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Democrazia Futura. Un Parlamento senza qualità: governare a colpi di decreto

Pubblichiamo di seguito il contributo di Carlo Rognoni, giornalista ed ex presidente del Forum del Pd per la riforma del sistema radiotelevisivo, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0 e diretta da Giampiero Gramaglia. a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.

Alcuni dati giusto per inquadrare il problema

Nella XVII legislatura – che va dal 15 marzo 2013 al 22 marzo 2018 – sono state approvate 339 leggi, 263, il 77,58 percento di iniziativa governativa, 71, il 20.94 percento di iniziativa parlamentare, 1 di iniziativa regionale e 4 di iniziativa mista, i decreti legislativi sono stati 234, 100 i decreti legge. E i dati non sono certamente diversi e più confortanti se si guarda all’attuale legislatura.

Insomma, quando si dice che la funzione legislativa da tempo è stata ridotta a un’azione di passiva ratifica delle scelte del governo, si dice una verità assoluta. La crisi indotta dal Covid-19 ha ancor di più aumentato il peso del governo rispetto alle Camere. Si tratta di una verità che nel suo insieme mette in discussione la qualità stessa della democrazia, della politica, della rappresentanza, della partecipazione.

Nella Legislatura in corso, poi il fenomeno si è accentuato non solo per la devastante crisi legata al diffondersi del virus ma anche per effetto del cosiddetto “contratto di governo”. Il partito A decide di votare per la proposta che interessa il partito B perché sa che successivamente il partito B voterà per una proposta che interessa il partito A. “Questo meccanismo di scambio rende il voto della maggioranza, paradossalmente, più compatto di quanto accadeva con le maggioranza fondate su un programma comune che richiedeva a ciascun parlamentare la condivisione delle misure votate”.

Oggi invece il mio voto a favore di un progetto è determinato non dalla condivisione ma dalla possibilità di avere il voto favorevole dell’alleato su un progetto che invece mi sta a cuore. Secondo uno studio recente sui lavori parlamentari oggi “i governi e le maggioranze parlamentari continueranno a pesare in modo decisivo, perché la interconnessione globale tra tutti i Paesi tende a favorire i sistemi più veloci nel decidere ed è indifferente alla salvaguardia dei principi democratici”.

Non c’è più niente da fare?

C’è modo oggi di salvaguardare il principio di rappresentanza nel Parlamento, oppure non c’è più niente da fare? Una via per ridare un ruolo forte alle Camere c’è: è quella del controllo. E’ più importante approvare una legge oppure verificare come quella legge è stata applicata? E’ più importante, dal punto di vista del vigore della democrazia, presentare 100 emendamenti o studiare le relazioni della Corte dei Conti e chiamare il Governo a rispondere di quanto rilevato dalla magistratura contabile?

E’ recentissima una riforma costituzionale francese (23 luglio 2008) che attribuisce alle assemblee parlamentari specifici poteri di controllo sull’azione del governo, trasformando la valutazione delle politiche pubbliche in una vera e propria funzione parlamentare.

Ecco, per esempio, alcune delle novità introdotte dalla riforma francese: la destinazione di una settimana ogni mese all’ordine del giorno dell’Assemblea al controllo e alla valutazione parlamentare; la consacrazione costituzionale delle commissioni di inchiesta, delle missioni di informazione e di valutazione; un controllo più rigoroso delle questioni europee; l’istituzione del controllo parlamentare sulle nomine; il riconoscimento del diritto di votare risoluzioni; il rafforzamento dell’assistenza della Corte dei conti per il controllo sul bilancio. E altro ancora.

Ora, tuttavia, si dà il caso che il controllo costituisce materia più difficile dell’attività legislativa. Esige competenza, studio, capacità di riflessione, qualità. Esige soprattutto un’adeguata organizzazione dei gruppi parlamentari di opposizione, che evidentemente hanno più interesse della maggioranza all’attività di controllo. Troppo! Troppo vista la qualità degli attuali membri delle Camere? Nel 2001 Dahrendorf affermò: “Forse la democrazia non è morta, ma i parlamenti decisamente si”.

I parlamenti hanno dovuto affrontare una nuova sfida che è molto insidiosa e che deriva dalla combinazione di due elementi: lo straordinario sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa unito all’emergere di movimenti politici populisti.

C’è una riflessione dello storico israeliano Yuval Noah Harari che merita di essere condivisa: “Al crescere del volume dei dati e della velocità con cui si diffondono, venerabili istituzioni come le elezioni, i partiti politici e i parlamenti potrebbero diventare obsolete … Queste istituzioni si sono sviluppate in un’epoca in cui la politica si evolveva più in fretta della tecnologia … le rivoluzioni tecnologiche adesso avanzano più in fretta dei processi politici, determinando quella perdita di controllo che parlamentari ed elettori sperimentano da qualche tempo”.

Velocità e populismo

Non c’è ombra di dubbio che dopo la radio, dopo la televisione, internet ha sconvolto la politica e le sue istituzioni. Oggi la velocità della comunicazione in rete ha mutato il dibattito politico. I tweet – tanto per parlare di un solo esempio di comunicazione a cui ricorrono sempre più spesso tanti leader politici – hanno esaltato l’aspetto dell’annuncio puro e semplice e ridotto drasticamente i processi di confronto e mediazione propri del parlamentarismo.

C’è poi un fenomeno che è cresciuto a dismisura e che si nutre delle nuove tecnologie: il populismo. Contrapposto alla democrazia rappresentativa e al parlamentarismo, il populismo esalta il rapporto diretto tra il leader politico e il popolo visto come un’entità organica. “Il populismo è disintermediazione della decisione politica”. Mentre la democrazia rappresentativa costituisce per gradi il processo decisionale, il populismo propugna la cosiddetta democrazia diretta e il parlamento è visto in prospettiva come un qualcosa di inutile che si frappone allo stretto legame fra il capo e il suo popolo.

In Italia in questa legislatura stiano assistendo a un attacco diretto all’istituzione parlamentare. E’ un attacco che si sviluppa su tre direttrici:

Non dimentichiamo che sempre in questa legislatura la Camera dei deputati ha detto il primo si alla riforma costituzionale che introduce il referendum propositivo. Se la riforma giungerà ad una definitiva approvazione assisteremo a un vero e proprio mutamento di sistema. Un istituto del genere si pone in concorrenza con la funzione legislativa del parlamento e può delegittimarlo compromettendo uno dei cardini della democrazia rappresentativa.

In un testo di Vincenzo Lippolis dell’Università degli Studi internazionali di Roma si legge fra l’altro: “è sufficiente ricordare il persistere e l’aggravarsi della pratica della fiducia su maxi-emendamenti governativi presentati all’ultimo momento” per rendersi conto di quanto pesi la compressione del confronto parlamentare. “La discussione del bilancio per il 2019 ha assunto toni surreali con i parlamentari impegnati a dibattere un disegno di legge che non rispondeva più alla realtà perché il governo stava ancora trattando con l’Unione europea“.

E l’esito della trattativa è poi confluito nel maxi emendamento.

 Il ricorso alla decretazione d’urgenza non ha avuto rallentamenti, nonostante le lamentazioni. Intanto è stata prospettata un’altra importante compressione delle capacità del parlamento di incidere su una questione vitale dell’assetto della nostra Repubblica. E parlo della procedura di approvazione delle intese fra governo e regioni sull’autonomia regionale differenziata e rafforzata. Praticamente siamo in presenza di un parlamento tagliato fuori da un reale coinvolgimento nei diversi aspetti specifici di una decisione complessa e messo di fronte all’alternativa tra accettare o mandare a monte ogni intesa.

Affrontiamo infine il tema del divieto di mandato imperativo. E’ noto che il M5S intende circoscrivere la libertà nell’esercizio delle funzioni che l’articolo 67 della Costituzione assegna a ogni singolo parlamentare.

Chi decide?

Altrettanto grave è la disposizione statutaria interna secondo cui il parlamentare può essere obbligato a pagare 100 mila euro “se abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico”.

E chi decide? Una piattaforma informatica gestita da una società privata. Davide Casaleggio in una intervista del settembre 2018 ha detto che “con il progressivo sviluppo degli strumenti di partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica, molte delle funzioni tradizionali del parlamento verranno meno e si trasformerà in qualche cosa d’altro che ancora non siamo in grado di immaginare”. Come è noto Casaleggio è un privato cittadino, un imprenditore, che è al vertice del M5S e determina le strategie della forza politica maggiormente rappresentata nelle Camere.

Nel volume Homo videns del 1999 Giovanni Sartori, ancora prima dell’avvento di internet e riferendosi a una politica condizionata solo dalla televisione (un condizionamento evidentemente minore) affermava: “Chi in queste condizioni invoca e promuove un demos che si autogoverna è un truffatore davvero senza scrupoli o un puro irresponsabile, un magnifico incosciente”.

C’è la possibilità di porre rimedio alla crisi delle istituzioni parlamentari? La trasformazione in atto del parlamento, di uno dei capisaldi della democrazia occidentale così come negli anni l’abbiamo conosciuta, è reale. Non è frutto solo di una retorica propagandistica. “Per questo occorre esercitare il pensiero critico, per individuare i percorsi di riforma utili per rinvigorire il parlamento”. Non mi meraviglio né mi scandalizzo se si ipotizzassero innesti di istituti di democrazia diretta, nella prospettiva dell’integrazione e collaborazione tra i poteri sovrani.

Già! Peccato che gli attuali parlamentari non sembrino affatto all’altezza del compito. Oggi, infatti, il punto forte sembra essere la riduzione del numero dei parlamentari (non il superamento del bicameralismo). E’ il mantra populista della riduzione dei costi della politica parlamentare.

C’è poi quella che gli esperti costituzionalisti chiamato “l’initiative”, la cui introduzione equivale all’innesto di uno strumento di decisione popolare diretta in luogo del modello di government by discussion. Ha tutta l’aria di essere un passo decisivo nella direzione del superamento della democrazia rappresentativa. Il processo politico-parlamentare viene considerato non più la regola ma un altro modo di fare legislazione, limitato a ipotesi marginali, ben potendo essere sostituito dall’innesto di initiatives popolari che possono portare a risultati positivi considerati per definizione “migliori”, proprio perché provenienti dal popolo. Siamo ben lontani dalla possibilità di ridare qualità e forza al Parlamento.

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