La festa

Democrazia Futura. San Calogero è un “santo nero”

di Carmen Lasorella, giornalista e scrittrice |

Perché il 2 settembre, in occasione della festa di San Calogero a Porto Empedocle, il questore Emanuele Ricifari ha disposto la verifica dei certificati penali dei portatori del santo.

Carmern Lasorella
Carmen Lasorella

Carmen Lasorella in un breve testo per Democrazia futura “San Caligero è un santo nero” spiega “Perché il 2 settembre, in occasione della festa di San Calogero a Porto Empedocle, il questore Emanuele Ricifari ha disposto la verifica dei certificati penali dei portatori del santo”.

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La sua immagine è quella di un uomo con i capelli bianchi e la pelle scura. Nella sua radice greca, il nome significa “bella vecchiaia”.

Il Santo era un eremita più che novantenne, venerato in tutta la Sicilia, dove era arrivato dalle coste del Vicino Oriente, inviato da Dio per evangelizzare l’isola.

In occasione della festa di San Calogero a Porto Empedocle, il questore Emanuele Ricifari, da soli quattro mesi nella sua nuova sede di Agrigento, ha disposto la verifica dei certificati penali dei portatori del santo.

Coloro che fossero risultati pregiudicati per associazione mafiosa o altri gravissimi reati non avrebbero potuto aprire la processione, con i ben noti “inchini” davanti alle case dei mafiosi, come troppe volte accaduto in passato.

Tutto si è svolto sotto il pieno controllo delle forze di polizia, le proteste subito scatenate sono rientrate, l’affollata processione del 2 settembre ha avuto luogo tranquillamente.

L’arcivescovo, Monsignor Alessandro Damiano, si è schierato con il questore sul giornale diocesano; nelle ore successive, anche il prefetto e il sindaco di Agrigento hanno commentato il senso dell’evento in una terra che ogni giorno vive l’odissea dei migranti dalle coste che furono di San Calogero fino a Porto Empedocle, ma soprattutto a Lampedusa, entrambe in provincia di Agrigento.

È una storia che fa piacere raccontare.

Un modello di contagio positivo. La prova, di una comunità, che se opportunamente stimolata da chi interpreta senza ipocrisie il proprio mestiere, può trovare al suo interno gli anticorpi per reagire a prevaricazioni che siano mafiose o semplicemente autoritarie.

Un esempio per le tante periferie del Paese diventate terra di nessuno, senza diritti soprattutto per i più deboli, in particolare i migranti, dove si stuprano bambine o si piangono ragazzi uccisi da altri ragazzi.

Nel film Cento giorni a Palermo del 1984, appena due anni dopo l’assassinio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro, di cui ricorre il quarantunesimo anniversario, Giuseppe Ferrara, regista coraggioso, che ha indagato attraverso il cinema momenti scomodi della nostra storia, fa rivolgere da un operaio una domanda:

”Prefetto, è venuto qui a fare la rivoluzione?”

Dalla Chiesa aveva già incontrato gli studenti, aveva partecipato alla processione di Santa Rosalia a fianco dell’allora arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, aveva cercato l’appoggio della società civile.

Lui risponde:
“Sono qui per far sentire la presenza dello Stato”.  

L’operaio ribatte:
“E non le sembra una rivoluzione?”

Non vale solo per la Sicilia.                                                                                 

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