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Democrazia Futura. Riformare l’Ue perché divenga uno Stato di diritto? Un principio irrinunciabile

Proseguono le pubblicazioni del primo. numero di Democrazia futura con un accorato appello del presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo Pier Virgilio Dastoli all’Europa a difendere lo stato di diritto. Si tratta di un principio irrinunciabile per il quale occorre riformare l’Unione, consentendole di poter sanzionare la “democrazia illiberale“ di Viktor Orban in Ungheria e i pieni poteri assunti dal partito nazionalista del Diritto e della Giustizia in Polonia.

Nel progetto di integrazione comunitaria, concepito da Jean Monnet e riversato prima nella Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 e poi nel preambolo del Trattato che istituisce la Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio del 18 aprile 1951, sono chiari ed espliciti gli obiettivi della pace mondiale e del progresso economico mentre sono impliciti i principi della democrazia liberale e dei diritti umani che sono alla base dello stato di diritto perché la cooperazione fra i paesi dell’Europa occidentale era parte essenziale dell’alleanza atlantica che contrapponeva l’ideale di libertà affermato nell’area di influenza americana alla sua soppressione nella parte del mondo sottomessa all’imperialismo sovietico.

Essendo implicita l’adesione a questo ideale, nessuno dei governi che diede vita ai trattati comunitari ritenne necessario sottolineare che fra le condizioni per aderire alle Comunità ci dovesse essere il rispetto della democrazia sostanziale e dei diritti fondamentali poiché era per quei governi evidente che avrebbero potuto aderire alle Comunità europee sono gli Stati europei già membri del Consiglio d’Europa. Cosicché l’art. 98 del Trattato della CECA, l’art. 237 del Trattato CEE e l’articolo 205 del Trattato Euratom si limitano a precisare che “ogni Stato europeo può domandare di diventare membro della Comunità” essendo chiaro in diritto che l’adesione alla CEE comportava automaticamente l’adesione e l’ammissione alla CECA e all’EURATOM.

Il rapporto fra l’integrazione comunitaria e la dimensione transatlantica, limitato tuttavia agli aspetti delle relazioni internazionali, fu ribadito solo nella Dichiarazione di Bonn del 18 luglio 1961 nella quale i Capi di Stato e di governo dei Sei ribadivano che l’ammissione alle Comunità comportava anche l’adesione alla cooperazione politica e dunque implicitamente all’alleanza atlantica anche se i trattati non escludevano l’adesione di Stati neutrali non appartenenti alla Nato come è avvenuto successivamente ai trattati di Roma con Irlanda, Austria, Malta, Svezia e Croazia.

I precedenti della Grecia dei colonnelli e della Spagna tardo franchista

Durante il regime dei colonnelli in Grecia (1967-1974) le  Comunità europee furono chiamate a decidere se l’accordo di associazione sottoscritto nel 1963 fra Bruxelles e Atene dovesse essere rispettato fino in fondo da Bruxelles ivi compresa la clausola secondo cui l’accordo preludeva ad una futura domanda di adesione della Grecia alle Comunità europee (pacta sunt servanda) o se l’arrivo dei colonnelli al potere e le loro atrocità dovessero congelarlo in attesa del ritorno alla democrazia che potremmo definire ateniese (rebus sic stantibus).

Come sanno molti anziani democratici greci, su proposta di Altiero Spinelli e con il voto contrario del liberale tedesco Ralf Dahrendorf – poi diventato baronetto di Sua Maestà Elisabetta II ed euroscettico – la Commissione propose e il Consiglio decise di chiudere le porte in faccia ai colonnelli contribuendo così alla lenta ma inesorabile agonia del regime militare. Non fu la prima e l’ultima volta in cui i valori democratici prevalsero a Bruxelles accantonando gli interessi economici e commerciali perché lo stesso trattamento fu riservato al “regime-canaglia” di Francisco Franco che, cosciente di essere alla fine della sua dittatura, aveva avviato verso Bruxelles una inverosimile operazione di captatio benevolentiae bloccata dopo l’esecuzione a Barcellona il 2 marzo 1974 dell’anarchico Salvador Puig i Antich con il metodo della garrota.

I nuovi criteri di adesione all’Unione europea introdotti nel 1993 dal Trattato di Maastricht

All’interno dell’Unione europea la questione della scelta fra democrazia e autoritarismo si pose con l’arrivo al potere in Austria, alle elezioni legislative in ottobre 1999, del populista Joerg Haider provocando l’apparente sospensione delle relazioni bilaterali fra gli allora quattordici membri dell’Unione europea e il governo di Vienna che ripresero un anno dopo grazie ad un rapporto – degno di Ponzio Pilato – scritto dal finlandese Martti Ahtisaari, dal tedesco Jochen Frowein e dallo spagnolo Marcelino Oreja a nome del Consiglio d’Europa in cui si sosteneva che il governo austriaco era impegnato “nel proseguimento della lotta contro il razzismo, l’antisemitismo, la discriminazione e la xenofobia”.

E’ noto che i criteri per aderire all’Unione europea introdotti nel Trattato di Maastricht sono diventati formalmente molto rigorosi essendosi ispirati a quelli che furono adottati dal Consiglio europeo di Copenaghen nell’aprile 1978 (secondo cui “il rispetto e il mantenimento della democrazia rappresentativa e dei diritti dell’uomo in ciascuno degli Stati membri costituiscono degli elementi essenziali dell’appartenenza alle Comunità europee”) e  poi nel giugno 1993 sempre a Copenaghen che unirono ai criteri politici quelli economici. Si noti en passant che i criteri del 1978 riguardavano indistintamente sia l’adesione che l’appartenenza alle Comunità pur non essendo stati inseriti nei trattati esistenti mentre quelli del 1993 riguardavano solo l’adesione precisando le condizioni fissate dal Trattato di Maastricht.

La formula lasca del Trattato di Lisbona e le difficoltà di poter sanzionare la “democrazia illiberale” di Orban e i pieni poteri del partito nazionalista del Diritto e della Giustizia in Polonia

Si noti ancora la differenza fra la formula asciutta del Progetto Spinelli secondo cui “ogni Stato europeo democratico” può chiedere di aderire all’Unione europea e la formula apparentemente più ricca ma di fatto più lasca del Trattato di Lisbona secondo cui ogni Stato europeo “che rispetta i valori previsti dall’art. 2 TUE e si impegna a promuoverli può chiedere di diventare membro dell’Unione”. Cade dunque con il Trattato di Lisbona il rapporto fra il carattere democratico (seppure limitato alla sola democrazia rappresentativa) e l’appartenenza all’Unione europea.  Approfittando di questa ambiguità e della sostanziale inefficacia delle procedure che dovrebbero consentire all’Unione europea di sanzionare uno Stato (ma di fatto un governo) che viola i valori indicati nell’art. 2 TUE, l’ungherese Viktor Orban ha costruito dal maggio 2010 quella che egli stesso ha chiamato “democrazia illiberale” in un discorso tenuto il 28 luglio 2018 alla Summer Open University and Student Camp organizzata da Fidesz, il partito da lui portato nel 1998 da posizioni liberali e pro-europee ad un conservatorismo nazionalista di estrema destra.

Cinque anni dopo il partito nazionalista polacco del Diritto e della Giustizia, che aveva già fatto parte di governi di coalizione fra il 2005 e il 2007, ha a sua volta conquistato i pieni poteri nel Parlamento e alla presidenza della Repubblica creando così al centro dell’Europa uno spazio abitato da quasi cinquanta milioni di abitanti al cui interno i principi essenziali dello Stato di diritto sono stati gradualmente ma inesorabilmente violati, la corruzione è diffusa, le relazioni con i paesi terzi vicini confliggono con gli orientamenti nella politica estera e di sicurezza dell’Unione europea così come confligge l’insieme giuridico che appartiene al controllo delle frontiere, all’immigrazione, all’asilo, alla cooperazione civile, penale e di polizia e più in generale alla indipendenza della magistratura e alla separazione dei poteri.

I nodi irrisolti dal compromesso raggiunto al Consiglio Europeo di dicembre 2020 sotto la Presidenza tedesca del Consiglio

Il compromesso raggiunto al Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2020 sulla cosiddetta “dichiarazione interpretativa” del Regolamento relativo alla condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione non ha certo valore giuridicamente vincolante perché impegna formalmente solo il Consiglio europeo, che lo ha inserito nelle sue conclusioni, ma – al di là dei tempi più lunghi di applicazione delle misure finanziarie per recuperare o ridurre sovvenzioni concesse a Stati che abbiano violato i principi dello Stato di diritto – restano in vigore in Polonia e Ungheria tutte quelle decisioni legislative e costituzionali che rappresentano delle gravi fratture degli elementi essenziali dello stato di diritto così come è stato definito concordemente dalla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Il vulnus di cui soffre l’Unione europea dal 2010 in Ungheria e dal 2015 in Polonia non sarà dunque annullato dal Regolamento votato a maggioranza qualificata dal Consiglio e dal Parlamento europeo, mentre rimarrà inapplicabile l’art. 7 del Trattato di Lisbona che affida al Consiglio europeo il potere di constatare all’unanimità l’esistenza di una violazione “grave e persistente” dei valori indicati nell’’art. 2 TUE e che prevede sanzioni talmente ipotetiche da aver consentito, subito dopo il Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2020, al Parlamento ungherese l’adozione di una modifica della costituzione in materia di diritto di famiglia che lede i principi della non discriminazione sia all’interno dell’Ungheria che verso l’insieme dei cittadini europei. Il Regolamento si applica solo alla violazione degli interessi finanziari dell’Unione europea e non consente di sanzionare, attraverso il recupero o la mancata attribuzione di risorse del bilancio europeo, governi e sistemi pubblici nazionali che ledono i principi generali dello stato di diritto.

Questo vulnus è il prodotto di un’Unione europea che chiede ai suoi membri il rispetto dello Stato di diritto ma che lo viola al suo interno quando il Consiglio europeo esercita funzioni legislative che gli sono interdette dal Trattato, quando il Consiglio europeo o il Consiglio o la Commissione violano il principio della trasparenza, quando il Trattato non prevede l’accesso specifico alla Corte per violazione dei diritti fondamentali, quando il sistema dell’Unione europea non rispetta il principio dell’equilibrio istituzionale, quando i governi nel loro insieme e all’interno dell’Unione europea non operano secondo il principio di responsabilità ed infine quando non prevale il principio del primato della legge europea sulle leggi nazionali.

Trasformare l’Unione europea da comunità sui generis in un vero Stato di diritto. Il ruolo preparatorio che potrebbe assumere la Conferenza sul futuro dell’Europa durante la Presidenza francese nel 2022

Superato lo scoglio del bilancio pluriennale 2021-2027 (anche se i parlamenti nazionali devono ancora ratificare l’aumento del massimale delle risorse proprie dall’1.2 al 2 percento del Reddito Globale dell’Unione europea e del piano per la nuova generazione europea (Next Generation EU, che è un piano e non un fondo o fund come una parte preponderante della stampa e dei media che ignora l’ABC delle cose europee, molti politici e anche think tank continua a etichettare) ci attendiamo ora che il Parlamento europeo (im)ponga nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa il tema della trasformazione dell’Unione europea da una comunità sui generis in un vero stato di diritto aprendo la strada verso un processo costituente di una genuina Comunità federale.

Per raggiungere questo obiettivo la Conferenza sul futuro dell’Europa dovrà rappresentare solo una fase preparatoria destinata a concludersi nella primavera del 2022 durante il semestre di presidenza francese del Consiglio dell’Unione europea per lasciare il posto ad un processo costituente fino alle elezioni europee nel maggio 2024 e al cui interno il Parlamento europeo dovrà avere un ruolo di leadership a nome delle cittadine e dei cittadini europei che lo hanno eletto.

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