Nella Rassegna di varia Umanità che completa la Terza parte del fascicolo troviamo una rievocazione della lezione di una grande giornalista del servizio pubblico ad un anno dalla morte. Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani esperta di politica internazionale, e già collaboratrice dello scrittore riminese, nel suo pezzo “Ricordare Sergio Zavoli tra ubriacature social e sete di inchieste” parte da una sua sentenza: “La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”. Per la Speranza “Non è solo una bella frase da ricordare, magari rievocando i tempi d’oro dell’inchiesta che fu, ma deve essere il principio con il quale analizzare, da cronisti che antepongono i fatti alle considerazioni, quanto accade oggi, a partire dal proliferare di notizie e dalla sparizione delle inchieste […] Nel caso di Zavoli, si andava oltre la cronaca raccontata correttamente che è già buon giornalismo. Si aggiungeva lo slancio di scavare, andare oltre la descrizione e la ricostruzione di un fatto, per indagare su di esso, ricercarne cause e spiegazioni, e spesso svelare ciò che è nascosto, portando alla luce aspetti e circostanze ignote ai più, o – peggio – che qualcuno vuole occultare”. Per Zavoli – chiarisce – “L’inchiesta deve rimbalzare”. “Ho sempre pensato – aggiunge la Speranza – che significasse che doveva essere come una palla lanciata non per andare a segno su un obiettivo predestinato ma per raggiungere spazi inattesi. Non si può concepire, come purtroppo spesso accade, che si raccolgano prove per una tesi precostituita. Non è questo – pensava Zavoli – il valore dell’inchiesta, che piuttosto deve servire a scavare e a scoprire quello che è ignoto anche a chi decide di andare a fondo e che poi deve fare i conti con la “verità” che gli si palesa. Non è una considerazione scontata. Ci vuole onestà intellettuale e dobbiamo riconoscere che non è merce che si trova facilmente di questi tempi”.
“La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”
Una delle figure chiave del giornalismo italiano, Sergio Zavoli, scomparso il 4 agosto 2020, ne era convinto, e amava ripeterlo. Non è solo una bella frase da ricordare, magari rievocando i tempi d’oro dell’inchiesta che fu, ma deve essere il principio con il quale analizzare, da cronisti che antepongono i fatti alle considerazioni, quanto accade oggi, a partire dal proliferare di notizie e dalla sparizione delle inchieste. Tra i dati più rilevanti da considerare c’è un fenomeno tanto sottaciuto quanto grave: oggi la disinformazione è più pagata del corretto giornalismo. Sul web è spesso involontariamente finanziata anche dai maggiori inserzionisti pubblicitari perché prevalgono meccanismi di automazione. Significa sacrificare il senso critico di una cittadinanza alla dittatura dell’algoritmo. Da tutto ciò dobbiamo partire per ragionare sul valore dell’inchiesta ai tempi dei social, tra tagli alle redazioni giustificati dalle crisi economiche, dimenticanza delle fonti accertabili camuffata da post verità, superficialità spacciata per velocità.
Del giornalismo appassionato e accuratissimo di Zavoli restano produzioni da manuale, ma forse l’eredità più preziosa sta proprio nella tensione morale, alla quale, come tutti gli umani, non sarà stato sempre perfettamente all’altezza nei suoi 96 anni di vita, ma che senza dubbio lo ha chiaramente contraddistinto non abbandonandolo mai e permeando profondamente i suoi oltre settant’anni di attività da giornalista, politico, scrittore.
Stiamo parlando della tensione a rispettare valori come la verità, la libertà, la giustizia, il senso del bene comune.
Stiamo parlando di giornalismo serio e di qualità, il solo possibile nella convinzione che Alexis De Toqueville ha ben sintetizzato avvertendo che “la democrazia è il potere del popolo informato”. Altrimenti, è potere manipolabile e manipolato.
Nel caso di Zavoli, si andava oltre la cronaca raccontata correttamente che è già buon giornalismo. Si aggiungeva lo slancio di scavare, andare oltre la descrizione e la ricostruzione di un fatto, per indagare su di esso, ricercarne cause e spiegazioni, e spesso svelare ciò che è nascosto, portando alla luce aspetti e circostanze ignote ai più, o – peggio – che qualcuno vuole occultare. Zavoli, che è stato anche presidente Rai e, una volta senatore, è stato nominato presidente della Commissione di Vigilanza Rai, ha firmato reportage che hanno aperto orizzonti di comprensione su temi come il terrorismo, il fascismo, la democrazia, la malattia mentale, la scuola. “La notte della Repubblica” o “Nascita di una dittatura” sono solo i titoli più noti, fino a “Diario di un cronista”.
“L’inchiesta deve rimbalzare”
E’ essenziale in ogni caso il rispetto della verità. Si può argomentare per secoli sui criteri di valutazione: possiamo parlare di verità oggettiva, storica o contingente, eccetera eccetera. Al di là delle possibili elucubrazioni al proposito, c’è qualcosa di profondamente “pragmatico” che Zavoli insegnava a chi ha avuto, come chi scrive, il privilegio di lavorare con lui. Ed è racchiuso in una simpatica espressione che ripeteva con convinzione: “L’inchiesta deve rimbalzare”. Ho sempre pensato che significasse che doveva essere come una palla lanciata non per andare a segno su un obiettivo predestinato ma per raggiungere spazi inattesi. Non si può concepire, come purtroppo spesso accade, che si raccolgano prove per una tesi precostituita. Non è questo – pensava Zavoli – il valore dell’inchiesta, che piuttosto deve servire a scavare e a scoprire quello che è ignoto anche a chi decide di andare a fondo e che poi deve fare i conti con la “verità” che gli si palesa. Non è una considerazione scontata. Ci vuole onestà intellettuale e dobbiamo riconoscere che non è merce che si trova facilmente di questi tempi. Ma dobbiamo anche riconoscere che, al di là della “qualità” dei giornalisti, ci vogliono anche tempo e risorse che purtroppo le testate giornalistiche non sono più disposte a concedere, se non eccezionalmente.
Futuro dell’inchiesta, post-verità e social network
Ma se pensiamo allo stato di salute attuale e al futuro dell’inchiesta, non possiamo non parlare delle implicazioni della cosiddetta post verità. E’ un termine ormai entrato nel gergo del mondo occidentale e forse ancora di più nell’attitudine mentale. Il primo a chiarirci le idee è stato il filosofo polacco Zygmunt Bauman che ha parlato di “modernità liquida” in cui tutto – compresa la verità – è individualizzato, privatizzato, incerto, flessibile, vulnerabile.
Poi abbiamo riconosciuto il concetto di post verità, che individua in sostanza le tante situazioni in cui deliberatamente, facendo leva sulle emozioni, sulle personali credenze, sui pregiudizi cognitivi della psiche di ognuno, la realtà viene distorta e si stabilisce una sequenza parallela. Si crea una realtà fittizia ma il punto è che è proprio in base a questa “verità” fittizia che molti formano le loro opinioni, attraversano e rileggono le loro esperienze. E’ qualcosa che va ben oltre l’individualismo e il relativismo ed è ben evidente quanto facilmente si sposi con il mondo dei social network. E’ un meccanismo in base al quale quanto percepito è considerato vero perché sorretto anche solo dal desiderio e dai sentimenti o dalle sensazioni cui fa appello. Il problema vero è l’impatto che tutto ciò ha sui comportamenti degli individui e delle masse. E il quesito essenziale è come far sopravvivere la ricerca del vero oltre l’apparenza – l’inchiesta – in un momento storico in cui sensazioni e sensazionalismo diventano il sostegno della realtà.
Il bisogno di verità dopo la presa di Kabul…
A ben guardare tutto ciò non significa che sia morto il bisogno dell’uomo di verità o che la verità non abbia più un peso e un valore. Solo guardando all’emergenza Afghanistan, è evidente come i talebani la temano più di ogni altra cosa. Gli attacchi ai media hanno accompagnato di pari passo la conquista di nuovi territori. Dove hanno imposto la sharia, hanno anche subito trasformato le radio locali in organi di propaganda. E tra i primi oppositori giustiziati dagli jihadisti è stato assassinato a Kabul il direttore del Government Information Media Center, Dawa Khan Menapal, figura chiave per la comunicazione del governo, già uno dei portavoce del presidente Ashraf Ghani. Se la prendono con i giornalisti, li braccano, li minacciano, li ammazzano. Le uccisioni di giornalisti, di interpreti, i raid sulle radio locali, fanno parte di un’unica strategia. Non possono permettersi alcuna narrazione che sia diversa dalle loro bugie e dalle loro fake news. Possono imporsi soltanto con la brutalità e mettendo a tacere qualunque altra verità diversa dalla loro.
— e le manifestazioni di guerriglia urbana a casa nostra
Non ci sono soltanto gli scenari estremi. Ci sono anche prospettive molto inquietanti a casa nostra. Le recenti manifestazioni di protesta in molti Paesi occidentali sono il segnale di come la pandemia stia contribuendo a destabilizzare la relazione fra i cittadini e lo Stato. Le scene di guerriglia urbana provocate a Roma e in altre città d’Italia a fine agosto dai cosiddetti “no vax” e “no pass” sono state caratterizzate da due preoccupanti elementi: l’uso della violenza e la scelta dei giornalisti e degli scienziati come obiettivo da colpire.
La pandemia ha generato frustrazione, esclusione sociale e molte altre preoccupazioni, alimentando gli atteggiamenti antigovernativi e anti-sistema.
Lo sottoscrive uno studio dell’Istituto di ricerca sulla pace di Oslo pubblicato sulla rivista Psychological Science[1]. Il gruppo di analisti ha intervistato 6 mila adulti abitanti negli Stati Uniti, in Danimarca, Italia e Ungheria ed è emerso un impressionate legame tra il carico psicologico del Covid-19 e sentimenti e comportamenti altamente distruttivi, incluso l’uso della violenza per una causa politica. Non è invece emersa una relazione consistente tra il peso della pandemia e le motivazioni a impegnarsi in forme di attivismo pacifico. Per questo – raccomanda lo studio – quando finirà, i programmi di ripresa dovranno anche riparare le relazioni tra i cittadini e il sistema politico. Senza dimenticare le relazioni tra cittadini e giornalisti, bersaglio in realtà già da prima della pandemia della furia delegittimatrice dei populismi.
Verità fa rima con libertà
Non si può cercare la verità se non si è liberi. Ma anche per il concetto di libertà bisognerebbe intendersi. E’ ovvio che il giornalista deve poter avere un margine di movimento, non può essere ingabbiato da nessuno, nei tanti modi in cui può accadere che lo sia. Ma c’è un altro punto di vista decisivo. Tra i ricordi più vivi delle riunioni di redazione con Zavoli e di alcuni scambi personali, nella memoria di chi scrive c’è un pensiero preciso formulato a seguito di alcune considerazioni del giornalista che amava definirsi cronista. Per un intellettuale, la libertà fondamentale – sembrava suggerire Zavoli – non è solo quella di muoversi in qualunque spazio senza limitazioni o con meno limitazioni possibile, ma è quella di gestire la propria interiorità. Sono bisogni e desideri, ambizioni e aspettative, se non la cupidigia di gloria, di soldi, di potere, a limitare la libertà di movimento. I legacci non sono solo al di fuori, ma dentro di noi. Tante considerazioni e tanti ricordi si potrebbero aggiungere su questo tema. Personalmente ricordo scambi intensissimi di pensieri e di dubbi sulla fede. Non vorrei o saprei raccontarli. Ma c’è un verso dedicato a Dio che, senza restituire tutto lo spessore delle riflessioni di Zavoli e della sua esperienza umana e spirituale di cui nessuno peraltro potrebbe mai davvero dire se non balbettare, mi sembra esprimere il suo anelito di conoscenza, di verità, di libertà perfino nel rapporto con l’ultraterreno, almeno nella dimensione in cui riusciamo a pensarlo.
“Noi parliamo di Dio quasi origliasse
per sapere che cosa ne pensiamo,
ed è arduo non nominarlo invano
specie da quando, irato,
ha scelto il suo nascondimento…”[2]
In relazione alla fede, resta il titolo del suo libro, Il socialista di Dio, pubblicato nel 1981 da Mondadori,[3] che ha spiegato che un tempo essere socialisti voleva dire essere atei, mentre Zavoli era di fede cattolica e di animo laico. Ha segnato una sorta di superamento di una barriera, da parte di un uomo che era profondamente figlio della tradizione politica romagnola che affondava le sue radici nella difesa dei deboli ma anche nelle violente lotte anticlericali contro lo Stato Pontificio. Ma in realtà bisogna riconoscere che le definizioni non possono essere efficaci di fronte a personalità che meritano questo appellativo. E infatti, più che di superamento, dovremmo parlare di sintesi che l’uomo, il comunicatore, il poeta, ha poi personalmente espresso, tante sintesi quanti sono stati i momenti e i passaggi più significativi della sua esistenza e delle sue convinzioni religiose e politiche. Per un intellettuale vero non c’è approdo: c’è solo la tensione di un continuo viaggiare verso, cercare, attraversare significati e definizioni.
Se la superficialità è spacciata per velocità
Si è detto per anni: la radio lancia la notizia, la Tv la fa vedere, il quotidiano la spiega. Non si è capito ancora cosa debbano fare il web e i social. Si può obiettare che siamo nell’era del medium totale, ma si deve riconoscere che la rete ha gestito l’informazione prima che il mondo del giornalismo gestisse davvero internet.
Di certo c’è che si è imposto un ritmo di snellezza della notizia, corredata da video e foto che rappresentano un’ipoteca sul sensazionalismo, carente troppo spesso di vere spiegazioni.
E quel che è peggio è che la rete e i social sono diventati fonti per i media tradizionali. L’effetto principale è di stordimento e di assuefazione a un fenomeno: l’offerta in termini numerici si è esponenzialmente moltiplicata, ma troppo spesso viene riproposta la stessa notizia che conserva spessissimo anche lo stesso errore di battitura.
Tutto ciò risponde e riconduce a un pensiero disarticolato e spezzettato che sta agli antipodi rispetto al concetto di approfondimento o di inchiesta. E chi vive la realtà di tante delle redazioni di oggi si rende conto che corrisponde alla velocità con cui si fanno le riorganizzazioni aziendali.
Accade che professionisti siano surclassati da persone meno competenti scelte per dirigere settori cruciali dell’informazione perché se ne sapessero abbastanza si renderebbero conto dello scempio che si compie. L’ignoranza, se si sposa con l’ambizione partorisce obbedienza, tanto apprezzata in tempi di tagli e di sensazionalismo.
Dunque, la superficialità è servita in salsa veloce, condita da ignoranza. La distanza dall’amore per lo studio e il rispetto della competenza che si respirava accanto a Sergio Zavoli, e che peraltro ovviamente conosce altre felici eccezioni, è abissale.
E accade che, mentre i media seri stanno vivendo grosse difficoltà a livello globale, l’industria della disinformazione sta vivendo un momento particolarmente florido.
Programmi strutturati di inserzioni pubblicitarie per 2,6 miliardi di dollari all’anno firmati da top brand del settore sembrerebbero una fetta come un’altra di mercato, se non fosse che il prodotto in questione da promuovere è la disinformazione.
A tanto ammonta, infatti, l’incasso per chi produce fake news, secondo la ricerca condotta grazie alla combinazione dei dati di NewsGuard e quelli di Comscore. Si tratta rispettivamente dell’organizzazione fatta di giornalisti che monitorano la disinformazione online e dell’azienda che misura pubblico, traffico e metriche pubblicitarie per decine di migliaia di siti. NewsGuard è un’estensione per browser Internet, creata da NewsGuard Technologies.
In sostanza, si tratta di un programma che contrassegna le notizie con un’icona di colore verde oppure rosso, che permette agli utenti di riconoscere le fake news.
ComScore è una società di ricerca via internet in grado di fornire servizi e dati per il marketing in diversi settori commerciali del web. Sostanzialmente tiene un monitoraggio costante di tutti i flussi che appaiono in internet per studiare il comportamento della “rete”. Sussulti di consapevolezza.
A chi pubblica falsità, dunque, arrivano miliardi di dollari che possiamo stimare per difetto perché si tratta solo di quelli che risultano. Le piattaforme digitali che controllano gran parte del mercato pubblicitario non rendono pubblici tali dati.
Spesso le pubblicità vengono inserite automaticamente tramite algoritmi dalle piattaforme pubblicitarie digitali. Gli strumenti offerti dalle aziende tradizionali di verifica delle inserzioni, create con lo scopo di proteggere i brand dall’inserire annunci su siti inappropriati, sono efficienti nell’uso dell’intelligenza artificiale per individuare e bloccare le pubblicità su siti pornografici, o che promuovono violenza e odio.
Queste aziende sono invece generalmente inefficaci nel riconoscimento della disinformazione, che spesso si presenta esattamente come vera e propria notizia e che non può essere identificata attraverso l’uso della sola intelligenza artificiale.
Quanto valore commerciale produce il mercato delle fake news ben indirizzate
Le falsità più supportate dalla pubblicità riguardano settori estremamente sensibili per il cittadino: salute, disinformazione elettorale, propaganda. Si tratta semplicemente di notizie false ma catturano l’attenzione proprio perché l’ambito interessa. Un esempio lampante arriva da quello che è accaduto in Germania nell’estate che ha preceduto il voto di ottobre 2021. Mentre il partito dei Verdi ha continuato ad essere il principale obiettivo della campagna di falsità, le alluvioni hanno introdotto nuove narrative di disinformazione elettorale su presunti illeciti compiuti durante i disastri, incluse affermazioni secondo cui le inondazioni sarebbero state interamente orchestrate per ragioni politiche.
Il sito web anonimo N23.tv, considerato inaffidabile da NewsGuard perché viola pesantemente standard giornalistici fondamentali, ha scritto precisamente che “evidenti anomalie suggeriscono fortemente che l’inondazione di intere località e regioni sia stata voluta e forse anche intenzionalmente forzata”. L’articolo ha raggiunto oltre 60 mila utenti su Facebook, secondo i dati di CrowdTangle, uno strumento di monitoraggio dei social media di proprietà di Facebook. Va ribadito che non sempre c’è consapevolezza da parte dei brand del fatto che la loro pubblicità raggiunge siti di questo tipo.
La cosiddetta pubblicità programmatica passa per un processo automatizzato che non offre informazioni chiare e complete ai brand su dove esattamente compaiano i loro annunci e di conseguenza su quale tipo di informazioni stiano finanziando.
Ma nessuno può girarsi dall’altra parte. Ridurre o eliminare le pubblicità che inavvertitamente supportano i siti di fake news toglierebbe loro una fonte di guadagno determinante. Ben l’1,68 per cento della spesa per la pubblicità programmatica nei 7.500 siti facenti parte del campione è andata a siti che pubblicano disinformazione.
Considerando i 155 miliardi di dollari della spesa mondiale della pubblicità programmatica, si arriva alla stima di spesa pubblicitaria mondiale annua su siti di disinformazione pari ai 2,6 miliardi di dollari sopra citati. Quest’ultima ricerca arriva dopo numerosi altri report sulla sconcertante iniezione di fondi con la quale gli inserzionisti supportano inavvertitamente la disinformazione attraverso la loro pubblicità. Le notizie sono false ma ben indirizzate.
Grazie all’analisi di NewsGuard e Comscore si comprende bene il motivo per cui così tanti siti che pubblicano bufale siano in grado di generare introiti e mantenere modelli aziendali di successo. I loro articoli tendono a generare interazioni significative online e gli articoli contenenti notizie false sono spesso anche promossi dagli algoritmi dei social media. L’elemento determinante è che sono studiati per massimizzare il livello di interazione e le entrate pubblicitarie e non l’accuratezza dell’informazione e la sicurezza di chi legge. In definitiva, oggi chi pubblica disinformazione può produrre notizie false a un costo molto ridotto, a prescindere dal fatto che si tratti di notizie semplicemente inaccurate oppure dannose, e può competere in termini di engagement e introiti con organizzazioni giornalistiche legittime che spendono milioni in giornalisti, editor, cosiddetti fact-checker per produrre contenuti accurati e di qualità. Inoltre, ogni dollaro speso in pubblicità che vada a siti di disinformazione contribuisce molto più alla produzione di notizie false di quanto un dollaro speso in pubblicità che vada a media legittimi contribuisca alla “produzione” di vero giornalismo.
L’intelligenza umana come forma di resistenza al “copia e incolla” e agli algoritmi
Serve l’intelligenza umana, ovvero giornalisti formati e competenti che non si affidino al “copia e incolla” e agli algoritmi. Sembrerebbe banale ripeterlo ma invece ci rendiamo conto che non è scontata una considerazione né per giovani laureati né per professionisti: se si trova un articolo sulle pagine di un motore di ricerca o di un social media non è detto che sia scritto da un giornalista legato a regole di deontologia professionale: potrebbe, ad esempio, far parte di una campagna politica. Sarebbe fondamentale capire chi finanzi quel sito – un’azienda privata, un governo straniero – e quale sia il suo orientamento editoriale. Ma difficilmente, nonostante la delicatezza e l’importanza dell’informazione, ci si sofferma o si hanno effettivamente gli strumenti per capire. Non si tratta di valutazioni di tipo ideologico sui contenuti, ma di analisi dei criteri che assicurano affidabilità a un prodotto giornalistico.
Alcuni esempi: si controlla se quel sito citi le fonti da cui attinge per le notizie o se pubblichi smentite in caso di errori. Sembrano dettagli ma, con altre considerazioni, fanno invece la differenza. Così come un’informazione corretta fa sempre la differenza per il cittadino.
Sono considerazioni che non valgono solo per l’ambito della pubblicità. E bene lo ha argomentato Michele Mezza su questa rivista nel suo testo intitolato “Lo spillover del giornalismo”, pubblicato nel fascicolo invernale 2021. Mezza invita a
“riprogrammare le intelligenze dell’informazione”, parlando della figura del social timing manager che “non deriva né da esperienze giornalistiche né da logiche editoriali, ma direttamente dalle pratiche di esecuzione degli stilemi algoritmici”, e che “tende a chiedersi solo come postare e non perché postare”.
E’ chiara, efficace, esaustiva la sua definizione:
“La redazione diventa così sempre più un hub, una stazione di smistamento, dove il momento magico è dato dalla coincidenza che si coglie fra attenzione e contenuto”[4].
Conclusione
C’è da chiedersi quanto spazio resterà per la corretta informazione. Non per lagnarsi della delusione per le “magnifiche sorti e progressive” che la tecnologia riserva, ma per cercare di recuperare la consapevolezza che era degli antichi: nella mitologia greca e romana Atena/Minerva era dea della guerra e delle arti intellettuali. Inventare divinità non era certo un problema all’epoca: la sovrapposizione era voluta e significativa. Nella ricchezza dell’immaginario dei Classici, i due orizzonti di vita hanno in comune il valore del campo di battaglia. Battaglie profondamente diverse, anzi di concezione opposta, ma battaglie.
L’impegno intellettuale è il contrario dell’arrendevolezza. Ricordiamo Sergio Zavoli per conservare la grinta di fare e farsi domande vere e in autentica libertà. E’ bello farlo con alcuni suoi versi, ricchi del suo indimenticabile garbo e della sua indomita intelligenza:
“Mi domando
da quale autunno venga
la realtà fuggente che mi attornia
c’è un’aria risentita, scaldata appena dall’inganno…”[5]
[1] Henrikas Bartusevičius, Alexander Bor, Frederik Jørgensen, “The Psychological Burden of the COVID-19 Pandemic Is Associated With Antisystemic Attitudes and Political Violence”, Psychological Science, Sage Journals, 9 agosto, 2021. Cfr https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/09567976211031847.
[2] “Chi scioglierà l’enigma del ritorno”, poesia tratta dalla raccolta di Sergio Zavoli, Infinito istante. Poesia, Milano, Mondadori, 2012, 121 p. Cfr. https://www.laboratoripoesia.it/linfinito-istante-sergio-zavoli/.
[3] Sergio Zavoli, Il socialista di Dio, Milano Mondadori, 1981, 335 p.
[4] Michele Mezza, “Lo ‘spillover’ del giornalismo. Riprogrammare le intelligenze dell’informazione”, Democrazia futura, I (1), gennaio-marzo 2021, pp. 95-108. Cfr. https://www.key4biz.it/democrazia-futura-lo-spillover-del-giornalismo/350850/.
[5]“Un’invecchiata pace”, poesia tratta dalla raccolta di: Sergio Zavoli, L’infinito istante. Poesia, op. cit.alla nota 2.