le riforme

Democrazia Futura. Semipresidenzialismo con sistema elettorale maggioritario a doppio turno

di Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei |

In prospettiva della riapertura del dibattito sulle riforme del sistema politico istituzionale le ragioni per le quali il sistema francese è più dinamico, articolo di Gianfranco Pasquino.

Gianfranco Pasquino

In prospettiva della riapertura del dibattito sulle riforme del sistema politico istituzionale, Democrazia futura ha chiesto al professor Pasquino se sia ancora valida la sua proposta per un sistema semipresidenziale[1] alla francese con elezione diretta del Presidente della Repubblica e sistema maggioritario uninominale a doppio turno di collegio. Il contributo presentato dall’illustre scienziato della politica costituisce un’anteprima del prossimo numero, l’ottavo della rivista.  

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Il semipresidenzialismo[2] è una forma di governo originale, a sé stante, e non, come qualcuno erroneamente sostiene, un ibrido : metà presidenziale e metà parlamentare.

Tecnicamente, è semipresidenziale quella forma di governo nella quale il Presidente della Repubblica viene eletto direttamente dagli elettori e ha il potere di nominare il Primo ministro e di sciogliere il Parlamento, ma il Primo ministro deve avere la fiducia del Parlamento. Abitualmente, l’elezione del Presidente avviene con un sistema elettorale a doppio turno con ballottaggio per garantire che il candidato vittorioso abbia conseguito la maggioranza assoluta dei voti. Il Parlamento viene eletto separatamente dal Presidente.

Le differenze fra il semipresidenzialismo e il presidenzialismo sono essenzialmente due.

Primo, in un sistema presidenziale il presidente non può sciogliere il Parlamento; secondo, in un sistema presidenziale non esiste la carica di Primo ministro.

Si può, peraltro, aggiungere che nel presidenzialismo il potere esecutivo è monistico, almeno teoricamente in capo ad una sola persona, mentre nel semipresidenzialismo è, almeno teoricamente, dualistico ovvero in capo sia al Presidente della Repubblica che al Primo ministro.

Tuttavia, se Presidente della Repubblica e Primo ministro sono espressione della stessa maggioranza politica, il dualismo si risolve e, in sostanza, il Presidente governa.

Se, invece, il Presidente è stato eletto da una maggioranza e in Parlamento esiste una maggioranza di colore diverso, probabilmente opposto, il Presidente dovrà nominare Primo ministro il capo di quella maggioranza, pena la probabilissima sfiducia nei confronti di un altro prescelto. In questa situazione, definita coabitazione, sarà il Primo ministro che eserciterà gran parte dei poteri esecutivi.

Il semipresidenzialismo nella Quinta Repubblica francese e l’ipotesi elaborata da Maccanico

Nelle sue linee generali, questo è il modello di semipresidenzialismo che caratterizza la Quinta Repubblica francese, inaugurato nel 1958 e perfezionato, con l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, nel 1962. Altre varietà di semipresidenzialismo si trovano, ad esempio, ma l’elenco non è affatto esaustivo, in Finlandia, in Polonia, in Portogallo, in Ucraina, a Taiwan e, probabilmente, in Russia dove, però, il modello appare tutto meno che assestato. 

L’ipotesi di trasformare la forma di governo parlamentare italiano in una forma semipresidenziale di tipo francese fa per la prima volta la sua comparsa nella fase in cui (fine gennaio 1996) risultò esaurita l’esperienza del governo tecnico guidato da Lamberto Dini.

L’incarico di esplorare le possibilità di formazione di un nuovo governo, che avrebbe dovuto avere al centro della sua azione un programma di riforme istituzionali e costituzionali, venne affidato a Antonio Maccanico che lavorò, per l’appunto, intorno all’ipotesi semipresidenziale.

La traduzione di questa ipotesi in un modello costituzionale con il quale sostituire il parlamentarismo all’italiana avrebbe potuto rappresentare il risultato di uno scambio virtuoso. Da un lato, infatti, sia Silvio Berlusconi che, in special modo, Gianfranco Fini miravano ad ottenere una specie di Repubblica presidenziale caratterizzata dall’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica dotato di poteri esecutivi; dall’altro lato, il Partito democratico della sinistra era interessato essenzialmente all’adozione di un sistema elettorale maggioritario a doppio turno simile a quello utilizzato nella Quinta Repubblica francese[3].

L’esito dello scambio virtuoso, un metodo praticabile e apprezzabile per fare riforme costituzionali quando le posizioni di partenza appaiano molto lontane, avrebbe configurato un modello di governo semipresidenziale, molto simile a quello vigente nella Quinta Repubblica francese.

Nel febbraio 1996, i principali attori politici non riuscirono, però, a trovare un accordo, ostacolato dai Popolari e non gradito da Romano Prodi che aveva iniziato la sua corsa verso Palazzo Chigi, e il sistema politico italiano rotolò rapidamente e inevitabilmente verso elezioni anticipate. Dopo le elezioni dell’aprile 1996, il procedimento riformatore ricominciò in un’apposita Commissione Bicamerale[4] esattamente da dove si era arenato, con le stesse richieste, con gli stessi veti e con gli stessi risultati: nulla.

Le ragioni del fallimento dello scambio virtuoso elezione diretta del presidente/sistema maggioritario a doppio turno. La questione del rafforzamento dei poteri esecutivi

Le interpretazioni del fallimento del tentativo di Antonio Maccanico sono numerose e tutte plausibili. Tuttavia, l’ipotesi prevalente è che i progressisti, ma soprattutto i popolari, non volevano cedere sufficienti poteri esecutivi al Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini, ma cedevano troppo a Silvio Berlusconi in materia di giustizia e di televisioni.

Cosicché, Gianfranco Fini si sentì scavalcato e ingannato e, confortato dai sondaggi, preferì giocare la carta delle elezioni anticipate. Come era prevedibile, il modello semipresidenziale rimase vivo e vegeto, fra l’altro perché, contrariamente agli ulivisti che avevano preferito non dividersi in campagna elettorale fra semipresidenzialisti e parlamentaristi (alcuni dei quali, almeno a parole, sostenitori del cosiddetto Premierato forte[5]), Fini imperniò la sua campagna elettorale proprio sulla richiesta di una Repubblica (semi)presidenziale intesa anche come sistema che rafforza i poteri dell’esecutivo.

In effetti, era e probabilmente è il rafforzamento dei poteri esecutivi il punto dolente, qualche volta il pretesto, degli oppositori del semipresidenzialismo, in particolare nella sua più nota variante francese.

Ma i poteri essenziali per la costruzione semipresidenziale non riguardano la possibilità, tuttora esistente nel caso francese, per il Presidente di dichiarare lo stato d’assedio, perfettamente comprensibile se si tiene conto del duplice imperativo che la Francia del 1958 aveva : concludere la sfida dell’indipendenza dell’Algeria e proteggere il generale Charles de Gaulle dai numerosi (sembra addirittura 23) attentati contro la sua persona.

I due poteri presidenziali essenziali riguardano i rapporti con il Parlamento e i rapporti con il governo.

I rapporti del Presidente con il Parlamento e quelli con il governo.

Il Presidente semipresidenziale, specificamente quello francese, può sciogliere sempre il Parlamento, vale a dire l’Assemblea nazionale, tranne che nel suo primo anno di vita.

Quanto ai rapporti con il governo, abbiamo già detto che il Presidente nomina il Primo ministro il quale, comunque, deve godere della fiducia anche soltanto implicita dell’Assemblea nazionale.

Il Presidente può anche, se lo vuole, presiedere il Consiglio dei ministri. Inoltre, gode di particolari poteri in materia di politica estera, il che, se si aderisce alla tesi che è meglio che la politica estera sia bipartisan, ovvero ampiamente condivisa fra le forze politiche, non dovrebbe disturbare.

Il tanto criticato potere di scioglimento del Parlamento, peraltro nella disponibilità, con poche salvaguardie, anche del Presidente della Repubblica italiana[6], è funzionale ad almeno due obiettivi ampiamente condivisibili.

  1. Il primo obiettivo è quello di evitare l’assemblearismo, vale a dire il formarsi, il dissolversi e il riformarsi di maggioranze parlamentari occasionali e opportunistiche in un Parlamento multipartitico, frammentato e indisciplinato.

In queste circostanze, in Francia oramai remotissime, il potere di scioglimento del Presidente verrebbe giustamente utilizzato per punire un Parlamento assembleare e, eventualmente, di propensioni trasformiste, evidenti in non poche fasi dei Parlamenti della non rimpianta Quarta Repubblica francese (1946-1958).

Un Presidente eletto direttamente dai cittadini avrebbe allora facilmente, se lo avesse desiderato, potuto sciogliere il Parlamento italiano nel quale si formava una maggioranza diversa da quella dell’Ulivo che aveva chiesto e ottenuto nell’aprile 1996 un mandato per governare tutta la legislatura.

  1. Il secondo obiettivo dello scioglimento del Parlamento ad opera del Presidente consiste nel sottoporre a verifica elettorale la corrispondenza fra la maggioranza parlamentare e l’opinione pubblica.

Questa corrispondenza può essere venuta meno sia per il decorrere del tempo che per l’occorrere di particolari e imprevisti avvenimenti che rendono necessario il ritorno alle urne. Nella Quinta Repubblica Charles de Gaulle volle, ad esempio, che venisse eletto un nuovo Parlamento subito dopo gli avvenimenti del Sessantotto per dimostrare che il paese reale appoggiava la sua politica e non le proteste dei movimenti.

La risposta positiva che de Gaulle ottenne contrasta in maniera significativa con lo smacco inferto nel 1997 al Presidente gollista Jacques Chirac che sperava, con lo scioglimento anticipato dell’Assemblea Nazionale eletta nel 1993 e nella quale pure aveva una larghissima maggioranza, di ottenere un mandato più specifico e più duraturo, anche se probabilmente meno ampio di quello del 1993, in particolare per la sua politica europea.

Gli elettori preferirono, invece, che il governo passasse nelle mani della coalizione di sinistra (socialisti, comunisti, verdi e radicali di sinistra) e del capo del partito maggiore di questa coalizione il socialista Lionel Jospin al quale il Presidente Chirac correttamente affidò subito la carica di Primo ministro.

Più precisamente e specificamente, si deve rilevare che il potere di scioglimento del Parlamento viene esercitato dai Presidenti neo-eletti quando, a fronte di un Parlamento ostile, già in carica da qualche tempo, intendono sfruttare l’effetto di popolarità e di trascinamento della loro recente elezione: il cosiddetto effetto “luna di miele” con l’elettorato.

Il Presidente socialista François Mitterrand sfruttò con successo questo effetto sia nel 1981, contro un Parlamento eletto nel 1978, sia nel 1988, contro un Parlamento eletto nel 1986. In entrambi i casi lo scioglimento servì a risintonizzare la maggioranza parlamentare con la maggioranza che aveva eletto il Presidente, evitando la coabitazione.

Secondo alcuni autori, sarebbe proprio la coabitazione l’inconveniente istituzionale peggiore del semipresidenzialismo, una vera e propria spina nel fianco che potrebbe addirittura condurre ad una paralisi del sistema politico e di governo.

Tecnicamente, si ha coabitazione quando la maggioranza parlamentare è di colore opposto alla maggioranza che ha eletto il Presidente.

Le critiche in Italia del semipresidenzialismo francese

I critici italiani del semipresidenzialismo francese hanno finemente, non troppo sommessamente, sollevato il caso di un’eventuale coabitazione fra Silvio Berlusconi, eletto Presidente della Repubblica, anche grazie alle derive plebiscitarie[7] dalle quali si farebbe pigramente trascinare l’elettorato italiano e alle condizioni impari di propaganda televisiva (vedi Par condicio[8]), e Massimo D’Alema, già all’epoca divenuto Primo ministro, grazie alla superiore capacità del centro-sinistra di costruire coalizioni vincenti nei collegi uninominali.

Tenendo conto delle date d’accesso alle rispettive cariche, Berlusconi in quella occasione avrebbe goduto immediatamente dell’opportunità costituzionale di esercitare il potere di scioglimento del Parlamento che era già rimasto in vita da molto più di un anno. Dopodiché, però, se il neo-eletto Parlamento avesse ripresentato una maggioranza di centro-sinistra, Berlusconi sarebbe stato costretto a nominare Primo ministro il capo di quella maggioranza, eventualmente lo stesso D’Alema, e  “coabitarvi”, mentre D’Alema governava.

La funzione virtuosa della coabitazione in un sistema semi presidenziale e la competizione bipolare assicurata dal sistema maggioritario a doppio turno

Infatti, e questo è il punto cruciale sia del modello semipresidenziale che, nel suo ambito, della coabitazione, qualora il Presidente non possa fare affidamento su una maggioranza parlamentare del suo colore, l’esito non è, come negli Stati Uniti d’America, un governo diviso nel quale nessuno, né il Presidente né il Congresso, riesce effettivamente a governare né l’elettorato riesce a capire a chi attribuire la responsabilità.

Al contrario, nel semipresidenzialismo l’esito è che governa sempre il Primo ministro che, infatti, è tale proprio ed esclusivamente perché ha una maggioranza parlamentare che lo sostiene e ne approva il programma di governo.

Cosicché, se ne deve correttamente concludere che è davvero la coabitazione, con il suo equilibrio dinamico di poteri e di ambizioni, che consente al semipresidenzialismo di essere e rimanere una forma di governo flessibile e sostanzialmente dinamica.

Quanto della flessibilità istituzionale e del dinamismo politico dipenda anche dal secondo meccanismo che caratterizza il semipresidenzialismo francese, vale a dire il sistema elettorale a doppio turno con clausola di accesso al secondo turno, rimane da vedere e da valutare.

E’ indubbio, però, che come ha rilevato l’autorevole politologo francese Maurice Duverger, a suo tempo fiero oppositore della Quinta Repubblica, quello specifico doppio turno ha prodotto una competizione bipolare[9] altamente funzionale al semipresidenzialismo.

Insomma, nel confuso e manipolato dibattito italiano, è purtuttavia emerso un modello, quello del semipresidenzialismo francese, che presenta molti più vantaggi che svantaggi.

In generale, il semipresidenzialismo viene criticato con argomenti molto capziosi, e respinto, con motivazioni particolaristiche o semplicemente sbagliate.

Lo respingono tutti coloro che

  • ad un Presidente eletto direttamente dai cittadini, e quindi sottratto alle contrattazioni dei partiti, preferiscono un Presidente contrattato e influenzabile;
  • ad un sistema partitico ristrutturato in chiave bipolare, dove i partiti contano per i voti che ottengono, preferiscono un sistema partitico gioiosamente multipolare, dove i partiti contano per le posizioni che occupano, le rendite che sfruttano, le diversificate coalizioni che costruiscono, le manovre che congegnano;
  • ad un sistema elettorale che offre maggiori opportunità di scelta e di influenza agli elettori preferiscono qualsiasi sistema elettorale che consenta ai dirigenti dei partiti di strutturare le scelte e di imporre agli elettori alleanze prefabbricate e, come abbiamo visto, “ribaltabili”.

Il semipresidenzialismo incombente

Su tutto questo è sempre stata incombente la mai precisata proposta di presidenzialismo di tipo USA, forse l’unica nota al suo proponente massimo Silvio Berlusconi, i cui consiglieri in materia di istituzioni non sono noti.

Nelle quinte si è tristemente aggirata la proposta di Mario Segni della trasformazione/superamento della democrazia parlamentare con la formula del “Sindaco d’Italia”. Senza citare Segni, dunque, furto o plagio, questa formula è stata rilanciata da Matteo Renzi come alternativa al semipresidenzialismo avanzato da Giorgia Meloni oppure come elemento per una eventuale contrattazione. In verità, nessuna contrattazione è possibile, meno che mai auspicabile. La logica delle due diverse forme di governo non le rende componibili e traducibili.

Soprattutto, è impensabile che una formula che ha avuto conseguenze molto positive per l’elezione del sindaco, la sua stabilità in carica, la sua efficacia decisionale possa essere riprodotta a livello nazionale. Risulterebbe comunque un unicum, non esistente da nessun parte al mondo: un presidenzialismo malamente mascherato con un Congresso a sostegno del Sindaco-Presidente la cui maggioranza deriverebbe da un cospicuo premio in seggi (il sogno finora non avverato di Renzi e dichiarato in parte non proponibile dalla Corte Costituzionale).

Dal canto suo, il semipresidenzialismo francese garantisce, come desiderato da Giorgia Meloni, la stabilità per tutto il mandato, cinque anni, di chi va ad occupare la Presidenza. L’efficacia decisionale dipenderà dalla qualità e dalla capacità del(la) Presidente e della sua maggioranza. Sul punto è lecito interrogarsi da quale legge elettorale sarà eletto il parlamento (da prevedersi, presumo, monocamerale).

Qualsiasi legge elettorale che consenta la frammentazione partitica mi pare inadatta a sostenere il semipresidenzialismo. Altrove, forse, bisognerà riflettere più a fondo e in maniera mirata sul tema. Qui chiudo su un punto che definisco di “filosofia politica” sul quale la distinzione effettuata da Meloni mi pare pericolosa anche per il suo del tutto probabile retropensiero.

Esplicitamente, al limite della brutalità politica, peraltro con solido fondamento storico e istituzionale, De Gaulle volle il semipresidenzialismo, unitamente al doppio turno in collegi uninominali, per “abbattere” quello che definiva sprezzantemente régime des partis, a favore delle personalità delle candidature.

Forse troppo influenzata da alcune tesi renziane e dei sostenitori del fiorentino, ad esempio, in primis, Luciano Violante, poi Augusto Barbera e la sua scuola, ed altri più o meno improvvisati costituzionalisti che non meritano la citazione, Meloni ha detto che è venuta l’ora di passare dalla democrazia interloquente (che mi suona proprio come il liquidare la essenziale conversazione democratica magari aggiungendovi la disintermediazione di renziano conio) alla democrazia decidente. Questo passaggio conduce il pensiero quasi inevitabilmente all’uomo, pardon, alla donna sola “al comando”. Non spingo la mia critica fino alla demonizzazione di un improbabile plebiscitarismo, ma sono convinto che c’è molto da discutere, ovvero interloquire, poiché democrazia, anche quella semipresidenziale, è, fra l’altro checks and balances: freni e contrappesi. Al sistema bisogna guardare senza gridare al lupo. Il dado semipresidenziale è tratto.

Conclusioni

Fra le ragioni per le quali il sistema politico francese appare più moderno, più sviluppato, più dinamico di quello italiano, pur essendo passato attraverso la disastrosa esperienza della Quarta Repubblica, che fu, sarà bene ricordarlo, quanto di più simile sia esistito con riferimento sia alla Costituzione sia al sistema partitico, alla Prima Repubblica italiana, si trova sicuramente il semipresidenzialismo con sistema elettorale a doppio turno.

Chi respinge lo scambio fra doppio turno e elezione diretta del Presidente della Repubblica, che, nonostante tutto, continua ad essere virtuoso, deve quantomeno assumersi le sue responsabilità e argomentare le motivazioni del suo rifiuto e, magari, prospettare, sempre argomentandole, alternative diverse e migliori. Finora, anno 2022, nessuno lo ha fatto adeguatamente.      


[1] Questo testo è tratto con qualche adattamento minore dal capitoletto omonimo pubblicato nel libro di Gianfranco Pasquino, Le parole della politica, Bologna, Il Mulino, 2010, 254 p. [la voce si trova alle pp. 195-201]. Lascio al lettore la valutazione di quanto solido è l’impianto.  Tutto nuovo è il paragrafo intitolato “Il semipresidenzialismo incombente”.

[2] Anche se nel corso del tempo la letteratura è molto cresciuta, poiché non vi sono stati sfondamenti teorici, rimane valida la discussione presentata da Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, Il Mulino, 1996, 148 p. Il volume è composto da tre capitoli. Il primo, di Oreste Massari, offre uno sguardo comparato sulle esperienze che di questa forma di governo si sono fatte in Europa, descrivendone analogie e differenze. Il secondo capitolo, di Stefano Ceccanti, è interamente dedicato al caso francese: analizza i motivi per cui il semipresidenzialismo è stato adottato in Francia, ne valuta il funzionamento, illustra quello che può e quello che non può fare il presidente. Il terzo capitolo, di Gianfranco Pasquino, tira le fila delle analisi precedenti con riferimento alla situazione italiana. Vengono esaminati le modalità e i tempi dell’elezione diretta del presidente e del parlamento, la formazione dei governi, il potere presidenziale di indire referendum. 

Soprattutto esemplare su questo tema è il volume curato da Robert Elgie e Sophia Moestrup, Semipresidentialism outside Europe. A comparative study, London and New York, Routledge, 2007, 278 p.

[3] Gianfranco Pasquino, “La lezione francese. Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali”, Democrazia futura, I (4), ottobre-dicembre 2021, pp. 793-801. Vedine l’anticipazione sul quotidiano online Key4biz: https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-sistema-maggioritario-a-doppio-turno-in-collegi-uninominali-la-lezione-francese/390149/.

[4] Sull’attività svolta in varie stagioni politiche dalla Commissione Bicamerale per le Riforme Costituzionali si veda la mia voce  nel mio volume Le parole della politica, op.cit. alla nota 1, pp. 25-30.

[5] Anche sul tema del Premierato forte rinvio alla voce scritta per Le parole della politica, ibidem, pp. 148-153.

[6] Sul potere di scioglimento del Parlamento del Presidente della Repubblica si veda Le parole della politica, ibidem, pp. 154-160.

[7] Sui rischi di deriva plebiscitaria dei sistemi presidenzialisti si veda Le parole della politica, ibidem, pp. 65-69.

[8] Sul tema della par condicio manifestatosi dopo la discesa in campo del principale imprenditore televisivo commerciale, Silvio Berlusconi, si veda Le parole della politica, ibidem pp. 125-131.

[9] Sul tema della competizione bipolare vedi sempre il mio studio su Le parole della politica, ibidem, alle pp. 31-35.

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