La rottura fra Matteo Renzi e Carlo Calenda è l’oggetto della riflessione di Stefano Rolando nel pezzo intitolato “Terzopolo fratto due[1]“. Nell’agosto del 2022, all’atto della mini-coalizione di centro tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, scrissi un commento “a caldo”. Pur sentendo amici e conoscenti che contro la polarizzazione della politica dicevano che c’era finalmente un’offerta anche contro l’astensione; pur avvertendo nei circuiti del civismo progressista che era tornata una certa fregola partitica grazie a due considerati intelligenti e spavaldi; pur riconoscendo alcuni loro interventi azzeccati nella sostanza o sul tempismo; tuttavia – lanciando lo sguardo magari un po’ più avanti e tentando qualche analisi di minima profondità – intitolai il mio commento “Il duo di Piadena”. Nel senso di un duo cult nella musica popolare italiana degli anni Sessanta, dunque di canterini non di filosofi, di intrattenitori non di statisti. […] Due che per rigenerare veramente una vera nuova forza liberaldemocratica – osserva Rolando – avrebbero dovuto dedicarsi ad un serio aggiornamento degli aspetti teorici, in sé molto complessi, appunto della liberaldemocrazia, aggiornata al terzo millennio e su scala globale”. Per Rolando La rottura tra Matteo Renzi e Carlo Calenda a questo punto da un lato potrebbe anche essere un fattore di chiarimento politico, nel senso di un’opportunità di riaprire un cantiere della politica intermedia su altre basi, ma che porta con sé l’altro lato, cioè alcuni seri rischi, che anche dall’interno dei due partiti sono balenati tra i primi commenti. E che spingono ora alcuni esponenti a cercare quella che appare una impossibile ricomposizione”.
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Torno brevemente su una notizia, politicamente forse attesa ma mediaticamente considerata eccitante, che ha ancora una certa scia sulla stampa, come il divorzio ancora in luna di miele tra Carlo Calenda e Matteo Renzi. Rappresentazione, in questo caso, come crisi spettacolare della politica.
Vorrei innanzi tutto provare a dire che, passata l’eccitazione giornalistica, potrebbero derivare da questo evento alcuni rischi involutivi per l’Italia e per la democrazia italiana.
Nell’agosto del 2022, all’atto della mini-coalizione di centro tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, scrissi un commento “a caldo”. Pur sentendo amici e conoscenti che contro la polarizzazione della politica dicevano che c’era finalmente un’offerta anche contro l’astensione; pur avvertendo nei circuiti del civismo progressista che era tornata una certa fregola partitica grazie a due considerati intelligenti e spavaldi; pur riconoscendo alcuni loro interventi azzeccati nella sostanza o sul tempismo; tuttavia – lanciando lo sguardo magari un po’ più avanti e tentando qualche analisi di minima profondità – intitolai il mio commento “Il duo di Piadena”.
Nel senso di un duo cult nella musica popolare italiana degli anni Sessanta, dunque di canterini non di filosofi, di intrattenitori non di statisti.
Due, per dirla più in sostanza, che rispetto al berlusconismo – diciamo il modo ormai poco accettabile di immaginare il “centro” – non davano propriamente l’idea di ripristinare l’indispensabile cultura dei partiti contendibili, tema per cui Forza Italia ha avuto per venticinque anni la sua malattia proprio nei suoi membri di primo piano dediti a un “ben ripagato servizio” ma mai in libera battaglia politica, cioè in condizioni di vera democrazia interna, come prevede la Costituzione. E qui va detto tra parentesi che almeno il Partito Democratico di Elly Schlein ha dimostrato che la contendibilità interna resta ancora, se la si vuole, una via praticabile.
Tornando ai due, va ancora detto che, rispetto al populismo – altra ipoteca con aspetti estremisti ma anche di centro – con un contrasto che richiede razionalità e rigore, loro avrebbero venduto la madre per una battuta.
Due che per rigenerare veramente una vera nuova forza liberaldemocratica avrebbero dovuto dedicarsi ad un serio aggiornamento degli aspetti teorici, in sé molto complessi, appunto della liberaldemocrazia, aggiornata al terzo millennio e su scala globale.
Rimaneva certo l’energia di due abbastanza giovani temprati dai successi e insuccessi, quindi forse anche maturati. Con spunti a volte interessanti ma che spesso si richiamavano a storie che apparivano improvvisate, poco studiate, pressati dal tenersi soprattutto le mani libere per la cosa in fondo più bramata, il posizionamento tattico. Con il tallone di Achille di uno pseudo patto sulla leadership interna che non è riuscita a contenere la pulsione mai celata per due leadership in verità concorrenti.
La rottura tra Matteo Renzi e Carlo Calenda a questo punto da un lato potrebbe anche essere un fattore di chiarimento politico, nel senso di un’opportunità di riaprire un cantiere della politica intermedia su altre basi, ma che porta con sé l’altro lato, cioè alcuni seri rischi, che anche dall’interno dei due partiti sono balenati tra i primi commenti. E che spingono ora alcuni esponenti a cercare quella che appare una impossibile ricomposizione.
Molti hanno detto e scritto “ve l’avevo detto”. Emma Bonino ricorda oggi l’improvvisa rottura del 2022 di Carlo Calenda con l’accordo preventivo con Più Europa, il giorno dopo aver lui baciato in conferenza stampa Enrico Letta per sostenere l’alleanza a tre che avrebbe forse reso contendibili le imminenti elezioni. In realtà la tessitura di un centro autorevole, dunque non ondivago, a strappi continui, doveva essere uno spazio politico nutrito di competenza, analisi, capacità progettuale, qualità che pure si ritrovano qui e là nelle file dei due partiti ma in un modello di partito alla fine centrato sull’egocentrismo leaderistico in cui si perdono di vista i riferimenti agli esempi illustri delle culture storiche liberaldemocratiche e liberalsocialiste della storia italiana, pur quasi tutte in verità abbastanza litigiose.
Ebbene il chiarimento avvenuto pur nei fuochi di artificio lascia per qualcuno aperta la via di una ricomposizione che potrebbe partire proprio dalle fragilità che hanno caratterizzato questa esperienza. Sarebbe – c’è chi lo ha detto – l’unica via per tentare di contrastare l’ipotesi che il centro politicamente non esista.
Che è il tema oggi in discussione: ma questo centro politicamente parlando esiste davvero?
A me vien da dire che questa ipotesi esisterebbe se esprimesse una qualità del tutto diversa del nesso tra politica e cultura. E non se mostrasse alla fine la prevalente cultura del marketing: con il suo profilo opportunista, ondeggiante, pulsionale, sciabolante, aggressivo, soprattutto sospettoso.
Per esempio: i due avrebbero potuto rompere con qualche verosimile argomentazione politica. Di cui qui non c’è molta traccia, tanto che i gruppi parlamentari restano tatticamente uniti. Ma nel sospetto (lo scrivono in molti) che alla fine uno punti ad aggregarsi verso la sinistra e l’altro verso la destra. In ogni caso addio area intermedia.
Potevano spiegare la crisi con le ragioni del prevalere della spinta alla polarizzazione che nasce dalla crescita dell’astensione, un dato strutturale che lascia una maggioranza di votanti in campo perché affezionati ai partiti e una maggioranza di non votanti perché sempre più disaffezionati rispetto ai partiti. Argomento che potrebbe impegnare un serio soggetto a recuperare un po’ di astenuti con argomenti ben analizzati; oppure – come fanno ora il Partito Democratico di Elly Schlein e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni – potrebbe far prevalere la polarizzazione per consolidare i propri militanti ed elettori affezionati. Che infatti è la tenaglia che sta riducendo lo spazio del cosiddetto “centro” che il Terzopolo non è riuscito ad allentare.
Insomma, avrebbero potuto mettere in campo un argomento concreto sulla crisi di sistema della politica italiana. No, loro rompono come una coppia di fidanzati più rivali che amorosi, dando la colpa l’uno all’altro fin qui non tanto circa errori politici, ma per le parole dette o non dette, per i comportamenti personali, per le impulsività, alla fine, nel volere entrambi comandare senza trovare un assetto con regole di mediazione.
Il Corriere della Sera per questo confina la notizia a pagina 15, alla fine delle cronache politiche, proponendo la sceneggiatura del botta e risposta collazionando le tante battute dei due di questi giorni. Altro che il duo dei canterini. Sembra la coppia dei comici dissacratori che introducono i talk show per farli sembrare meno noiosi. E infatti Propaganda live La 7 fa dei loro abbondanti tweet di questi giorni una sceneggiatura di mezzora costellata da risate del pubblico.
Insomma, cosa ci riserva allora questa fiammata rispetto a cosa resta del campo intermedio? In alcuni commenti si schiuderebbero le porte ad una corsa rivale fino in fondo, quella del tentativo sia di Matteo Renzi sia di Carlo Calenda per buttarla in marketing puro, per esempio facendosi la pelle per chi riesce ad accaparrarsi un po’ di eredità politica di Silvio Berlusconi, rischiando però di perdere entrambi nei confronti della capacità egemonica e di coalizione di Giorgia Meloni e stracciando così quel che resta di un fondamento razionale di spazio autenticamente riformatore che dovrebbe rivendicare all’opposizione al governo di destra ciò che Calenda e Renzi hanno fin qui intuito ma non consolidato.
Alessandro Campi – intellettuale di una certa destra costituzionale – scrive su Il Mattino che l’ipotesi egemonica della Meloni che assorba o attragga ambiti di centrismo nella sua costruzione di un grande polo conservatore europeo, che cancelli Forza Italia e marginalizzi la Lega, sia possibile (a condizione di scaricare definitivamente i residui post-fascisti).
Anch’io penso che lo sbandamento a destra di questa area (che per il momento in verità appare più esplicito nel gruppo di Matteo Renzi) comporti il rischio politico di aiutare alla fine Giorgia Meloni. L’unica che, approfittando della crisi di credibilità del tramontato Terzopolo, finisca per ottenere a svendita un ampliamento della sua classe dirigente che rappresenta così verso le europee un utile smacchiatore.
Tra i rischi vi è quello che queste aggregazioni non avvengano immaginando una rigenerazione e una modernizzazione della cultura politica ma finendo per far prevalere le vecchie leve della politica contro, cioè il vecchio propagandismo. Quello che in Italia si è realizzato in settanta anni aggregando elettori attorno alla retorica che spiega che i comunisti mangiano i bambini. Un argomento variamente declinato per non assumere la responsabilità di una meditata rigenerazione politica, che vale per i progressisti ma anche per i conservatori. E anche una leva manipolatoria che il Cavaliere ha raccolto da una certa DC, usandola per più di vent’anni e che ha tentato qualche volta anche Calenda e Renzi per fare una opportunistica breccia nell’elettorato di destra.
Su questo divorzio leggo in queste ore i commenti di persone che stimo e che hanno pareri diversi. Giovanni Moro, ad esempio, un civico rigoroso, parla di “lotta titanica tra adolescenti” liquidando per questo il loro progetto. Molti hanno questo tipo di lapidario giudizio.
Al contrario Mauro Felicori brillante assessore alla cultura dell’Emilia-Romagna – che si definisce renziano di formazione togliattiana – crede ancora possibile tenere in piedi il cantiere riformatore. Giuliano Ferrara, fondatore de Il Foglio, va oltre e introduce una versione suggestiva. L’idea del “partito unico” dice, è un rimasuglio del sovietismo.
Carlo Calenda e Matteo Renzi possono anche rinunciare a questo progetto ma, nelle loro diversità, continuare a creare spazi, dibattito, ricerca, stimolazione per quello spazio che in Europa continua a chiamarsi “liberaldemocratico”. Dunque, nessun dramma sull’idea di lasciar perdere il “partito unico”. Facciano politica creativamente.
A buoni conti, salvo questi isolati auspici, prevale una diffusa delusione perché la crisi del progetto Renzi-Calenda, per i modi e le contraddizioni con cui si è manifestata, disperde e allontana il progetto di riduzione del populismo nel tessuto della politica italiana; indebolisce il recupero del riformismo europeista messo al centro non dei cambi di casacca ma della vocazione migliore della politica italiana. Una vocazione che ha fatto balenare la possibilità di recuperare il presidio agli “interessi nazionali” come antidoto al ritorno del nazionalismo che noi ora vediamo invece pericolosamente in atto. E che molti hanno giudicato anche una vocazione utile per bilanciare con intelligenza le pulsioni massimaliste mai sopite nella sinistra italiana.
La delusione riguarda insomma il riscontro che queste vocazioni non conseguite siano un copione definitivamente orfano di attori adeguati.
Per queste ragioni, questa notizia non solo non è eccitante ma è sinceramente deprimente. Mostrando che forse il più difficile cantiere della rigenerazione della politica italiana, proprio nel momento di un certo rilancio della destra e della sinistra, si è per ora chiuso per fragilità intrinseche e per insufficiente tenuta progettuale e organizzativa.
[1] “II biglietto da visita” sul magazine on line Il Mondo Nuovo sabato 15 aprile 2023.
Versione audio https://www.ilmondonuovo.club/il-terzo-polo-fratto-due/