Pubblichiamo di seguito le sette domande poste da Bruno Somalvico a Piero De Chiara, Giacomo Mazzone, Marco Mele e Andrea Melodia, pubblicata sulla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.
- Cosa rimane di valido della riforma della Rai del 1975?
Piero De Chiara* Esperto di media e telecomunicazioni. Consulente Agcom.
La riforma del 75 tentava di rispondere a una questione diversa, quasi opposta, rispetto a quella che si pone oggi. La domanda sociale e politica, in regime di monopolio, era di maggior varietà. La Rai, grazie anche a validi direttori di rete e alla immissione di una nuova generazione di programmisti, seppe rispondere a questa domanda di qualità e diversità. Meno convincente fu la deriva dell’informazione, la cui differenziazione fu ben presto certificata dal timbro dei partiti politici. In ogni caso fu una stagione breve, perché la spinta della pubblicità dei generi di largo consumo, alla ricerca di nuovi sbocchi e di target ancor più differenziati, impose la creazione di una concorrenza privata, in Italia in forme più caotiche e concentrate che nel resto d’Europa. Oggi, con la moltiplicazione delle reti distributive, la frammentazione dei pubblici è granulare e il sistema pubblico-privato, inseguendo e creando narrazioni per tribù globali, ciascuna richiusa in bolle poco comunicanti, non riesce a garantire un livello sostenibile di coesione sociale, generazionale, culturale, nazionale. Se nella prossima fase deve esistere ancora un servizio pubblico della comunicazione è soprattutto per controbilanciare questo fallimento del mercato.
Giacomo Mazzone** Giornalista esperto in finanza, economia dei media e nuove tecnologie.
La riforma del ’75 – in linea con quanto avvenuto in Francia con la riforma dell’ORTF – aveva due obiettivi principali: mirava a creare un pluralismo “interno” dei media radiotelevisivi, visto che quello esterno nell’era del monopolio sembrava impossibile; e voleva sganciare la RAI dal controllo diretto del governo, per sostituirlo con una gestione più “condominiale”, grazie al passaggio sotto controllo parlamentare. Ci si sarebbe aspettato che, con l’arrivo delle radio libere e delle televisioni private, una nuova riforma sarebbe seguita, per superare la nozione del pluralismo interno, e definire un nuovo servizio pubblico come benchmarking dell’intero sistema radiotelevisivo del paese. Purtroppo questo non accadde e dieci anni dopo si preferì poi passare dal “pluralismo interno” alla “lottizzazione tripartita”, senza passare per una seria riforma della RAI, resa peraltro impossibile dal confronto apodittico pro o contro Berlusconi. E proprio il governo Berlusconi, trent’anni dopo, con la legge Gasparri, sancì l’ingessatura definitiva del paese televisivo in un duopolio RAI/Mediaset, da cui non si è più riusciti ad uscire. Un sistema chiuso ed autoreferenziale oramai arrivato al capolinea
Marco Mele *** Giornalista e analista dei media.
Come Andrea Melodia serbo il ricordo di una grande stagione. Non solo la RaiTre di Guglielmi ma anche la Rai2 di Fichera. Per il resto la riforma, nel lungo periodo, ha penalizzato professionalità, talenti, gente capace, insieme a prepensionamenti spesso fatti senza un ragionamento strategico (penso a quello di Serafini in piena transizione al Dvb-T2). Ha quindi, nei fatti, equiparato la Rai ad un centro di potere in mano ai partiti, senza autonomia e credibilità nei confronti dei cittadini elettori.
Andrea Melodia****Giornalista e docente di teoria e tecnica del linguaggio televisivo.
Il ricordo di una grande stagione. Non c’è dubbio che RAIUNO, RAIDUE e poi RAITRE, quest’ultima a partire dalla direzione Guglielmi, e i rispettivi TG abbiano innovato e arricchito l’offerta, fornendo risposte adeguate in una stagione molto difficile. Credo che la riforma in qualche modo sia stata giusta in quel momento, ma certo ne sono state sottovalutate le conseguenze nel lungo periodo. Per esempio, già la direzione di Gustavo Selva al GR2 anticipò i guasti di una interpretazione partigiana del servizio pubblico.
Nei 45 anni che sono seguiti, una eternità per certi versi, molte cose sono cambiate ma nella sostanza è rimasta la perniciosa idea che la pluralità delle opinioni e il confronto non possano essere appannaggio quotidiano della qualità e della professionalità, ma debbano essere arroccate in cittadelle precostituite e poco comunicanti tra loro, a scapito oltretutto della efficienza e della produttività, come continuano a operare le Testate e le Reti contrapposte.
2. Come creare le premesse per la costituente del servizio pubblico crossmediale della comunicazione attraverso una media company di servizio pubblico?
Piero De Chiara
I criteri di assunzione, le logiche di carriera, lo spirito di indipendenza sono criteri decisivi, ma purtroppo coniugabili solo con il modo ottativo che esprime un desiderio e una speranza. Un’impresa funziona sulla base di obiettivi misurabili. Per gli azionisti delle imprese private gli obiettivi sono i dividendi e la creazione di valore. Per ciascuna impresa pubblica la definizione degli obiettivi, dei sistemi di misurazione e del loro collegamento con le risorse assegnate è il vero e unico tema che la politica dovrebbe affrontare, con una discussione ampia e pubblica. Questa discussione, nella quale è lecito che emergano proposte alternative, non è neanche iniziata. Per stimolare il dibattito provo a suggerire tre possibili obiettivi misurabili per l’impresa pubblica incaricata della comunicazione.
- Il principale obiettivo, che corrisponde al più drammatico fallimento del mercato, a mio avviso è la coesione sociale. Come misurare l’indice di coesione sociale? Il professor Francesco Siliato ha costruito un modello statistico che a me pare molto convincente, perché rovescia la metrica commerciale oggi dominante. La comunicazione finanziata da pubblicità premia gli ascolti mirati su specifici target interessanti per il prodotto reclamizzato o, nel caso della televisione a pagamento, per i clienti propensi a sottoscrivere un abbonamento. L’indice di coesione sociale misura invece la capacità di ciascun racconto audiovisivo di rivolgersi all’insieme del pubblico, indipendentemente dall’età, reddito e livello di istruzione. Questo indice sta peggiorando perché produrre opere per un pubblico non targetizzato costa di più e rende meno sul lato pubblicitario; ma soprattutto perché, mentre i ricavi pubblicitari sono direttamente collegati con le metriche commerciali, la corresponsione di risorse pubbliche non ha alcun parametro, se non la benevolenza del governo di turno. Solo collegando le risorse pubbliche a un obbiettivo misurabile è possibile realizzare una torsione nella cultura aziendale incentivandola a offrire programmi (in particolare eventi) che ricreino una comunità sociale e nazionale.
- Un secondo fallimento della industria della comunicazione è il cosiddetto soft-power nazionale: le opere audiovisive italiane pesano oggi per meno del 2% nell’immaginario mondiale, la metà di venti fa. L’Italia sta scomparendo dagli schermi del mondo e i principali produttori nazionali stanno diventando filiali di multinazionali. Oggi è possibile misurare il contributo degli autori e delle maestranze italiane al grande racconto del mondo, definire obbiettivi di politica industriale e finanziarli in misura del loro raggiungimento.
- Il terzo fallimento privato è il pluralismo, inteso non più sul lato dell’offerta (nel sistema ce n’è in abbondanza e per tutti i gusti) ma su quello della domanda. In un sistema in cui ciascuno trova facilmente la conferma delle proprie opinioni e pregiudizi, si deve quindi misurare invece la propensione all’ascolto di fonti, linguaggi e opinioni diverse. Questa terza metrica è complessa, ma non impossibile; per un verso è un sottoprodotto dell’indice di coesione sociale, per un altro si può basare su dati comportamentali che i grandi operatori internet usano e vendono con disinvoltura, ma che presentano profili molto delicati per un operatore pubblico. Ancor più delicato è il passaggio dalle misurazioni di performance ai cosiddetti nudget, le “spinte gentili” utilizzabili per raggiungere gli obiettivi, con l’utilizzo di sistemi basati sull’ intelligenza artificiale. In questi territori un’impresa pubblica ha doveri speciali di trasparenza, spiegabilità e cautela, ma ciò non giustifica l’assenza da un decisivo campo di ricerca, sviluppo e competizione dei prossimi anni. Guardando la Rai di oggi verrebbe da dire che non è pane per i suoi denti; ma allora quale altra impresa pubblica può entrare in questo agone?
Giacomo Mazzone.
Oggi, in un’era in cui radio e tv stanno perdendo il ruolo centrale che hanno ricoperto per 50 anni nel sistema dei media, sarebbe finalmente ora di una riforma vera del ruolo della RAI, non solo per farla diventare quel che non è mai stata (il benchmarking del sistema dei media del paese), ma soprattutto per svolgere quel nuovo ruolo di traghettatore dei cittadini italiani dal mondo analogico a quello digitale.
Purtroppo, l’ultima riforma voluta dal governo Renzi nel 2015 si è limitata solo a modificare ancora una volta i criteri di nomina dei vertici, senza affrontare la sfida epocale che si presentava di fronte al servizio pubblico (1) cioè quella di dare forma ad un’idea nuova di servizio pubblico al servizio di paese e di cittadinanza, in un momento in cui globalizzazione e digitalizzazione tendono a vanificare l’attuale ordinamento per stati nazionali.
Una sfida cui la BBC ha risposto a suo modo, proponendo la soluzione di diventare una media company di servizio pubblico, capace di agire su scala globale e di confrontarsi da pari a pari con i colossi mondiali dell’Internet o con le major USA. Un modello che potrebbe funzionare in un paese dalla lingua dominante nel mondo ma che non è facilmente replicabile altrove. Ed anche in casa propria la BBC deve affrontare mille difficoltà, alle prese con un governo che mira a snaturarne la missione di servizio pubblico, per accentuarne le caratteristiche di impresa commerciale globale (vedasi il caso di BBC studios). Il distacco dall’Europa, formalizzato con la Brexit, rischia di accelerare questo processo e rendere più facile l’opera di snaturamento perseguita dal governo attuale, e ancor più motivato a procedere in questa direzione dal passaggio dell’impero Sky di Murdoch in mani USA.
Nel resto d’Europa, invece, si ragiona in maniera diversa, e si sta andando verso un allargamento del concetto di Servizio Pubblico, di nuovo al servizio della società, come lo fu alle sue origini. In questa visione, la trasformazione in media company diventa lo strumento, non l’obbiettivo del cambiamento. Dove lo scopo non è solo quello di produrre contenuti di qualità per il mercato globale, ma soprattutto quello di tenere insieme le società di nazioni che -sotto la spinta di digitalizzazione e globalizzazione- rischiano di liquefarsi e di frantumarsi in maniera definitiva.
Di qui la scelta di ZDF Mediathek che apre le porte della sua offerta on line al mondo della cultura, dello spettacolo e della scuola, per ricostruire delle “koiné” nazionali / linguistiche oggi alla deriva. O la scelta di France Télévisions di riconvertire uno dei suoi canali generalisti (France 4) in un canale di supporto alle scuole nel periodo della pandemia.
O la scelta della belga RTBF di riorganizzare la propria offerta non più per generi ma per pubblici.
O, infine, la scelta di ZDF, RAI e France Télévisions di mettersi insieme, creando l’Alliance per la produzione di fiction a grande budget, per diventare media companies sulla scala giusta: la dimensione continentale. L’unica in grado di competere con l’offerta in streaming di Netflix o Disney o Amazon, che è ormai globale.
Marco Mele
La tv è anche e prima di tutto un’industria, che opera su più mercati. La Rai va riorganizzata industrialmente, con linee di ideazione, pre-produzione, produzione, offerta sulle piattaforme (non più solo messa in onda) e interazione sui social che siano non tanto e solo orizzontali ma concentrate su linee editoriali rivolte a pubblici specifici, su progetti didattici, su sperimentazioni crossmediali. Da quanto tempo la Rai non sperimenta nuovi formati e nuovi linguaggi, anche espressivi?
Andrea Melodia
Al di là delle definizioni, ci sono semplicemente tre questioni fondamentali. La cultura aziendale, che richiede ringiovanimento, percorsi formativi e pianificazione delle carriere, presidio professionale di settori oggi trascurati come la ricerca e l’innovazione o di quelle attività produttive ordinarie nelle quali la RAI fatica a stare nel mercato.
Una idea forte di servizio pubblico, fondata sulla autonomia e sull’orgoglio, che presuppongono una governance aziendale estranea a interessi di parte. E infine occorre capire che certo la rete è al centro della comunicazione, e tuttavia il broadcasting, indipendentemente dalle tecnologie utilizzate, consente di diffondere conoscenze, informazioni, risposte sociali alle crisi, creazione e/o diffusione di eventi… in altre parole può aiutare il paese a riconoscersi coeso. Gli operatori del servizio pubblico credo che debbano saper rinunciare a creare ostacoli alla coesione sociale, senza censurare o autocensurarsi ma facendo scelte responsabili. Di certo, superare l’attuale struttura dirigenziale orientata prioritariamente ai canali per passare a una per tipologie di prodotto: questo è un passaggio ineludibile.
3. Ci vuole un servizio pubblico che veicoli i propri servizi Over The Top o si basi fondamentalmente sul tradizionale servizio pubblico di trasporto del brodcaster?
Piero De Chiara
Le reti di distribuzione sono funzionali agli obiettivi. Verosimilmente per massimizzare i risultati non occorrerà possederle, ma utilizzarle tutte, caso per caso e in modo flessibile, via cavo, via etere e soprattutto over the top. All’inizio, con la dismissione di RaiWay, potrà esserci un prezioso vantaggio patrimoniale, ma i costi operativi permangono e i negoziati sono complessi. L’accesso ai dati e alla potenza di calcolo necessaria per alimentare sistemi di intelligenza artificiale funzionali al servizio pubblico della comunicazione, saranno un altro rilevante costo operativo.
Per non essere schiacciata da giganti centinaia di volte più grandi, l’azienda incaricata del servizio deve quindi pretendere nei vari tavoli a regia pubblica aperti (non c’è solo la cosiddetta rete unica in fibra) almeno le cosiddette clausole MFN, cioè le condizioni di maggior favore che i vari fornitori applicano ai migliori clienti.
Giacomo Mazzone
Una media company che dir si voglia ormai non può fare a meno di una propria autonoma distribuzione di contenuti. Lo dimostra l’integrazione verticale avvenuta negli USA fra “carriers”, produttori di contenuti e televisioni (Comcast-NBC Universal), o la scelta di Disney di avviare la propria offerta di streaming autonoma, o quella compiuta da Netflix che, grazie alla sua presenza globale, è in grado di finanziare la produzione di contenuti propri o comunque non dipendenti dalle majors. Ma la scala necessaria per poter compiere operazioni di questo tipo, oramai, non è più oramai quella nazionale, ma quantomeno quella continentale, se non addirittura globale. Una sfida persa in partenza per i servizi pubblici europei?
Non è detto, come mostra il succitato esempio dell’Alliance. Tant’è che -dietro spinta delle tv tedesche- in sede UER, si sta lavorando all’idea di mettere in comune infrastrutture ed algoritmi capaci di raggiungere tutti i pubblici europei, con tecnologie che possano superare le barriere linguistiche. Utopia? forse. Ma altrimenti l’alternativa per i servizi pubblici qual è? Non certo quella di restare ad invecchiare con le generazioni pre-millennials. Un’altra “wild card” nel gioco di rimescolamento delle carte mondiali che potrebbe fornire qualche chance ai Servizi Pubblici, è quella offerta dal 5G. Se il futuro modello di 5G che verrà adottato in Europa integrerà anche il broadcasting, ed eventualmente, le reti del digitale terrestre, questo potrebbe aprire nuove prospettive anche nella partita tecnologica (2).
Marco Mele
La Rai deve trasmettere, ovviamente, sia in streaming che trasmissione via etere e satellite (assurdi e forse illegittimi i criptaggi su Sky per chi paga il canone). Sapendo che il 5G può modificare i rapporti di forza nelle reti di trasmissione. Ma la domanda chiave per ridisegnare il servizio pubblico è un altra: occorre chiederci se la Rai debba continuare ad essere ormai l’unico operatore televisivo verticalmente integrato o se, al più presto, vada messa in cantiere la cessione di RaiWay nell’ambito di una Rete Unica di trasmissione via etere (Cdp) Non solo di trasmissione televisiva, altrimenti chiude tra pochi anni. La domanda che mi ponete è un po’ diversa. Manca la questione non secondaria dell’abbandono della banda 700 da parte della tv e del nuovo standard DvbT2: non è questione da lasciare ai tecnologi.
Andrea Melodia
Il servizio pubblico, poiché viene pagato in larga misura da risorse pubbliche dovrebbe semplicemente puntare a dare alla propria produzione la massima diffusione possibile. Per ottenere questo risultato la disponibilità di una rete pubblica neutrale è certamente molto utile. Oltretutto il servizio pubblico oggi non può certo rinunciare a un rapporto di servizio agli utenti che comprenda una profilazione: non per vendere ma per servire meglio. E non può rinunciare a incidere sulla rete introducendo algoritmi funzionali ai bisogni sociali, rapportandosi costantemente con le istituzioni pubbliche, ma in condizioni di credibilità e autonomia. Se la media company pubblica fosse più autonoma e credibile sarebbe naturale affidarle un ruolo importante a garanzia della rete.
4. Mission e Vision: informare educare, divertire e coinvolgere orchestrando le eccellenze?
Piero De Chiara
Informare, educare, divertire sono missioni storiche, che vanno ripensate in un mondo caratterizzato da un aumento tumultuoso dell’offerta e dei canali. Cercare, stimolare e orchestrare le eccellenze significa ricentrare l’azienda sul commissioning. Ma il mestiere del committente non può essere disgiunto da una grande libertà di azione, di scelta e da penalità al mancato raggiungimento di obiettivi di pubblico interesse prefissati e trasparenti.
Giacomo Mazzone
Gli obiettivi fissati da John Reith negli anni 20 per la BBC (Educare, informare, divertire) restano validi anche oggi. Ma ad essi, nel frattempo, se ne sono aggiunti altri negli anni Ottanta (sostenere le industrie culturali nazionali e l’immagine-paese nel mondo) ed oggi altri ancora sotto la spinta di digitalizzazione e mondializzazione, primi fra tutti l’alfabetizzazione digitale e la coesione sociale. Ma la società degli anni Venti del secolo scorso non è più la stessa di oggi e i compiti che una volta erano ripartiti fra vari attori della società, oggi non lo sono più o non possono più esserlo. L’esempio più chiaro è quello dell’educazione.
Nella società analogica nella vita di ogni cittadino c’era un periodo dedicato all’apprendimento, cui ne seguiva uno dedicato al lavoro, cui ne seguiva uno dedicato al riposo. La scuola si occupava del primo periodo. Il datore di lavoro del secondo. La previdenza sociale del terzo. La TV di servizio pubblico supportava la scuola nel primo periodo; intratteneva e informava i cittadini nel corso del secondo e terzo periodo della loro vita. Nel mondo digitale la successione di questi tre periodi non c’è più. I mestieri cambiano velocemente e i posti di lavoro non durano più tutta una vita. In futuro l’alternanza di periodi di lavoro e di apprendimento sarà sempre più frequente. Ma la scuola di oggi non è concepita e non è in grado di aiutare chi ha passato l’età scolastica. Se il governo italiano volesse davvero combattere la frattura digitale, a chi potrebbe chiedere di occuparsene? L’unico strumento che resta a disposizione è il Servizio Pubblico mediale: altri non ve ne sono, a meno di non reintrodurre l’obbligo scolastico per i disoccupati o i famosi corsi delle 150 ore di buona memoria voluti dai sindacati negli anni Ottanta.
Marco Mele
Certo, orchestrando le eccellenze, ma senza cooptazioni “clientelari” delle stesse eccellenze, negli eventi in particolare. La missione non può che centrarsi sull’inclusione, la coesione sociale (ma senza forzature, tipo “Sanremo è la il massimo della coesione, perché lo vedono tutti i pubblici”), la pluralità di temi, linguaggi e soggetti sociali. Senza riforma della governance, una missione impossibile.
Andrea Melodia
Certamente. Se si è credibili e autonomi è naturale il rapporto con le eccellenze. La vision è quella di un paese più colto, più serio e meno pasticcione. Le mission possono variare. Comincerei con un rapporto forte con la scuola e l’università, e a ricostruire il rapporto con i giovani.
5. Come continuare a formare l’opinione pubblica e garantire la coesione sociale e combattere la frammentazione riorganizzando orizzontalmente l’offerta svincolandola dai palinsesti rigidi?
Piero De Chiara
Il palinsesto non è morto, ma ormai è una dei tanti modi di raggiungere il pubblico. Una quota non trascurabile ma decrescente, di pubblico, per lo più anziano, preferisce scegliere il suo canale e seguirne il flusso; una quota crescente sceglie una guida elettronica dei programmi e si affida sistemi di raccomandazione, spesso basati su intelligenza artificiale.
Alcuni palinsesti assecondano il loro pubblico, altri lo sorprendono; alcuni sistemi di raccomandazione creano microtarget sempre più chiusi, altri li incuriosiscono e li contaminano. Ma per quanto importanti restino i palinsesti e siano ormai diventati i sistemi di raccomandazione, vengono dopo la creazione dell’opera. Un singolo programma può andare prima in palinsesto e poi accessibile in rete o viceversa.
Nei prossimi anni sempre più i programmi sceneggiati andranno prima on demand, poi in palinsesto e poi torneranno in archivio in rete; mentre gli eventi in diretta saranno il valore aggiunto dei palinsesti anche quando nessuno di noi saprà più distinguere sul suo televisore ciò che è broadcasting da ciò che è streaming. In questo non vedo differenza tra imprese della comunicazione pubbliche o private. La differenza è la funzione obiettivo che si pongono i privati e il pubblico.
Le imprese private grosso modo si dividono in due categorie: quelle per le quali la principale funzione obiettivo è il profitto e quelle per le quali quel che guida le decisioni è l’aumento del valore dell’impresa. Non sempre le due funzioni sono collegate, anzi spesso imprese che perdono crescono di valore. Viste da dentro questi due logiche di impresa privata funzionano in modo molto diverso.
Anche imprese pubbliche della comunicazione possono avere diversi obiettivi: BBC, Channel Four, ZDF, ARD, SSR non hanno gli stessi obiettivi. Purtroppo è più difficile capire gli obiettivi di France Télévision, di TVE e della Rai e anche per questo è più difficile gestirle e giustificarne il finanziamento.
Giacomo Mazzone
Se tenere insieme la società, integrare i nuovi italiani e fornire formazione continua saranno davvero le nuove priorità della missione del servizio pubblico dell’era della digitalizzazione e della globalizzazione, è evidente che la coesione sociale dovrà essere ad uno dei primi posti di questo nuovo “contratto sociale”. Società sempre più miste, sempre più centripete, sempre più con lo sguardo altrove (rivolto ad altri modelli e riferimenti culturali e sociali) avranno un bisogno disperato di mantenere (costi quel che costi) una comune agorà dove discutere del loro comune destino, dove informarsi prima di compiere scelte democratiche oculate, dove vivere dei momenti di emozioni comuni ed accomunanti.
Lo sforzo gigantesco da compiere sarà quello di fornire programmi su misura per ciascuno, inserendo però al loro interno dei mattoncini di un comune sentire, che possano portare i vari pubblici verso dei luoghi di costruzione identitaria comuni. Il palinsesto cosi come lo conosciamo noi oggi perderà di senso per le generazioni digitali e si dovrà passare al concetto di “recommendations” alla Netflix: se ti è piaciuto questo, allora ti consigliamo di vedere quest’altro.
E’ questa la sperimentazione che si sta facendo nella tv pubblica belga, ad esempio, dove il concetto di “factory per generi” è stato rimpiazzato dal concetto di “factory per target di pubblico” e dove la sfida più ardua di ogni giorno è di convincere il millennial appassionato di manga giapponesi a vedere anche un po di news e qualche pezzo di Sanremo, in maniera da avere ancora qualcosa di cui poter discutere con il nonno e con i genitori quando ci si incontra a tavola.
Marco Mele
Creando un assetto basato sui progetti e i capiprogetto, progetti tutti crossmediali, aperti al cambiamento con l’interazione del pubblico. Come formare l’opinione pubblica? Ci sono molti più disinformatori in Rai che formatori, per la verità. Per la verità, appunto: significa un’informazione corretta e che si corregga: non si può dire che Tobagi lo hanno ammazzato le Brigate Rosse, senza dire che si è sbagliato e indicare i veri assassini. La riorganizzazione dell’offerta deve partire dai progetti multipiattaforma e multimediali (fondamentale coinvolgere la Radio, non solo la Rete).
Andrea Melodia
I palinsesti rigidi tendono a produrre programmi che potrebbero essere messi a disposizione di una offerta on demand. Invece tutte le volte che si producono eventi, cioè quando si entra in rapporto con la realtà, i programmi hanno bisogno di aumentare al massimo le connessioni immediate nella rete e di rendersi elastici nel palinsesto. Oltretutto oggi la scarsità dei canali è l’ultimo dei problemi, e non capisco perché non si possa sfruttare questa possibilità per favorire la pluralità delle esperienze, restando in una visione unitaria dell’offerta.
Il concetto stesso di palinsesto deve essere profondamente rivisto, se non abbandonato, in seguito all’esistenza della rete. Questo vale per l’informazione e per l’intrattenimento in diretta in massimo grado, ma perfino la fiction, che è il più importante esempio di produzione non in diretta, tende ormai a trasformarsi in evento e richiederebbe una gestione meno rigida. Non si tratta di favorire la frammentazione ma di attuare, in modo creativo e serio, una valorizzazione sistematica di prodotti di qualità. Credo anzi che la RAI questo dovrebbe farlo anche nei confronti di produzioni di altre reti, quando le giudica di qualità e utili a creare cultura e coesione sociale. Sarebbe il massimo della dimostrazione di autonomia e credibilità!
6. In materia di finanziamento pubblico e assetto proprietario, vi convince l’ipotesi di dar vita a una public company di tutti i cittadini abbonati al canone. Che ne pensate di un Piano Marshall per costruire un servizio pubblico europeo con fondi pubblici europei ma senza finanziamenti a pioggia?
Piero De Chiara
Può darsi che la dimensione di imprese private attive nell’industria della comunicazione come Amazon, Google, Apple, Disney, Comcast, Baidu, Tencent, Netflix, renda impossibile per qualsiasi servizio pubblico di un singolo paese europeo giocare un ruolo significativo o anche solo controbilanciare le dinamiche negative indotte dalla spinta centripeta dei capitali e da quella centrifuga dei pubblici. Può darsi che, presto o tardi, ci accorgeremo che solo una impresa pubblica europea può ambire ad avere una dimensione sufficiente a competere nel campo della produzione audiovisiva che ormai viaggia su costi dai 5 ai 10 milioni di euro all’ora e nella ricerca e sviluppo basati su dati, algoritmi e potenza di calcolo.
Temo che non basti una buona regolazione europea, che costringa americani e cinesi a conformarsi alle nostre regole per accedere al nostro mercato. Credo che la sovranità nazionale sia una illusione e che per una sovranità europea non bastino le regole, ma serva anche una grande impresa europea, che oltre che più competitiva sarebbe anche più autonoma dai singoli governi (e forse proprio per questo, il servizio pubblico europeo della comunicazione arriverà più tardi). Ma aspettando Godotciascun paese membro, persino l’Italia, può fare dei passi in questa direzione, con segnali sul lato della mission, della governance e anche delle risorse. Non risorse a pié di lista o per salvataggi per salvare la bandiera e l’occupazione (stile Alitalia, per intenderci), ma condizionate a obbiettivi trasparenti e misurabili, diversi da quelli delle imprese private. Le risorse condizionate sarebbero per la Rai uno shock e un rischio, ma anche una opportunità, comunque meglio di una lenta ingloriosa agonia.
Giacomo Mazzone
E’ evidente che se si va verso un’integrazione nel Servizio Pubblico della missione di “educazione digitale permanente”, il suo finanziamento dovrà assomigliare sempre di più a quello educativo. Una funzione sociale fondamentale al cui finanziamento tutti i cittadini e le imprese debbono contribuire, a prescindere dal fatto che la tv la guardino oppure no. Non è che se non si hanno figli, si può chiedere di essere esentati dal pagare le tasse per finanziare il sistema scolastico, o se si è in buona salute si può chiedere di non contribuire al Servizio Sanitario Nazionale.
In questo senso la riforma del canone in Italia è andata nella buona direzione (anche se poi è stata gestita in modo catastrofico dallo stesso governo che l’aveva proposta), ma non ha fatto il salto necessario per rendere “future proof” questa innovazione. Il pagamento è ancora legato al possesso fisico di un apparecchio atto alla ricezione. Un concetto che nel corso degli anni a venire sarà sempre più messo a dura prova. La soluzione tedesca -che impone l’obbligo di pagare il canone a tutti coloro che vivono o usano un immobile- è “device-neutral”: a meno che tu non sia un senzatetto devi contribuire al bene comune attraverso il canone. Se poi non utilizzi il servizio, il problema è tuo, ma almeno contribuisci a fornire questo servizio agli altri…
Sullo sfondo resta il problema, in molti paesi irrisolto, di come garantire che la percezione del canone e il suo trasferimento all’ente deputato a spendere questi soldi (il titolare del Servizio Pubblico nazionale, la RAI nel caso italiano) avvenga senza che il governo ne approfitti per condizionarne le scelte, gli orientamenti o le nomine. In altri termini come garantire l’indipendenza di servizi pubblici pagati quasi esclusivamente dal canone e/o da fondi pubblici. Anche qui altri paesi vi sono riusciti e forse riflettere sugli esempi di maggior successo in Europa potrebbe essere uno sforzo salutare per i politici nazionali.
Se poi la costruzione europea riprendesse a camminare, se non a correre, come vorrebbe la nuova Commissione, non è immaginabile che ciò possa avvenire senza mettere insieme tutti i servizi pubblici europei al servizio del bene comune dell’Europa tutta e di ciascuno dei suoi stati membri. Gli effetti della mancanza di un’opinione pubblica europea di massa sono evidenti per tutti nell’attuale contesto politico, dove gettare tutte le colpe e le responsabilità sull’Europa è il gioco più facile per tutte le classi dirigenti nazionali.
Marco Mele
Un’altra questione chiave, per me la numero 1 che andrebbe messa al primo posto della Riforma 55 anni dopo quella del 1975. Il servizio pubblico non può essere di proprietà del Ministro del Tesoro, quindi del Governo. Per me è questa la questione chiave, quella sulla quale si può creare un fronte per una riforma basata sull’indipendenza della concessionaria.
Bisogna trasferire le azioni su un soggetto neutro, estraneo ai cambi di maggioranza o ai cambi interni alla maggioranza, studiando l’ipotesi Fondazione e la Public Company, l’ipotesi preferibile. Non è possibile che il Governo, in Assemblea dei soci nomini nei fatti l’AD e poi possa decidere come ripartire l’utile e come e se ripianare le perdite.
Non solo perché in contrasto con la giurisprudenza costituzionale e non solo perché riduce il Parlamento a fare nomine marginali e di minore importanza, con un Cda composto da personaggi perennemente in cerca d’autore. Non ci può essere sul mercato e non ci può essere a fare coesione sociale e informazione credibile un’azienda del Governo. Un Piano Marshall? Ottima idea di quasi impossibile realizzazione: la televisione pubblica è una televisione nazionale con inserti statunitensi, e non da oggi. Perché, almeno, l’Italia non entra in Arte, trasformandola da tv di qualità franco-tedesca a tv che parla europeo al mondo intero? Il disimpegno da Euronews non incoraggia in tale direzione.
Andrea Melodia
Sul fronte finanziario direi che c’è la possibilità di partire con quello che c’è, prima di aver dimostrato di meritare altri fondi pubblici o di sollecitare i cittadini. Quanto all’Europa, quella del servizio pubblico della comunicazione è sempre stato un principio sostanzialmente difeso e che non merita di essere offuscato, soprattutto in un periodo di crisi come quello che viviamo. Credo che i servizi pubblici europei dovrebbero essere più decisi e sinergici su questo fronte.
7. Quale governance, con quale indirizzo politico e orchestrazione da parte degli stakeholder istituzionali
Piero De Chiara
La modifica della attuale governance della Rai è una condizione non sufficiente ma necessaria. Un consiglio di amministrazione espresso direttamente dai partiti non può neanche iniziare un negoziato con la politica, pretendere autonomia, risorse, un ruolo nelle strategie del paese. Una governance duale costituirebbe se non altro un distanziamento tra la gestione e i partiti.
Un consiglio di indirizzo che stipula il contratto di servizio con lo Stato, nomina e può revocare (se non raggiunge gli obiettivi) un consiglio di amministrazione con ampia autonomia gestionale. Per limitare la lottizzazione i membri del consiglio di indirizzo dovrebbero avere fonti di nomina plurime (Camera, Senato, Conferenza delle Regioni, sindacato, Confindustria, Conferenza dei Rettori, organizzazioni del terzo settore, associazioni degli autori e dei produttori…) ciascuna delle quali nomina un solo membro, con scadenza differenziata.
Si può anche ipotizzare un ruolo del Presidente della Repubblica nell’indicazione del presidente del consiglio di indirizzo o nella convalida delle indicazioni giunte dagli stakeholder. Perché i partiti dovrebbero privarsi del loro potere di nomina, al quale sembrano tanto affezionati? Azzardo una risposta un po’ ottimistica. La Rai è sempre stata, nel bene e nel male, la vetrina dell’intervento pubblico, del suo ruolo nella ricostruzione, dell’involuzione lottizzatoria e dello smarrimento attuale. Tre cicli durati ciascuno venticinque anni e di ciascuno dei quali la Rai ha rappresentato l’immagine di vizi e virtù più esposta alla pubblica opinione.
Ritrovare missioni distintive di medio-lungo periodo è un problema comune a tutte le imprese pubbliche, a maggior ragione nella nuova fase che si è aperta in tutta Europa con la caduta dell’illusione sulla autosufficienza dell’iniziativa privata. Sarebbe giusto e utile che una riforma dell’impresa Rai rappresentasse per la pubblica opinione anche l’annuncio e l’esempio di questo quarto ciclo dell’intervento pubblico.
Giacomo Mazzone
L’ultima legge di riforma della governance attualmente vigente ha dato ampie prove del suo fallimento. Nata con l’intenzione annunciata di voler dar vita ad una centralizzazione del comando della RAI nelle mani di un uomo solo, sta fornendo invece la prova provata che se dietro quest’uomo non c’è un altro uomo solo o un partito saldo al governo del paese, questo processo non può funzionare. Ci ha ricordato che Bernabei non era forte per la carica che occupava o per il modo in cui era stato nominato, ma per il sistema di potere che rappresentava e che era dietro di lui e che lo sosteneva nei momenti difficili. Vista la rapidità con cui oramai declinano le fortune dei potenti in Italia e cambiano le coalizioni di governo, questa non è la soluzione. Non ci sono scorciatoie possibili: bisogna prima creare le condizioni per una vera indipendenza della RAI: finanziamento pluriennale garantito e non revocabile, nomine per un periodo di tempo congruo di almeno 5 anni se non 7 -come in alcuni paesi, per andare oltre i cicli elettorali-. Solo dopo aver fatto tutto ciò, si potrà precedere alla scelta di personalità in grado di assumersi il rischio di cambiare le cose, capaci anche di inimicarsi molti e di spiacere perfino a coloro che ne hanno sostenuto la nomina. Fino a che ciò non avverrà, fino a che non ci sarà accordo sulla missione che il paese si aspetta dal suo Servizio Pubblico, fino a che i partiti preferiranno avere un “loro uomo” piuttosto che un uomo al servizio del paese, nessun sistema di nomina potrà risolvere i problemi attuali della RAI.
Marco Mele
Mi permetto una parentesi – che sarà solo una mia opinione, come è sempre stata: nessuna riforma della Rai può funzionare se non si risolve la vera anomalia della televisione italiana. Che non è la Rai. E’ Mediaset. Tra la visione del mondo diffusa per anni dalle reti di Berlusconi e quanto accade oggi sul Web c’è un legame strettissimo. Se nessuno lo vuole vedere…Ho molti argomenti a favore di questa tesi, ma rispondo alla domanda. Bisogna abolire la riforma Renzi. Prima di ogni cosa. E parti della Gasparri: per fortuna c’è una Corte di giustizia europea a dire che si è trattato di una legge contro il pluralismo. Occorre un soggetto che controlli le azioni Rai e nomini un vertice aziendale sulla base di curriculum pubblici e discussi (il contrario di quanto fatto da Camera e Senato nell’ultima tornata: a proposito, dopo la probabile vittoria del Si anche la nomina del Cda Rai e dell’Agcom saranno, più di quanto già non lo siano oggi, materia di trattativa aumma aumma tra le segreterie di partito).
Bisogna che per legge alcune istituzioni concorrano con la Fondazione alla nomina del vertice Rai, Parlamento incluso ma per una minoranza di consiglieri, Governo escluso. Occorre una rotazione dei vertici che non coincida con le legislature e i cambi di maggioranza. Occorre inserire l’indipendenza e l’autonomia del servizio pubblico nella Carta Costituzionale. Occorre prolungare la durata della concessione oltre i dieci anni e abbreviare invece la durata dei contratti di servizio. Forse sono solo sogni. Ma un vero servizio pubblico, nell’Italia di oggi, è un sogno.
Andrea Melodia
Per quanto riguarda la governance, ho già detto che servono qualità e autonomia, dunque non rappresentanti di parte. Sono necessari meccanismi di nomina che favoriscano il distacco non dalla politica ma dalla partigianeria politica. Curricula pubblici e trasparenti, nomine di lunga durata e a scadenza differenziata, in modo che si eleggano il più possibile persone e non pacchetti lottizzati. La politica deve assumersi inevitabilmente le sue responsabilità, ai massimi livelli, e la RAI deve essere “costituzionalizzata”. Il meccanismo di nomina della Corte Costituzionale è quello che si avvicina di più a questa esigenza. Una Fondazione intermedia potrebbe essere utile. Sul modo concreto di modificare le norme sulla governance si può discutere. Quello che mi pare certo è che ormai è dimostrata la incapacità della RAI, con gli attuali meccanismi di nomina e con la inossidabile rigidità della sua struttura, di trasformarsi nei tempi necessari senza una robusta variazione della governance.
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Note al testo
(1) Ad onore del vero va detto che qualche elemento di risposta è stato introdotto nel rinnovo della Concessione decennale alla RAI del 2017, cui però poco è seguito nella pratica.
(2) Viene da chiedersi in proposito dove sia la RAI nella partita del gestore unico in Italia…