Guido Barlozzetti prendendo spunto dai fatti di cronaca che riempiono i palinsesti pomeridiani partendo da una sentenza proferita da Mara Venier “Suo figlio è un mostro” si chiede se non lo sia anche il medium che la veicola: “E la televisione?” osserva Barlozzetti denunciando “Il cortocircuito fra i tribunali catodici del medium giudicante e la giuria dei telespettatori”: ” Così – osserva l’esperto dei media – i conduttori finiscono inevitabilmente per non darsi più limite, è nella logica di questa televisione e del rapporto che stabilisce con lo spettatore, e diventano solo l’innesco cinico di un processo che abbatte ogni confine tra pubblico e privato, esterno e interno, tra il diritto dell’informazione e il recinto che dovrebbe essere inviolabile dei sentimenti di una persona, offerti senza pudore alla massa degli spettatori […]”.
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Suo figlio è un mostro! ha sentenziato Mara Venier alla madre di Alessandro Impagliatiello, assassino di Giulia Tramontano. Assassino, ancorché conclamato e confesso, allo stato delle cose né processato né condannato in via definitiva, a dire di come le sentenze mediatiche ormai precedano e addirittura finiscano per sostituire quelle dei tribunali, in un cortocircuito tra il medium giudicante e la giuria degli spettatori.
Mostro! Punto esclamativo e basta, a trafiggere dal pulpito della televisione con l’aculeo del potere che viene dall’immagine la madre inerme, sbattuta lì davanti con l’abisso insondabile e soprattutto indicibile di un dolore da cui ci si dovrebbe ritrarre, perché oltre il senso, tanto più quello triviale e domestico dell’intrattenimento della tv, sbracato nel postprandiale sonnacchioso di una domenica.
Storia antica perché non è da oggi che nel nostro Paese, ma forse in generale in tutte le terre in cui la televisione generalista è diventata un accompagnamento quotidiano, la tv del dolore e del crimine più efferato, dei confessionali, del pedinamento ossessivo di questo o quel testimone, parente, amico, vicino di casa, complice, avvocato, medico, poliziotto e via dicendo, è diventata una componente fondamentale dei palinsesti.
Dare alla gente quello che vuole, ecco l’equazione cinica che tutto sacrifica ai numeri dell’ascolto, pronta ad assumere l’atteggiamento più confacente del discorso, stupito, accusatorio, affranto, vendicativo, misericordioso, quello che serve di volta in volta, il più funzionale, il più efficace, si potrebbe dire di più performativo. Pura prestazione, svincolata da qualunque considerazione sulle motivazioni e sugli effetti e dunque su una responsabilità che non sia la tautologia di chi parla con il discorso che sta facendo, perché autorizzato solo dal fatto di stare davanti a una telecamera e avere un microfono sul bavero.
Ci ricordiamo di Cogne e Avetrana? Di Erika e Omar o di Meredith e Amanda? Sono stati gli antesignani da cui si è mossa questa piena ormai tracimante di pornografia e voyeurismo che si mescolano in modo perverso con la curiosità morbosa dello spettatore, assecondata e alimentata, proprio magari nel momento in cui si mettono all’opera tutte le strategie per prendere una distanza, per distinguere, per ripulirsi l’anima dicendo che no, non si fa e non si farà quello che invece si sta facendo.
Così, i conduttori finiscono inevitabilmente per non darsi più limite, è nella logica di questa televisione e del rapporto che stabilisce con lo spettatore, e diventano solo l’innesco cinico di un processo che abbatte ogni confine tra pubblico e privato, esterno e interno, tra il diritto dell’informazione e il recinto che dovrebbe essere inviolabile dei sentimenti di una persona, offerti senza pudore alla massa degli spettatori – e a spettatori diventati massa indistinta … – come avviene in un rito sacrificale in cui c’è bisogno di individuare sempre un capro espiatorio perché la coscienza di tutti sia poi addomesticata e tranquillizzata. Questo dispositivo finisce per dotare chi lo impersona di un diritto che naturalmente si rovescia anche in un dovere alla ricerca della verità, afferrandone questo o quel brandello, giocando sull’ambiguità tra la parte il tutto, enfatizzando questo o quel dettaglio, rincorrendo anche la più esile voce, in un incessante turbinio di teatrini montati e smontati e rimontati, possibilmente con un colpo di scena che tenga legato chi sta guardando allo schermo, anche a costo di profanare l’intimità più riservata dei sentimenti.
Voglio vedere, voglio sapere, fino all’ultimo particolare anche quello più sconvolgente, anzi proprio per quello: ecco la trappola e la molla di cui la televisione, al di là anche dei singoli conduttori, ha fatto lo strumento implacabile della sua penetrazione nel guscio domestico, tanto più oggi che la sua egemonia viene largamente minacciata da quella ormai presente e irreversibile della rete e dei suoi mille rivoli social, dove il tribunale si è ormai amplificato, frammentato e polverizzato, e la giuria è diventata uno stuolo di uno nessuno e centomila appostati su facebook o twitter.
Tutto entra in questa compagnia di giro, il gioco perverso affascina e coinvolge anche chi se ne dovrebbe proteggere e invece viene contagiato dalla seduzione della scena che gli viene offerta. Alla fine il rischio è che tutti vengano presi da una coazione a esibirsi e a partecipare, tutti ma proprio tutti, compresi appunto i parenti delle vittime, sospetti, i testimoni reali o presunti…
Quella battuta, Suo figlio è un mostro, non si tratta certo di mettere in croce una conduttrice, è solo il sintomo di un processo che è andato avanti e non è stato governato e che forse non è più possibile ormai governare perché si è intricato sia con le pratiche di chi fa i programmi, sia con il sistema delle attese del pubblico, aggrovigliati a questo punto in un circolo viziosissimo.
Quando si dicono queste cose si rischia di essere immediatamente presi per moralisti e in effetti queste osservazioni potrebbero sembrare niente più che una reprimenda, dette con un buon senso critico che non attecchisce e scivola come l’acqua sulla durezza ancorché immateriale delle cose e di quella che è diventata una realtà. Ci sta che qualcuno si risenta e magari s’indigni, anche questo viene trangugiato dalla grande betoniera della televisione, impassibile.
D’altronde, questo rilievo vale anche per un ragionamento che si potrebbe fare sul medium, in particolare sulla versione che dovrebbe avere una connotazione di differenza e autorevolezza perché fondata su un modello di servizio pubblico. Ma anche qui si rischia di ricadere dalla padella nella brace. Dove sta oggi il servizio pubblico? Negli ascolti che pur ci devono essere perché senza pubblico e nell’obbligo comunque al servizio universale che servizio sarebbe? O in una terzietà che in parte può anche fare a meno dell’ossessione degli share e distinguersi dal resto dell’offerta, per delle virtù che si ripetono un po’ come le litanìe, la misura, l’equilibrio, la qualità…? E cosa ne rimane una volta che abbiamo consumato le impostazioni pedagogiche possibili nel monopolo e ancora nella parvenza di quello che abbiamo chiamato sistema misto, salvo poi accorgersi che lì si infilava e si allargava una trasversalità di modelli che nel tempo avrebbe compromesso o quanto meno messo a repentaglio proprio l’identità del servizio pubblico? Paradosso, non sappiamo bene quello che deve essere, sappiamo bene quello che non deve essere.
Viene da chiedersi se abbia senso parlare del servizio pubblico come di una tv-paletto che mette uno stop a quella in cui tutti gli altri non si danno limiti e abbattono qualunque barriera. La verità, ci mettiamo ancora un forse, è che se Venier ha detto a una madre davanti a milioni di spettatori che suo figlio è un mostro, il vero mostro è diventata una televisione assurta a laboratorio estremo di pulsioni assecondate e passioni senza argini, più oscene dell’oscenità a cui alludono e che se possono esibiscono.
Ecco la mostruosità, tutto si può dire e tutto si può vedere, il diritto di cronaca anzitutto a costo di presidiare con un microfono l’ingresso della casa e rincorrendo fino all’esaurimento chiunque sia stato sfiorato da qualche infinitesimale rapporto con il caso assurto all’ordine del giorno. Il talk-show come tribunale che si riunisce quotidianamente con le sue sedute davanti alle telecamere e ogni volta imposta l’udienza, annunciando l’esca irresistibile dello scoop e in attesa della sentenza definitiva, possibilmente alla prossima puntata.
E ci sarebbe da chiedersi se tutto questo non abbia una qualche relazione anche con il governo dell’opinione pubblica, con il sentire e l’immaginario collettivo, di cui i mezzi di comunicazione, ben prima dell’avvento della rete, non bisogna dimenticarlo mai, sono stati e continuano ad essere uno strumento fondamentale. Perché se c’è un convitato di pietra in tutta questa storia forse sta in qualche anfratto della microfisica del potere televisivo che forse sarebbe il caso di tornare ad approfondire. Ma qui sappiamo quali rimossi possano esserci e quali fantasmi si agitino sullo sfondo. Il potere, a cominciare da quello politico e dal Leviatano hobbesiano lavora sulla paura e i mezzi di comunicazione sono laboratori in cui fronteggiare e confrontarsi con l’oscurità che è in noi. Sarebbe il caso di approfondire le simmetrie tra i due livelli.
Intanto, continuiamo a riempire le scalette di cronaca, mestiere che peraltro non comincia oggi se anche Dante scriveva di Paolo e Francesca, Dostoevskij di incesti e parricidi e Truman Capote dello sterminio della famiglia Clutter…
Si dirà che lì c’è la capacità della letteratura di portarci nell’abisso che è anche lo specchio frantumato di noi, mentre qui domina il compiacimento senza pudore. E qualcuno potrebbe ricordare che il medium è il messaggio e che dunque non bisogna farsi troppe illusioni sull’intreccio tra tecnologie e inconscio, il cinema, la televisione, adesso la rete. Siamo quello che siamo ed è inutile scandalizzarsi se un programma punta dritto sull’emotività immediata di chi guarda, e magari si potrebbe sostenere che è anche un anestetico terapeutico, il cloroformio dell’assassinio servito in tv mentre stai seduto comodamente a casa.
Lasciamo stare che i televisori sono accesi anche nelle case di chi non si limita a guardare ma prende un coltello o una pistola, quello è ancora l’analogico orribile del male che non sa ancora che fra poco diventerà gastronomia televisiva.
In ogni caso, anche oggi il mostro è stato sbattuto in diretta e il fervorino finisce qui.