un reciproco, simbolico, rimando.
- E poi nel rito sono entrate alcune figure che hanno avuto un rapporto particolare con lei:
- il custode autorizzato delle volontà e dunque destinato a rappresentarla in tutte le fasi di questo racconto finale, Sergio Japino, già compagno nella vita e nel lavoro;
- un testimonial scomparso ma richiamato nella vita televisiva per la lunga consuetudine professionale e sentimentale con Raffaella, a precedere quella con Japino: Gianni Boncompagni, autore e regista di programmi d’intrattenimento ammiccanti e sfrontati, alfiere di un “cinismo” che indirizzava una creatività ironica tutta sull’obiettivo dell’ascolto, contro ogni idea qualitativo-culturale del mezzo.
Fantasmi del passato convivono dunque in questo rito con i fantasmi dell’attualità nel tempo della televisione, nel quale tutti vengono risucchiati – e convivono – in un circuito di autoreferenzialità, a sua volta speculare a quello della memoria degli spettatori.
Una lunga carriera: originalità e continuità
Morta dopo una malattia rimasta nascosta dietro il velo della discrezione, Raffaella Carrà della relazione con il pubblico e del suo immaginario è stata un’interprete per tanti versi originale, nel segno di una continuità tutta giocata sulla trasversalità dell’empatia e di un’immagine che ha saputo sempre trovare le chiavi d’accesso al desiderio degli spettatori, la vera porta che le ha consentito l’accesso al domestico Olimpo dei tele-divi.
Nel cuore degli spettatori in tempi molto diversi, proiettata al top fin dai primi anni Settanta, ha svolto una carriera che, a parte l’inizio, peraltro dopo un limbo alla ricerca di una direzione, ha raggiunto un paio di vette epocali per lei, per la televisione e per la storia del costume del Paese.
Una lunga storia quella di Raffaella, che ne spiega l’assunzione nel mito. Una storia che si è via via adeguata ai tempi e in cui lei è entrata con la seduzione del corpo e un’intelligenza reattiva come un radar che capta le emozioni del pubblico e gliele restituisce con un appeal irresistibile.
Una e molteplice è stata Raffaella che si chiamava Pelloni, come il brigante che infestò le Romagne nell’Ottocento, la terra in cui visse l’infanzia prima di entrare a otto anni nella scuola di danza romana di Jia Ruskaja, e che quel cognome cambiò negli anni Sessanta su suggerimento di un regista di sceneggiati, Dante Guardamagna, che amando la pittura la convinse a diventare…Carrà.
Potevano essere diversi gli esiti, a lungo Raffaella si provò come attrice nel cinema e negli sceneggiati.
Dopo il Centro Sperimentale di Cinematografia, fu interprete per Florestano Vancini ne La lunga notte del ’43 e ne I compagni, come anche in un rapido e senza ulteriori code passaggio hollywoodiano, Il colonnello Von Ryan, in cui fu accanto a Frank Sinatra, un maschio ormai agli sgoccioli della carriera.
E dopo quella Hollywood appena annusata, eccola passare per alcuni sceneggiati (tanto per ricordarne qualcuno, I grandi camaleonti, 1964, e Scaramouche, l’anno dopo, con Domenico Modugno) per arrivare, in un gioco di esclusioni, alla ribalta degli show televisivi.
Con Io, Agata e tu (1970) la prima scossa sismica e poi le due Canzonissime con Corrado che la insediano nell’immaginario del Paese con due exploit sulla nuova frontiera dell’erotismo della tv: l’esposizione dell’ombelico e la danza del “Tuca tuca” con Enzo Paolo Turchi.
Nel 1974, lo snodo simbolico di Milleluci (1974), con la regia di Antonello Falqui, storico vate del varietà, e accanto a una sacerdotessa del sabato sera, Mina, che lì avrebbe chiuso il suo cammino televisivo lasciandole il testimone.
A quel punto è definitivamente Raffaella. Un folletto che esibisce il corpo, spande simpatia, presenta, balla e canta canzoni anabolizzanti e sempre sul bordo di un ammiccamento effervescente, colonne sonore e inno a una vita che mette alle spalle le ombre e vuole afferrarsi ai piaceri fondamentali, A far l’amore comincia tu – che Paolo Sorrentino riprende nella caverna-discoteca de La grande bellezza – Rumore, Tanti auguri, Fiesta, Forte forte forte, Chissà se va…
È il caso di approfondire questo primo, clamoroso, successo, tenendo a mente che non sarà un punto d’arrivo ma un esaltante trampolino di lancio per altre avventure.
Siamo all’alba degli anni Settanta, tortuosi e dolorosi per il Paese, e il pubblico viene colpito da un corpo femminile che esibisce tratti che bypassano la televisione, per quanto gloriosa e a suo tempo innovativa, degli Studio Uno, delle gemelle Alice ed Ellen Kessler con calzamaglia e un garbatamente ammiccante dadaumpa, della modernità disinvolta di Mina:
- una verve immediatamente empatica, un’immagine di contagiosa frenesia che esce da tutti i pori e dà sfogo all’energia che quel corpo libera: libertà che ovviamente non ha nulla di assoluto ma ne sposta un perimetro facendo cadere le costrizioni di un costume sorvegliato che, a quel punto, anche un servizio pubblico pedagogico deve mandare in archivio;
- i capelli biondi e lunghi agitati qua e là sono uno dei segni distintivi nel loro vorticoso e liberatorio oscillare nell’aria, con la testa di Raffaella che in un dinamismo provocante si rovescia ora da una parte ora dall’altra;
- gli occhi trasparenti e accesi, pieni di quella festosa e promettente energia, occhi che centrando quelli di chi guarda catturano e alludono;
- i balli e le canzoni a celebrare un’irresistibile festa tribale, di cui lei è una sorta di sciamana catodica che con la sua apparizione e il suo movimento perpetuo innesca un addomesticato rito orgiastico, circondata da una tribù adorante di maschi che non si limitano a fare ala a una discesa dalla scalinata, come ai tempi di Wanda Osiris, ma le smaniano frementi intorno.
Tutto questo ha generato il mito televisivo di Raffaella e lanciato un’immagine di galvanico erotismo che l’ha accompagnata, via via adeguandosi ai tempi e all’età. Mentre l’Italia entrava nella stagione dei consumi, del marketing e del packaging, la televisione dell’ormai declinante monopolio adeguava l’immagine del prodotto e rinnovava la seduzione di un intrattenimento con un sorvegliato fremito da giudiziosa trasgressione, da ballo sulla spiaggia in costume e neanche troppo.
Raffaella nella sua agitazione goduriosa era ecumenica e intercettava sia i sogni degli uomini, sia la complicità di donne finalmente felici di vedere una di loro che lasciava andare le briglie senza inibizioni e esponeva una (misurata) potenza del corpo e del desiderio che lo attraversa, alla fine perfettamente compatibile con il realismo pragmatico e misericordioso della Democrazia Cristiana e dei suoi missi dominici nella televisione pubblica.
Il cinema, secondo una divisione del lavoro che lo vedeva riparato nella sala buia e, pur nei modi della commedia, autorizzato a lanciare una provocazione più pruriginosa e sessualmente esplicita, proponeva bonarie trasgressioni di massa con il filone erotico, la commedia sexy dei maschi variamente allupati (Lando Buzzanca, Alvaro Vitali, Renzo Montagnani, Aldo Maccione, Gianfranco D’Angelo, Bombolo & Cannavale…) con stelline procaci e dai pudori facili (Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Laura Antonelli, Gloria Guida, Carmen Villani, Serena Grandi, Pamela Prati…).
Raffaella era la loro versione a misura della declinante pedagogia popolare della televisione e di estri che annunciavano altro.
Su questa strada ha camminato, perfezionando e variando, selezionando, aggiungendo e ricomponendo. E non solo in Italia, come dimostra il grande successo che con Hola Raffaella! conquistò in particolare nella Spagna-movida post-franchista, ma anche in tanti altri paesi europei e nell’America meridionale, anche in questo caso a dimostrazione di un feeling latino immediato, di un alone seduttivo, complice e vitale, da festa spensierata che metteva al centro una bambola pimpante e coinvolgente, capace di arrivare subito al cuore più sensibile di chi la guardava e ascoltava.
È significativa la celebrazione apparsa quasi un anno fa il 16 novembre 2020 sull’inglese Guardian con un titolo, “Raffaella Carrà: the Italian pop star who thaught Europe the joy of sex”, che ne esaltava il ruolo nell’emancipazione di un Paese all’ombra della Chiesa: “Un’icona culturale che ha rivoluzionato l’entertainment italiano e ha dato alle donne la possibilità di prendere l’iniziativa in camera da letto”[1].
Un giudizio memore dell’epifania di lei soprattutto nel gioco dell’ombelico nella Canzonissima del 1970 e del “Tuca tuca” con Enzo Paolo Turci nella successiva a percorrerne la silhouette nell’edizione dell’anno successivo, su cui avrebbero forse prevalso gli strali ecclesiali se non fosse stato per lo sdoganamento grazie alla performance irresistibile con Alberto Sordi che eccitò il plebiscito del popolo tutto.
Il Folletto erotico
Cosa dire di questi giudizi che enfatizzano la trasgressione di Raffaella Carrà? Colgono un’evidenza e però non ne afferrano la virtù sostanziale, e cioè una duttilità che, come detto, mentre si scatenava e trascinava sulla pista dell’eros, a tutta la famiglia ha sempre guardato, mettendo insieme gli ormoni dei mariti, i desideri delle mogli e pure quelli dei bambini, affascinati dalla sua mise di Maga Maghella nell’infrasigla della Canzonissima del 1971 e dai suoi colloqui con un timido e innamorato Topo Gigio (e sarebbe volgare, certo, ma forse avrebbe anche un senso nemmeno troppo riposto pensare a lei come a una “topastra” che in questo caso fa innamorare – e tiene a bada – il topo…).
Maestra del darsi e negarsi, figura di una proposta sessuale lanciata e subito ricomposta. Valga per tutti gli esempi che si possono fare, la velata e imbarazzata pudicizia con cui affrontò/subì un satireggiante Roberto Benigni che la circuiva snocciolando il dizionario all’italiana su “quell’affare là”.
Era il 1991, da vent’anni era Raffaella. Il Paese veniva dalla primavera degli anni Ottanta e ancora non sospettava l’imminenza di Mani Pulite. Nella cornice di Fantastico 12, la televisione generalista di Rai1 si permetteva di mettere insieme nell’acceleratore nucleare della diretta una coppia esplosiva: Roberto Benigni – già Mario Cioni, Televacca, L’altra domenica, Il Pap’occhio, Non ci resta che piangere, Il piccolo diavolo.. – cioè il campione di un linguaggio del corpo che veniva giù dalla tradizione dei Ruzante, Aretino Pietro, Baffo, dallo sberleffo bestemmiatore contadino (che paradossalmente lui avrebbe piegato verso l’umanesimo godereccio e senza complessi con cui avrebbe letto e straletto canti e canti della Divina Commedia), e la seducente versione della femminilità da televisione di tutti, avvolta in un vestito rosso fino ai piedi con spacco anteriore, messa lì a fronteggiare l’irruzione selvaggia delle pulsioni primitive.
C’era solo da vedere la reazione che ne sarebbe scaturita.
E, in effetti, le attese non vanno deluse. Benigni fa Benigni, tracima, mentre le mani si protendono, snocciola il dizionario più popolare del sesso femminile, giocando sulla trasgressione di chi dice ai quattro venti ciò che lì – nello studio della televisione, luogo custodito e controllato per eccellenza – dovrebbe essere interdetto, con un interminabile florilegio della “patonza”, da diavoletto popolare impertinente che, nella parola, porta la pulsione primaria, prima che l’educazione e le costumanze vengano a coltivarla.
Se volete, un torero che conquista il centro dell’arena, sbraita, urla, spinge sull’eccesso e, in uno scambio delle parti, diventa il toro che “minaccia” la pulzella indifesa e arriva persino a farla cadere e a saltarle addosso, da corpo tutto fallico che incombe non sulla donna ma su quella parte – “che cosa c’avete là?! – che tanto lo attrae.
E Raffaella? Sembra vacillare, cerca di tenerlo a distanza, ma ne accetta il gioco e lascia che imperversi, come una Penelope che all’invadenza dei Proci oppone una resistenza passiva, ma sotto sotto si fa complice, divertita delle intemperanze che fanno saltare ogni copione con la forza imprevedibile dell’evento. Il gioco del darsi/negarsi che Benigni sottopone a uno stress-test a cui lei accondiscende.
Insomma, resiste alla piena di un orco-clown, lascia che si sfoghi nelle sue “eiaculazioni” verbali, non negandosi – divertita – a una qualche condivisione, e alla fine lo ringrazia e lo congeda. La padrona del campo è lei.
Una lunga storia mutante
Abbiamo visto il Big Bang dell’ingresso a pieno titolo del folletto erotico Raffaella nel regno teledivino dalla porta del varietà. Ha molte qualità su cui poter contare, qualità che possono comporsi in tanti modi e proporzioni fra di loro. All’inizio canta e balla, ma rapidamente comincia a… parlare, con la prontezza sicura e la disinvoltura di chi tiene la scena e sa bene il punto a cui può arrivare per rafforzare il legame con il pubblico, oltre il quale si può solo rischiare di comprometterlo.
In effetti, ci vuol poco a capire che Raffaella è una materia duttile e flessibile che può modularsi sulle combinazioni più diverse, avendo sempre come collante decisivo un’immagine dalla simpatia immediata, gli occhi, il sorriso, il corpo fremente, lo stacco di una gamba, la battuta pronta ma senza eccessi d’ironia o forzature scandalistiche, sempre ancorata a una medietà d’espressione che le permettono di rivolgersi a tutti e da tutti essere accolta.
Su questa base si costruisce la carriera e la durata di Raffaella, una e molte, al tempo stesso, come se quella costellazione di qualità con cui si impone fosse la dote su cui via via ricomporre i pezzi di un’identità diveniente che non nega mai quello che è stato ma lo toglie e lo conserva per riproporsi a un livello diverso, atteso e insieme sorprendente.
Abbiamo conosciuto così una multi-Raffaella che, dopo l’incipit del varietà, in stagioni diverse del cammino della televisione, si ripropone in ruoli inediti e gioca ogni volta la sfida di un cambiamento, nel rapporto con il pubblico, nel modo di proporsi come protagonista della televisione, funzionale all’evoluzione dell’offerta, alle dinamiche delle tecnologie e dei media, sempre alla necessità strutturale per le reti generaliste di allestire eventi tali da raccogliere audiences record.
Accade almeno due volte che per un verso raccontano della capacità di reinventare un’immagine e continuare a sorprendere gli spettatori, dall’altro la insediano in snodi decisivi del cammino della televisione italiana, tutti nel perimetro del servizio pubblico.
La Signora dei Fagioli
1984, è il tempo in cui più accesa è la competizione tra il servizio pubblico e la televisione commerciale di Silvio Berlusconi. La Rai cerca di conquistare territori inesplorati nel palinsesto quotidiano e esce dal cerchio di un’offerta da troppo tempo fondata sulla ripetizione.
Umberto Eco parlò di “neotelevisione”, sostanzialmente basata sulla diretta – e quindi sulla forza dell’accadere in quel momento – e sull’interlocuzione con il pubblico, non più solo spettatore ma protagonista continuamente sollecitato a mantenere il contatto con un programma e, volendo, a intervenire attraverso lo strumento del telefono, con una conseguente proliferazione di giochi a premio, i più vari, tutto sostenuto da conduttori sempre più intrattenitori che non smettevano di ripetere ossessivamente “restate con noi”.
Su Rai1 in particolare si punta su una conversazione familiare che valorizzi al massimo il plus del live che manca alla concorrenza e dissodi territori che fino ad allora la televisione ha trascurato.
Così la programmazione si estende a tutta la giornata, all’insieme del day-time, e va ad occupare fasce orarie vergini come la prima mattina, il mezzogiorno o la seconda/terza serata. Con alcuni obiettivi complementari:
- consolidare un’immagine complessiva della rete che ormai deve accompagnare il pubblico a tempo pieno, prevenendo uscite o fughe verso altre destinazioni televisive, e facendo in modo di avere una riconoscibilità in ogni momento della programmazione: una conseguenza di questa logica sono i programmi-contenitore come Domenica in o Mixer;
- perseguire in ogni fascia l’audience più alta possibile in modo da venderla agli inserzionisti pubblicitari e vincere nella competizione Auditel con l’antagonista privato;
- puntare sulla diversificazione e la qualità, uscire dalla claustrofobia replicante dello studio e dalle sue ritualità: ad esempio, Renzo Arbore riprova nella seconda/terza serata l’esperimento già svolto con successo con L’altra domenica (1976/79) nella Rete Due post-Riforma diretta da Massimo Fichera, e sulla stessa rete spinge su ironia e trasgressione surreale e nonsense con Quelli della notte e Indietro tutta.
La seconda stagione di Raffaella Carrà sta in questa cornice.
A lei – e all’astuta regia di Gianni Boncompagni – viene affidata una trasmissione nella terra fino ad allora incognita della fascia meridiana. Si intitola Pronto, Raffaella? e dice subito di almeno tre novità:
- la centralità del telefono e dunque la possibilità per lo spettatore di entrare nel programma e parlare con la conduttrice;
- il rapporto senza mediazioni, la confidenza con chi conduce, chiamata semplicemente con il nome, come si fa con un amico o un parente;
- il tempo della diretta che scardina i copioni e dà vitalità al programma, tutto assumendo nel testo, errori, imprevisti, incidenti, al punto che nel tempo si finirà per simularla e programmarla con sorprese e irruzioni debitamente costruite.
Basta dunque Raffaella, colloquiale e familiare, non c’è bisogno di aggiungere Carrà. Lei seduta su un divano orchestra giochi e s’intrattiene con il pubblico adorante che la chiama al telefono. Nel programma ci sono spazi per il canto e il ballo, però la svolta è rappresentata dall’inedito ruolo che ne fa una pioniera della conversazione televisiva in uno studio arredato come se fosse una casa, con la centralità del salotto alle cui spalle si vede una finestra con veduta di Roma che cambia a seconda delle condizioni meteo.
Pronto, Raffella? è la trasmissione dei fagioli nel barattolo di cui il pubblico al telefono – porta irresistibile che ammette finalmente lo spettatore nell’Olimpo della tv – deve indovinare il numero.
Raffaella gestisce da signora televisiva il salotto ed entra stabilmente nelle case con il suo mix irresistibile, addomesticato e perfettamente in linea con un’idea consensuale, divertita e leggera di un intrattenimento in cui lei porta la sua nuova verità, a misura delle famiglie ma non dimentica degli estri che suscitano la sua disinvoltura, il caschetto biondo e un’immediatezza che non s’impara da nessuna parte.
Ci fu chi ironizzò su quell’esca lanciata al pubblico, la Rai, il servizio pubblico, i fagioli da contare… Ma è proprio questa vituperata banalità a dire di una formula che si rivelò infallibile di un successo televisivo.
Raffaella arrivava a sedere in quel salotto meridiano forte di un appeal consolidato e condiviso. Era cresciuta dai tempi del Tuca tuca, ma non lo aveva rimosso: era sempre lei e quell’estro non era soltanto un ricordo ma un motivo in più per essere complici con quella Signora che entrava nelle case e come accade nelle favole proponeva degli indovinelli che avrebbero dovuto sciogliere gli incantesimi profani e serializzati nella quotidianità della televisione.
E, come nelle decoubertiniane Olimpiadi, l’importante non era vincere ma partecipare a un gioco – che non richiedeva competenza alcuna ma nella sua banalità risultava insolubile – e soprattutto entrare in contatto con Lei, con la diva seduta sul divano, traduzione televisiva a uso e consumo di massaie e casalinghe delle coppie etrusche distese sui sarcofagi e delle Paoline Borghese accomodate su un’agrippina.
Pochi istanti, concessi a pochi fortunati, che attraverso il telefono possono bucare lo schermo e saltare dall’altra parte entrando in contatto con la Signora che è cresciuta con chi la guarda in un cammino parallelo che torna ancora una volta a incrociarsi. Un’amicizia si riconferma e Raffaella la ricontestualizza con una prossimità… distante: siede di fronte allo spettatore, parla con lui e con il sorriso dell’ottimismo promette di vincere, una presenza a portata di mano e tuttavia separata, familiare e nell’aura del piccolo schermo dotata di un potere benefico che la sposta nel soprannaturale. La Signora dei Fagioli è una Fata e ogni giorno è qui per noi.
La Fata taumaturga di Carràmba! Che sorpresa
Dieci anni dopo, la metamorfosi tocca un altro stadio e per certi versi si compie. Raffaella nel 1995 torna con Carràmba! Che sorpresa, un altro botto negli ascolti e un altro passo, l’ultimo, nella mitopoiesi di Raffaella Carrà.
Il programma traduce per l’Italia un format inglese, Surprise, Surprise, e inaugura una nuova stagione dove fanno spettacolo i sentimenti degli “uno, nessuno e centomila” che si annidano nel pubblico e dove la televisione diventa lo spazio magico in cui contravvenire al destino e riallacciare rapporti e storie che sembravano per sempre interrotte.
Perché ciò avvenga serve uno spazio magico e un officiante del rito con i poteri necessari perché diventino realtà sogni che sembrano impossibili. Il primo è quello che si apre nella scatola epifanica della televisione, lì può avvenire quello che nella vita è precluso, lì Raffaella può dispiegare tutte le sue virtù perché, a questo punto, è a tutti gli effetti la Fata che realizza i desideri, una qualità che era in nuce nella Signora dei Fagioli e ora può manifestarsi in pieno.
È lei che riallaccia fili interrotti dalle vicende della vita e dal trascorrere del tempo, e riunisce genitori e figli, fratelli e sorelle, amici del tempo che fu, commilitoni che non si vedono dal tempo della guerra, … oppure realizza il sogno di incontrare il cantante preferito, il campione del calcio, l’attore adorato, o ancora in una nuova incarnazione del potere taumaturgico che consentiva ai Re di fare miracoli e salvare i sudditi da morbi incurabili, propizia ricoveri e cure per chi sembra ormai non avere speranze.
Siamo al massimo dell’emozione e della commozione, le storie di Raffaella mirano al cuore dello spettatore e non inciampano mai, si aprono e si concludono felicemente e dimostrano che il destino non esiste, che la fatalità che sembrava irreversibile può essere sconfitta e che anche gli ostacoli più ardui possono cadere grazie alla fata-regina.
Tocca, insomma, a Raffaella inaugurare una televisione della lacrima ipernazional-popolare che fa storcere il naso agli intellettuali che, già diffidenti nei confronti delle nefaste influenze del piccolo schermo, vi vedono un cedimento insopportabile alla più epidermica emozionalità e al ricatto dei buoni sentimenti.
Ma tant’è, quegli intellettuali non colgono che nello spazio-tempo di Carràmba! Che sorpresa la televisione generalista raggiunge un estremo di potenza nel rapporto con il pubblico, un vertice nella sua traiettoria fatta di conduttori-demiurghi che diventano punto di riferimento nel movimento centripeto che va dalla massa di spettatori, atomizzati nei loro nuclei home, al piccolo schermo.
E Raffaella custodisce, nell’evidenza delle sue magiche manifestazioni, il mistero di questa scintilla che scocca sulle pulsioni più immediate e profonde e che immedesima lo spettatore nel cerchio di una storia che si chiude e su quel punto sublima la propria mancanza, trova dei sembianti… si commuove e piange. A certificare provvedono le audience milionarie e gli share che arrivano a superare il 50 per cento.
Anche qui si apre una strada che avrà epigoni clamorosi (per tutti, Alberto Castagna e Stranamore… e poi a seguire l’esibizionismo reality dal Grande Fratello all’Isola dei famosi) e che Raffaella interpreta avendo il sesto senso che la mette istantaneamente in sintonia con i cordi e i precordi dei protagonisti degli incontri ravvicinati e del pubblico.
D’altronde, di questo è fatta quella televisione, del potere di suggestione che ha, della capacità di chi sa maneggiarlo e dell’attesa di chi guarda, del bisogno di rassicurazione che arriva da storie con un happy end che nella vita non ha uno sceneggiatore che lo garantisca.
Carràmba va avanti per sette anni, fino al 2002, poi torna nel 2008/9.
Su quella scia, Raffaella si era ri-provata nel 2006 in Amore, un programma che una volta di più faceva leva sui sentimenti invitando il pubblico all’adozione a distanza (alla fine ce ne furono più di 130 mila), e poi aveva distribuito la sua presenza tra cd, partecipazioni a programmi, e concerti (da ricordare un duetto molto amicale con Renato Zero) spot pubblicitari (tra cui quello con Neri Marcoré in cui diventa Isabella di Castiglia). Fino alla coach di Voice of Italy su Rai2 e, nel 2019 su Rai3, ai racconti-intervista di A Raccontare comincia tu.
Ma già dal 2006, a certificare la sua appartenenza ormai al mondo iperuranio e domestico della televisione aveva provveduto su Rai3 una puntata de La storia siamo noi. Un programma attento alle vicende della nazione e della società riconosceva che Raffaella è stata uno dei protagonisti che hanno spostato l’effimera storia della televisione in quella di un Paese.
Una e trina
Folletto erotico, Signora dei fagioli e Fata taumaturga, le stagioni di Raffaella Carrà si sono susseguite. Viste retrospettivamente vi si coglie una continuità scandita da fasi di mutazioni profonde che non arrivano mai a mettere in discussione il riferimento a lei, anzi ne riconfermano il matrimonio con il pubblico.
Scoperta una strada, Raffaella l’ha perseguita fino a quando la ripetizione l’ha decisa ad abbandonarla. Poi, con intervalli, pause e trasferimenti – gloriosi – all’estero, con il coraggio di chi non teme di sottoporsi a un cambiamento, ha ricominciato ed è tornata a mettersi alla prova degli spettatori e a verificare come rilanciare un antico legame.
Si è confrontata con il tempo che passa, ha avvertito il rischio dell’usura dell’immagine e ogni volta ha cambiato gioco: mito sessuale light all’inizio, poi la padrona di un salotto e l’inizio di una magia, quindi una catodica divinità capace di intervenire nelle relazioni umane e di indirizzarle al meglio.
E il pubblico l’ha accolta e poi seguita, fino all’estremo di una dea ex machina che governa e indirizza al meglio le relazioni umane.
Dal profano ombelico alla santificazione nella chiesa della televisione.
Dal corpo che si dimena allo spirito che salva.
Questo ci lascia,Raffaella Carrà, la parabola di un “mostro” della televisione – nel senso etimologico della parola – di un potere metamorfico che non ha mai debordato fino al punto da far saltare i tabù e si è sempre provato con diveniente equilibrio sul bordo in cui si toccano tradizione e trasgressione, seduzione e persuasione, l’evidenza di un mito e il mistero di un’identificazione tra chi appare su un piccolo schermo e chi guarda.
[1] Angelica Frey, ““Raffaella Carrà: the Italian pop star who thaught Europe the joy of sex”, The Guardian, 16 novembre 2020. Cfr. https://www.theguardian.com/music/2020/nov/16/rafaella-carra-the-italian-pop-star-who-taught-europe-the-joy-of-sex.