Pubblichiamo di seguito il contributo di Roberto Amen, giornalista della RAI, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0”. E’ il primo contributo, dopo la presentazione di Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri contributi.
Il paradosso nel tempo della contemporaneità
Ai tanti paradossi del tempo e del suo scorrere, gli ultimi anni hanno aggiunto la regressione di una componente essenziale dell’esistenza: il futuro.
Il paradosso sta nel fatto che il tempo disponibile complessivo della vita di un essere umano, è aumentato di molto, addirittura raddoppiando nell’arco di poco più di un secolo, ma questo ha comportato, al contrario di ciò che si potrebbe immaginare, una contrazione dell’idea vitale di futuro.
Il Passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale a quella finanziaria ha trascinato con sé anche una diversa visione della vita e un diverso approccio al futuro. I tempi del mondo contadino erano lunghi sebbene la vita fosse breve, perché erano legati alla coltivazione e quindi alla stagionalità. Dalla semina al raccolto passavano mesi, il prodotto del proprio impegno era lontano, quasi mai immediato. Poi l’era industriale questi tempi li ha ridotti drasticamente e dalla catena di montaggio in una giornata potevano uscire centinaia di automobili, di lavatrici, di televisori.
La finanziarizzazione dell’economia i tempi li ha praticamente annullati e in un battito di ciglia si spostano capitali e titoli di credito con un riscontro immediato. Questo stato di cose ha portato ad attribuire priorità alle scelte contingenti, che gli anglosassoni chiamano short-termism, piuttosto che a investimenti a più lungo termine, sotto la pressione degli investitori che invece reclamano risultati immediati. Questo sistema insieme a mille altri fattori, ha determinato la filosofia dell’immediatezza del tutto subito, in cui passato e futuro sono diventati terreni non solo sconosciuti ma irritanti per una parte di opinione pubblica.
Il fascismo e l’uccisione del futuro individuale
Grandi temi del nostro tempo come la difesa dell’ambiente, l’istruzione, il debito pubblico, l’innovazione tecnologica, che richiedono subito investimenti e norme che potrebbero far pensare ad un sacrificio del presente a beneficio del futuro, non vengono considerati da quasi tutti i partiti politici. Partiti che invece propongono soluzioni parziali, misure tampone, mai strutturali per tirare avanti o per fronteggiare un’emergenza che diventa sempre più irreversibile e sempre meno risolvibile. Si vive in uno stato di perenne emergenza che non concede nulla ad una programmazione che veda un futuro un poco più lontano.
Diceva Alcide De Gasperi: “L’uomo politico pensa alle prossime elezioni, l’uomo di Stato alle prossime generazioni”.
Il futuro è stata una risorsa propulsiva per chi ci ha preceduto e ha rappresentato uno stimolo all’intraprendenza e alla creatività che ha generato nel dopoguerra una spinta alla crescita fino ad allora sconosciuta.
Il futuro ha rappresentato la via del riscatto da una guerra disastrosa e da un regime liberticida che aveva coltivato la rassegnazione alle diverse povertà, intellettuali, economiche, di risorse, persino la rassegnazione all’indigenza e alla fame. Con l’illusione di poterla compensare con un disegno espansivo del concetto di patria, che avrebbe dovuto generare un senso di grandezza e di onnipotenza da redistribuire come dote del sistema ai singoli e alle collettività.
Facendo anche intravvedere i benefici materiali che sarebbero derivati dalla conquista di territori e dall’assoggettamento di altre popolazioni che dovevano essere depredate e schiavizzate. Sovrapponendo il concetto di patria con quello di razza, in una devastante miscela che già allora era antistorica e disumana. Dal momento che la cultura prefascista si era già attestata su posizioni di giustizia sociale e di egualitarismo che il regime ha preteso di rinnegare con la leggerezza di una incultura fatta sistema.
Questo è stato il senso del futuro nel ventennio: l’aspirazione ad una improbabile grandezza collettiva che anestetizzasse le masse e perpetuasse il potere delle élite che non erano più tali per tradizione.
La programmazione non è un fossile
La politica propone un’apparente disponibilità ai progetti futuri ma di fatto coltiva un ingiustificato presentismo, o forse non è stata nemmeno sfiorata dall’idea che fosse una parte integrante della sua stessa ragione di esistere. E non ha saputo vederne la necessità.
Qualcuno ricorda come in tempi ormai lontani, ma non molto (parliamo degli anni ‘60), si parlasse di programmazione economica e di piani pluriennali per l’indirizzo economico produttivo. Semplicemente si cercava di capire quali fossero le prospettive migliori verso cui indirizzare il sistema produttivo.
Certo erano tempi in cui l’economia non era ancora finanziarizzata in maniera pesante con il conseguente trasferimento di poteri e capitali verso altre destinazioni meno tracciabili e soprattutto meno trasparenti. Furono scelte opinabili, soprattutto col senno di poi, scelte rigide che vincolarono il sistema portandosi dietro una serie di problemi ambientali di cui paghiamo ancora il conto. Dalla raffinazione del petrolio alla produzione di acciaio, alla chimica.
Tutti settori che non furono scelti a caso ma che furono spinti da ben precisi interessi di una imprenditoria familistica che aveva il potere di farsi finanziare dallo stato. Tuttavia, fu un sistema che sulla spinta di un grande fermento produttivo, riuscì a garantire una prosperità fino ad allora sconosciuta al paese. Di cui beneficiarono alcune generazioni che del boom economico furono artefici ma allo stesso tempo anche beneficiarie. E forse è stato proprio questo periodo di benessere relativo a creare le condizioni per un disconoscimento del futuro, per la disattenzione verso un tempo che deve ancora avverarsi ma che la cultura e l’intelligenza devono saper prevedere poiché nel presente ci sono i segni premonitori del futuro.
Il futuro manipolato
Chi si fosse illuso che dall’antipolitica, con annessa disintermediazione, potessero nascere sistemi di governo postdemocratici basati sulla inappellabilità dei giudizi plebiscitari della rete, riconosca un errore grossolano che ci sta facendo perdere tempo prezioso nell’affrontare le sfide che abbiamo davanti.
Basta la semplice considerazione che sono anni i bot influenzano le discussioni sui social network. Circa un quinto dei tweet relativi alle elezioni presidenziali del 2016 è stato pubblicato da bot. Lo stesso vale per circa un terzo di quelli relativi al voto sulla Brexit dello stesso anno.
Si è introdotto un sistema che genera artificialmente non solo notizie, ma è capace di penetrare nelle pieghe dei social network e orientare il sentiment dell’opinione pubblica. Un sistema sempre più raffinatamente umanizzato che in realtà disumanizza la nostra percezione delle cose senza che ce ne accorgiamo. Sapere che questi strumenti esistono e diventano sempre più raffinati e pervasivi dovrebbe metterci in guardia dall’affidare decisioni importanti alla rete, credendo così di aumentare il tasso adesione alla volontà popolare. Deve far riflettere che uno dei maggiori partiti abbia alle spalle una società di informatica a cui si ricorre anche per la selezione dei candidati.
Di sicuro sappiamo che questo modello di società disintermediata ha in sé dei pericoli enormi e non può essere presa a modello per una evoluzione del sistema di governo orientata ad una democrazia più moderna e più partecipativa.
Futuro pandemico
Abbiamo sperato che la pandemia potesse portarci un periodo di sosta creativa per resettarci e riprendere una dimensione del tempo più umana. Proprio durante il lockdown abbiamo riacquistato il senso della speranza nel futuro: che il tempo a venire ci avrebbe fatto riappropriare di quelle libertà e di quegli spazi che per due o tre mesi ci erano stati negati.
E la speranza che anche la buona politica potesse tornare progettare il futuro, sembra dissolta nella ripresa di una routine quotidiana fatta di emergenze e brevissime scadenze. Non resta che sperare nella gestione della mole di fondi che ci pioveranno addosso e che dovremmo destinare a progetti sostenibili per il futuro, nella speranza che l’impegno per quella prospettiva ci liberi almeno un po’ da questo presentismo asfissiante. Insomma, un’attenzione al futuro indotta dalle circostanze, quasi dichiarata per quella legge economico-finanziaria che aveva contribuito alla sua crisi.
Il futuro che ci precede
“Il futuro è già presente in noi prima che sia accaduto” scriveva Rainer Maria Rilke.
Vero ma il problema è interpretarlo, coglierne i segni premonitori e in definitiva strutturare il presente in previsione di dover affrontare il futuro.
In un editoriale sul Corriere della Sera, Maurizio Ferrera ha scritto come nel nostro Paese “il futuro è trattato come una specie di colonia lontana e disabitata in cui scaricare i danni prodotti dalle attuali generazioni” e predice: “A furia di considerarlo come ‘tempo di nessuno’, il futuro rischia di trasformarsi in un tempo ‘senza nessuno’”.
Istituzionalizzare il futuro
L’aver così trascurato l’attenzione per i tempi dei nostri figli, dei nostri nipoti e dei nostri pronipoti, oltre ad averci privato di una risorsa prospettica, ha confinato il futuro all’ambito tecnico-scientifico, l’unico in cui si pensa al “come sarà”, senza tuttavia applicarsi al “come saremo” e al come faremo fronte a necessità nuove, ad una mutazione antropologica che rischia di coglierci ancora impreparati, ancora inadeguati. E forse, come la storia ci insegna, è proprio questo uno dei limiti umani più evidenti e dannosi.
La previsione di una nuova rivoluzione tecnologica che metta insieme la fisica quantistica applicata ai computer all’intelligenza artificiale e alla robotica, promette di rivoltare ancora la condizione umana, che ha ancora difficoltà ad adattarsi al digitale.
Queste prospettive dovrebbero indurre la politica ad accelerare un ricambio, non tanto generazionale, quanto intellettuale e culturale capace di proiettare molto in avanti la propria consapevolezza e la propria progettualità, creando una connessione virtuosa tra le generazioni per rendere più rapido l’adattamento al futuro.
In altri paesi sono stati creati degli organi, parlamentari e non, che vegliassero sulla compatibilità legislativa con il futuro. È successo in Gran Bretagna, in Svezia e in Francia anche se non hanno avuto grandi risultati e in alcuni casi sono stati sciolti.
Perché non istituire invece una entità capace di tutelare il diritto al futuro, una specie di Corte Costituzionale che verifichi la rispondenza delle leggi agli effetti che potranno produrre nel tempo a venire? Certo sarebbe necessaria una riforma costituzionale, questa sì migliorativa, che scongiurasse l’ennesima commissione senza poteri di intervento.
Qualcosa di più di un ministero, che sia in grado di imporre correttivi alle leggi senza snaturarle, ma abbia sempre lo sguardo rivolto alle ricadute sul futuro.