“In lui la diversità era percepita come la cultura dell’altro, del diverso al quale riconosceva pari dignità. Di qui – aggiunge lo storico sardo – la serietà e la tenacia con cui prendeva appunti, nei dibattiti, sugli interventi di tutti. Il suo anticomunismo era esplicito, fortissimo, ma non intinto né di uno spirito da fronte popolare (il limite della cultura di Pietro Nenni) né di un autonomismo becero o spavaldo”.
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Cercavo in questi giorni un libro di Ugo Intini, una sua storia del socialismo italiano che mi pare di avere riecheggiato da qualche notizia (non so quanto fondata) on line. Pensavo di chiamarlo al telefono per averne una copia e recensirla. Mi è rimasto tutto in mano appena la notizia della sua scomparsa ha occupato ogni pensiero.
Ugo Intini per me è stato l’immagine del socialismo che ho amato, e credo si sia perso. Abbiamo avuto dei rapporti fin da quando ero iscritto al Pci, e lui era alla testa dell’Avanti!.
Pubblicò delle mie cose senza mai compiacenza o ironia. Erano, queste, reazioni facili, forse inevitabili, per chi aveva di fronte un reprobo, un candidato all’apostasia. Avendo preso la tessera con la falce e martello perché i grandi movimenti di massa che avevo vissuto nella Torino della fine degli anni Sessanta potessero avere uno sbocco in alcune grandi riforme, non avevo, però, mai rinunciato a rivendicare la mia a cultura liberal-socialista.
La moralità di Ugo Intini è stata sempre nel saper ascoltare, nel non imporre le sue idee, neanche quando erano decisioni di Bettino Craxi. Nelle discussioni il suo dissenso era solo la manifestazione nitida di una diversa opinione, non l’aria pedagogica di un esponente della maggioranza che esibiva una direttiva o peggio un ordine. In lui la diversità era percepita come la cultura dell’altro, del diverso al quale riconosceva pari dignità.
Di qui la serietà e la tenacia con cui prendeva appunti, nei dibattiti, sugli interventi di tutti. Il suo anticomunismo era esplicito, fortissimo, ma non intinto né di uno spirito da fronte popolare (il limite della cultura di Pietro Nenni) né di un autonomismo becero o spavaldo.
La tenacia con cui lo praticava gli derivava dal fatto che il fallimento su scala universale del comunismo era sotto gli occhi di tutti. Il richiamo era all’esito plateale del dispotismo del partito-Stato, del primato della soggettività (la coscienza dell’antagonismo) sullo sviluppo del capitalismo, del leninismo comunque rimaneggiato.
A questo sistema e alla sua applicazione nei paesi più diversi – con una prassi in cui la violenza politica è stata la regola – non è sopravvissuto. Si trattava di esperienze e di culture che a lui come alla mia generazione provenivano dalla sintesi espressa dal grande teorico della socialdemocrazia tedesca Karl Kautsky. Mi riferisco al saggio pubblicato nel 1919, cioè qualche anno dopo la rivoluzione sovietica del 1917: Terrorismo e comunismo (l’editore Bocca ne farà una traduzione in italiano nel 1920).
Nel clima di tolleranza, di rispetto, di libertà che Ugo Intini (seguito dal suo successore Roberto Villetti) ha saputo creare si sono formati giornalisti, studiosi e politici dalle appartenenze più diverse. Aveva creato una scuola di vera e propria educazione politica.
Grande è la tristezza di doversi stringere attorno alla sua famiglia e dire addio al suo fondatore.