Giuseppe Richeri, professore emerito ed esperto di politica ed economia delle comunicazioni in un articolo su “Cina e Afghanistan”, descrive – come recita l’occhiello – “Le tre ragioni per le quali Pechino vuole intavolare negoziati con il nuovo regime talebano”. Premesso che “Siamo stati quotidianamente informati di ciò che accade in Afghanistan, delle malefatte dei talebani, dell’abbandono dei diritti umani, dei “risultati” degli eserciti occidentali sotto la guida degli Stati Uniti e ora rimossi” e che “Adesso sarebbe utile una maggior attenzione ai 15 milioni di afgani senza cibo, al 70 per cento degli afgani sotto il livello di povertà, ai conflitti tra le varie etnie che rendono difficile la stabilizzazione di un governo capace di affrontare questi problemi, e dopo aver sottolineato come “dopo la sconfitta afgana, per gli Stati Uniti la politica anti-cinese, suo principale “nemico” su scala mondiale, sia diventata il terreno di rilancio della propria egemonia internazionale e di riaffermazione delle alleanze con i paesi più direttamente coinvolti tra cui l’Australia, il Giappone e India”, Richeri cerca di chiarire perché “paesi come la Russia e la Cina hanno aperto le trattative per concordare aiuti e relative condizioni destando crescenti preoccupazione per gli Stati Uniti e loro alleati”, attribuendoli a tre ordini oggetto di approfondimento nei successivi paragrafi. Da un lato si tratta di evitare che il territorio afghano possa servire da base di addestramento per formazioni terroriste jihadiste impegnate a sostegno delle rivendicazioni autonomiste se non indipendentiste degli Uiguri, la popolazione musulmana dello Xinjang. Dall’altro “l’interesse cinese a che l’Afghanistan contribuisca, appena possibile, a garantire una politica stabile, di cooperazione e di pace con gli altri paesi limitrofi dell’Asia Centrale come Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan”, ossia “in un’area strategica lungo la via della seta fra Cina ed Europa”. Infine decisivo è “L’interesse economico di Pechino per lo sfruttamento dei giacimenti afgani”, nella fattispecie conclude Richeri “per poter disporre di “terre rare”, molto presenti nel territorio afgano, essendo adatte a creare in particolare nuove forme di circuiti integrati, ovvero il “petrolio” dei prossimi decenni”.
Siamo stati quotidianamente informati di ciò che accade in Afghanistan, delle malefatte dei talebani, dell’abbandono dei diritti umani, dei “risultati” degli eserciti occidentali sotto la guida degli Stati Uniti e ora rimossi.
Adesso sarebbe utile una maggior attenzione ai 15 milioni di afgani senza cibo, al 70 per cento degli afgani sotto il livello di povertà, ai conflitti tra le varie etnie che rendono difficile la stabilizzazione di un governo capace di affrontare questi problemi.
L’occidente è stato capace di valutare i morti e il costo dell’iniziativa insieme all’insuccesso dell’impegno ventennale, mentre gli Stati Uniti trattavano da soli con i talebani per uscire dalla guerra, lasciando i loro alleati fuori dalla porta. Un atteggiamento di superiorità rispetto all’Europa confermato nel più recente accordo tra Stati Uniti, Regno Unito e l’Australia per realizzare sommergibili a propulsione nucleare di stanza in Australia con funzioni anti-cinese, all’insaputa degli altri “alleati” europei e ai danni della Francia, col suo contratto miliardario abbandonato.
Iniziative anticinesi statunitensi a tutto raggio
Lo slancio di iniziative anti-cinesi degli Stati Uniti è a tutto raggio: politiche e militari, tecnologiche e commerciali, umanitarie e culturali. Molti alleati seguono a ruota, anche se qualcuno è poco convinto e tiene distinti i propri interessi da quelli americani per poter eventualmente reagire nel proprio interesse.
L’impressione è che, dopo la sconfitta afgana, per gli Stati Uniti la politica anti-cinese, suo principale “nemico” su scala mondiale, sia diventata il terreno di rilancio della propria egemonia internazionale e di riaffermazione delle alleanze con i paesi più direttamente coinvolti tra cui l’Australia, il Giappone e India. Ma nella situazione di difficoltà interna in cui vive l’America di Joe Biden, la Cina rappresenta anche la “tipica” minaccia esterna capace di contenere i conflitti nazionali per affrontare congiuntamente, democratici e repubblicani unitamente a dissidenti vari, la competizione e l’eventuale conflitto col nemico.
Un confronto che ormai non è solo tecnologico e commerciale, ma anche militare a tal punto che da qualche tempo negli Stati Uniti molte fondazioni, istituti universitari, think-tank studiano e discutono pubblicamente di eserciti, armamenti, conflitti, alleanze, nel caso di una eventuale guerra tra le due potenze.
Le trattative avviate a Cina e Russia con il regime dei talebani a Kabul
In questo panorama non pacifico le vicende afgane hanno degradato non solo l’immagine e la credibilità occidentale e, soprattutto, degli Stati Uniti, ma sono pronte a giocare una nuova partita sotto la possibile influenza del campo opposto.
Oggi i talebani hanno in mano il potere a Kabul e in larga parte del paese anche se hanno di fronte una situazione caotica dal punto di vista sociale e militare, un territorio da pacificare e ricostruire e la necessità di trovare all’estero gli aiuti necessari per affrontare la situazione ben oltre quelli attesi dalle organizzazioni umanitarie internazionali.
Mentre i paesi occidentali, dopo la sconfitta, osservano le difficoltà dei talebani senza intervenire, paesi come la Russia e la Cina hanno aperto le trattative per concordare aiuti e relative condizioni destando crescenti preoccupazione per gli Stati Uniti e loro alleati.
L’Afghanistan è un paese che ha una rilevanza centrale (non ci sarebbero state le guerre per conquistarla). Una rilevanza da come un lato economica, legata alla ricchezza delle sue risorse naturali, dall’altro anche geografica per i suoi confini con paesi anch’essi d’importanza strategica nello scacchiere dell’Asia Centrale.
Gli Stati Uniti stimano che il sottosuolo afgano valga circa tre migliaia di miliardi, una stima che può dare l’ordine di grandezza degli interessi economici attesi. I giacimenti sono numerosi e vanno dal rame ai metalli ferrosi, bauxite, idrocarburi, gas naturali, uranio, oro e altro comprese le “terre rare”, componenti importanti per lo sviluppo tecnologico. Mentre i paesi della regione confinanti con l’Afghanistan sono Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Pakistan, ciascuno con storia e collocazione politica diversa.
Si tratta di un orizzonte di grande interesse per la Cina che in prospettiva intende ottenere dal governo di Kabul quanto più possibile almeno su tre piani diversi ciascuno con proprie scadenze specifiche non coincidenti fra loro.
Pechino e le rivendicazioni autonomiste o indipendentiste degli Uiguri nello Xinjang sostenute da formazioni terroriste jihadiste
Il piano più immediato che sta assorbendo molte energie da parte della Cina sia sul piano interno sia su quello internazionale è costituito dalla regione dello Xinjang a nord-ovest del paese, ai confini con l’Afghanistan, dove vive una popolazione di religione islamica e di lingua d’origine turca. Una regione che ha ottenuto da tempo un certo grado di autonomia, ma che suscita ancora forti rivendicazioni locali e il desiderio di una parte di loro di ottenere maggior autonomia o l’indipendenza. Il governo cinese dal 1990 ha assistito a contestazioni crescenti e, dopo il Duemila anche ad atti di terrorismo commessi localmente e in altre regioni cinesi compresa Pechino.
L’accusa mossa da vari paesi occidentali verso la Cina è di aver adottato da vario tempo una politica molto dura contro gli Uiguri, la popolazione cinese mussulmana dello Xinjang, che si basa da una parte sul trasferimento nella regione di un numero crescente di abitanti di altre regioni cinesi non islamiche, dall’altra di raccogliere varie centinaia di migliaia di Uiguri in aree speciali dove subiscono una rieducazione favorevole al governo cinese. Attività regolarmente negata da Pechino.
La Cina è certa che esistano tuttora attività di gruppi terroristi interni ed esterni al paese in grado di mantenere la tensione soprattutto nella regione, alimentando relazioni tra Uiguri e popolazioni a loro affini in altri paesi limitrofi con finalità anti-cinesi.
Tra queste l’organizzazione più attiva e “pericolosa” è l’East Turkistan Islamic Movement (Etim), ovvero il Movimento Islamico del Turkestan, precedentemente noto come Movimento Islamico del Turkestan orientale, fondato da jihādisti uiguri nella Cina occidentale e che sarebbe finanziato secondo i cinesi anche dagli Stati Uniti. Insieme a Taiwan e Hong Kong, ognuno con caratteri diversi, lo Xinjang costituisce un problema al centro dell’agenda politica di Pechino, anche perché rappresenta uno dei terreni di accuse “formali” lanciate dagli Stati Uniti e da alcuni dei loro alleati contro la Cina. Chi da tempo alimenta atti terroristici in Cina e, soprattutto, l’Etim, ha finora trovato appoggio in alcune aree dell’Afghanistan e il primo punto che i cinesi vogliono ottenere da Kabul è che non ci sia alcuna accondiscendenza nei loro confronti escludendo il loro possibile insediamento in aree dell’Afghanistan, ovvero la possibilità che l’East Turkistan Islamic Movement usi zone del paese per arruolare e addestrare terroristi del proprio gruppo e che sia vietata altresì la raccolta di fondi e di altre risorse a loro sostegno.
L’interesse cinese per stabilizzare un’area strategica lungo la via della seta fra Cina ed Europa
Altrettanto importante – ma rimasto in secondo piano – c’è l’interesse cinese a che l’Afghanistan contribuisca, appena possibile, a garantire una politica stabile, di cooperazione e di pace con gli altri paesi limitrofi dell’Asia Centrale come Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan che in molti casi sono ricchi di giacimenti naturali, quindi obiettivo interessante per altri paesi anti-cinesi, e che sono indispensabili per sviluppare le vie di collegamento terrestri tra la Cina e l’Europa e possono contribuire alla realizzazione della Belt and Road Initiative, vasto programma di cooperazione lanciato qualche anno fa dalla Cina.
L’interesse economico di Pechino per lo sfruttamento dei giacimenti afgani
Il terzo obiettivo, di medio e lungo termine, che la Cina intende trattare con il nuovo governo di Kabul è quello economico. La rilevanza economica e strategica dei giacimenti dell’Afghanistan è di grandi dimensioni (si parla di un valore intorno ai tre mila miliardi di dollari) e si tratta di un capitale che per varie ragioni è stato finora poco sfruttato.
La Cina vorrebbe ottenere la concessione almeno di una parte consistente di questo patrimonio che l’Afghanistan non sarebbe in nessun modo capace di sfruttare, ma che non dovrebbe andare nelle mani “nemiche”.
Oltre alle ragioni economiche generali su questo fronte ci sono almeno due obiettivi specifici. Il primo è che la Cina deve importare ogni anno grandi quantità di petrolio, gas naturale e altre materie prime, avendo risorse nazionali scarse e non in grado di seguire il crescente sviluppo dei consumi personali e industriali. I giacimenti afgani costituirebbero per Pechino un’opportunità attesa perché eviterebbe l’incognita di dover ogni volta negoziare con altri paesi. Il secondo piano riguarda gli obiettivi che la Cina si è data sul piano tecnologico, che entro il 2035 dovrebbero portare il paese allo stesso livello degli Stati Uniti. Per raggiungere questa meta saranno necessari grandi sforzi sul piano industriale e in questa direzione rivestirebbe grande importanza poter disporre di “terre rare”, molto presenti nel territorio afgano, essendo adatte a creare in particolare nuove forme di circuiti integrati, ovvero il “petrolio” dei prossimi decenni.