Arte

Democrazia Futura. Stazioni spaziali. A proposito dell’opera di Roberto Giavarini

di Roberto Cresti, ricercatore e docente di storia delle arti del Novecento all’Università di Macerata |

L’artista in copertina e nelle pagine di questo undicesimo fascicolo. Presentazione di Roberto Cresti.

Roberto Cresti

Presentazione dell’artista in copertina e nelle pagine interne dell’undicesimo fascicolo di Democrazia futura. Roberto Cresti nel suo articolo “Stazioni spaziali. A proposito dell’opera di Roberto Giavarini[1]” presenta la figura di un artista “il quale da sempre dipinge in modo da lasciare, oltre la pittura, uno spazio che s’intuisce immaginale, in sé senza profondità, così sottile da essere un infinito velo di pensiero che ondeggia in dimensioni ‘altre’ dalla nostra”, aggiungendo in conclusione: “[…] nella pittura di Giavarini, ogni immagine è una ‘stazione spaziale’ oscillante e immobile, che attrae lo sguardo a una sospensione di pensieri appena creatasi o già in punto di svanire, un microcosmo nomade eppure saldamente fissato nelle sue palindromiche «rotae», in cui l’eterno ritorno dei miti si compie e ricomincia.

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                                                                                        Io solo mi movevo, in un mondo fermo.
Massimo Bontempelli

Roberto Giavarini

La natura morta ha sempre avuto un carattere ambientale, come uno spazio nello spazio: un piccolo teatro dove gli oggetti rappresentati sono maschere senza volto. La sua geometria rigorosamente non euclidea oscilla fra l’ideale e il reale, e, dagli xenia greci ai mosaici delle ville romane, ha qualcosa di marino, fra il ciottolo levigato e lo scoglio. 

Col passare dei secoli, vi si trovano adunati, come in un movimento di risacca o dopo un naufragio, ugualmente immobili, anche vittime di cacce o pesche mondane, finiti sul tavolo di cucina. Da Caravaggio alle Province Unite del Seicento ai palazzi dell’Ancien Régime settecentesco, abitati da Jean-Baptiste-Siméon Chardin, è la realtà che vi si annuncia, come da una soglia. Ma poi, gradualmente, la natura morta evade da sé stessa in una direzione propria, quasi non rappresentativa, la quale, da Eugène Delacroix a Paul Cézanne, sembra corrispondere al passo nietzschiano: «il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo».

Forse Carlo Carrà intendeva ancora questo «mondo» parlando della pittura in genere come di un «microcosmo plastico a contatto mediato con tutto», un esito che raggiunge il culmine nelle nature morte metafisiche di Giorgio Morandi, e in quelle successive dello stesso, perfettamente imperfette, le quali non c’è modo di definire che ‘morandiane’, segno che l’evasione di cui sopra avveniva in direzione del soggetto. 

Un passo avanti, anzi indietro, nel tempo, in un tempo che diviene la crisalide di uno spazio senza vie d’uscita, l’ha fatto, in seguito, soltanto Gianfranco Ferroni, il quale ha reso indistinguibile l’inquadratura del teatro dall’oggetto o dagli oggetti che vi si rappresentano, secondo la legge di una transitività intransitiva, la quale rende ogni apparenza una «metacosa», una immagine, cioè, fissata in un istante a tempo zero.

Fin de tout, allora? Forse. Ma forse no. I generi dell’arte sono prismi attorno ai quali ruotano universi, e l’ingranaggio è reciproco. Cosicché, nel mondo attuale, il «microcosmo plastico» si è appiattito sul muro tecnologico globale, come su un geroglifico, ed è di qui che lo ha ripreso e rianimato, con nuove movenze morfologiche, Roberto Giavarini, il quale da sempre dipinge in modo da lasciare, oltre la pittura, uno spazio che s’intuisce immaginale, in sé senza profondità, così sottile da essere un infinito velo di pensiero che ondeggia in dimensioni ‘altre’ dalla nostra.

Non è la sua una pittura reale né ideale, ma appunto immaginale, realizzata appena ieri attraverso bestiari o erbari araldici a vocazione düreriana e Zen, e oggi attraverso le cose, come un realismo ossimorico, di cui queste recenti prove sono i segnavia. In esse, però, ogni livello di realtà corrisponde, caso per caso, e sono molti, più che a un oggetto, a un procedimento, a una certa modalità e quantità di lavoro, con una personale moltiplicazione della poetica del suo antico maestro, Mario Donizetti, nella cui opera l’oggetto riprodotto è essenzialmente la tecnica pittorica.

Ci sono, infatti, ottenuti con una quantità di procedimenti («a volte – mi scrive – una decina»), l’oggetto vero e proprio, appeso a uno sporto o con improbabili appoggi, il suo ricordo funzionale, evocato per metafora dal meccanismo di orologi incisi nel metallo con virtuosi tocchi di fresa; e persino il suo spettro anamorfico pietrificato, come se tutto apparisse in una prospettiva di strati simultanei trasparenti, in un mondo, come quello attuale, perduto e insieme del tutto presente a sé stesso. 

L’effetto bilancia di due calotte d’orologio aperte sembra essere una dichiarazione di poetica, uno stallo fra le due facce di uno specchio, immerse in una terza superficie, che non ha prospettiva, come il mutismo di un pesce dentro e fuori l’acquario. Il che esclude l’avvicinamento assoluto iperrealista senza perderne i vantaggi, con aggiunte, in corpo e ombra, di libellule celestine o di rosse scudate coccinelle; o del confronto, ancora, fra orologi e medaglioni, appesi a cordicelle nel vuoto, analoghi di un instante ove l’io si immerge e illumina di sé fondali cosmici e quotidiani.

Torna perciò, diffusa, l’impressione di qualcosa di marino, di avventuroso (le eliche incrostate ne ‘tacciono’), come di portolani nella stiva di un cargo affondato, che le correnti fanno oscillare sul fondo sabbioso, al tocco di un rallentato metronomo. Ma anche l’idea di una spedizione speleologica che ha raccolto reperti favolosi, intrisi di una propria luce, che il ricordo associa a oggetti comuni di vetro, resi non meno favolosi, e al tempo stesso alla memoria della natura morta nell’arte. 

Davvero, a volte, Giavarini lavora in grande, ma per pure proporzioni, sembra addirittura coi rosoni di cattedrali, ricondotti a un immaginario neopitagorico, secondo il principio «come in alto così in basso», annullando anche ogni differenza fra naturale e artificiale; e pare di risentire, in immagini, i passi di Ernst Jünger sui cristalli di rocca come sogni della materia e sulle macchine come epifanie di trascendenza. O cogliere analogie fra il frutto spaccato e l’incavo rutilante di una aragonite.

A ogni pagina aperta e sigillata, come negli immaginari in geometria, corrisponde un al di là inesteso, una vertigine perfettamente uguale a sé stessa. Un ‘doppio’ sovrapposto, che è forse la natura morta del nostro tempo, tautologicamente riflessa dall’oggetto all’oggetto. Compresa la figura femminile che si rileva in una declinazione di casi, che vanno dal nudo da tabloid alla inquietante apparizione d’una Vierge-Mariée perduta e ritornante, sul modello tarkovskiano di Solaris. 

E, del resto, nella pittura di Giavarini, ogni immagine è una ‘stazione spaziale’ oscillante e immobile, che attrae lo sguardo a una sospensione di pensieri appena creatasi o già in punto di svanire, un microcosmo nomade eppure saldamente fissato nelle sue palindromiche «rotae», in cui l’eterno ritorno dei miti si compie e ricomincia.


[1] Testo tratto dal volume Multiversi, a cura di Arialdo Ceribelli, catalogo della mostra, Galleria Ceribelli, Bergamo, 3 dicembre 2022 – 11 febbraio 2023; Bergamo, Ceribelli editore, 2022, pp. 7-8.

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