Come chiarisce lo storico sardo “Il dubbio è se la neosegretaria sia in grado di impadronirsene e farlo funzionare questo partito come una struttura propria”. Con la creazione della segreteria – osserva – a fare parte della leadership sono state nominate 21 persone […] Nessun processo decisionale serio può attendersi da una leadership così ampia. Diventerebbe uno stagno in cui ogni soluzione si ingorga nei flussi di discussioni interminabili o a più facce, cioè ambigue. E indurrebbe la neo-segretaria a ripetere una vecchia liturgia: Appianare i radicalismi facendo valere, come avveniva nella Dc, mediazioni e compromessi, cioè una gestione interna e una politica di centro.”- Al contrario a suo parere Elly Schlein dovrebbe “Avere il coraggio di riagganciare un rapporto privilegiato con le socialdemocrazie” e, attraverso il proprio governo ombra, “favorire più concorrenza nel nostro sistema produttivo e stabilire un patto con Confindustria e sindacati alternativo alle politiche statolatriche del governo” di Giorgia Meloni.
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Carlo Calenda è un leader abbastanza popolare, ma senza personale politico e presenza organizzata nel territorio. A differenza di lui, sia Matteo Renzi sia, e soprattutto, Elly Schlein dispongono di un partito frantumato, ma con un’ossatura e un controllo diffuso nella geografia urbana del paese.
Il problema è che questo patrimonio l’ha appena avuto in dote dalla recente elezione come segretaria generale del Pd, ma in grandissima parte esso appartiene al suo partner Bonaccini. E’ risultato soccombente sul piano nazionale dei voti, però vittorioso dentro il corpo del partito.
Quest’ultimo ha subito il fascino della nuova sinistra incarnata da Elly Schlein che le sezioni, i circoli, i capibastone eccetera, in gran parte spesso non li conosce proprio.
Il dubbio è se la neosegretaria sia in grado di impadronirsene e farlo funzionare questo partito come una struttura propria.
Una segreteria di 21 persone e il rischio di tornare a vecchie liturgie di democristiana memoria fra mediazioni e compromessi
Con la creazione della segreteria a fare parte della leadership sono state nominate 21 persone.
Se questo numero non corrispondesse alla formazione di un governo-ombra da contrapporre al governo in carica di Giorgia Merloni, sarebbe inutilmente troppo grande.
Nessun processo decisionale serio può attendersi da una leadership così ampia. Diventerebbe uno stagno in cui ogni soluzione si ingorga nei flussi di discussioni interminabili o a più facce, cioè ambigue. E indurrebbe la neo-segretaria a ripetere una vecchia liturgia: Appianare i radicalismi facendo valere, come avveniva nella Dc, mediazioni e compromessi, cioè una gestione interna e una politica di centro.
Invece di dilatare enormemente la composizione della segreteria, Elly Schlein dovrebbe far proprio un altro metodo, cioè creare gruppi di lavoro (ristretti) fatto non di esponenti di minoranze e correnti, ma solo di persone competenti, non importa se iscritte al partito.
Cambiare il modo di fare politica dai sogni alla realtà rugosa delle proposte
Su ogni tema, una volta stabilita la scala delle priorità, deve essere elaborata una soluzione, e indicato il costo.
Finora il modo di fare politica della sinistra è stato di proclamare l’esistenza, più o meno prioritaria, di problemi, spesso senza valutare in che misura incidano sul bilancio dello Stato, i tempi di approvazione della legislazione e di applicazione operativa.
Elly Schlein deve rendersi conto che finora si è limitata ad agitare dei miti, ad accarezzare dei sogni.
Niente di strano. La storia del movimento operaio è stata quasi sempre la celebrazione di eventi inenarrabili come la liberazione dai bisogni, cioè la lotta alla povertà, l’evocazione dell’eguaglianza, la fine delle diversità, a cominciare dallo sfruttamento. Ebrezza di sogni, di bandiere, di miti. Tutto un armamentario ideologico col quale a poco a poco si è capito che non si mangiava, cioè non serviva ad aumentare stipendi e salari, avere la casa, o pagare gli affitti, essere curati, eccetera.
Lentamente si è fatta strada la necessità di calibrare l’estetica della giustizia sociale con la realtà rugosa delle proposte, e delle azioni, specifiche. I riformisti sono nati, e si sono imposti, ovunque, per aver imparato, e insegnato, a far di conto per creare imprese, cooperative, chiedere salari migliori, gestire appalti, calcolare mutui e pensioni, rendere il padronato responsabile delle condizioni di lavoro e della salute, eccetera.
Il riformismo difficile, rimasto a lungo minoritario nella storia della sinistra italiana
In Italia sono stati una minoranza, fin quando la sinistra (non solo i comunisti, a dire il vero) è stata ostaggio di due fattori che l’hanno ipnotizzata, e neutralizzata, per decenni.
Il primo: l’esistenza dell’Unione sovietica e della corona dei paesi del Patto di Varsavia. Nella spaccatura del mondo per tutto il periodo della guerra fredda (circa 50 anni), essi hanno rappresentato un blocco politico, economico e militare che ha fatto da argine e da alternativa al polo dal capitalismo-imperialismo (gli Stati Uniti e l’Europa occidentale).
Il secondo: l’ideologia leninista e stalinista. In base ad essa la conquista delle imprese, del sistema produttivo fino alle istituzioni e allo Stato avveniva non perché i rapporti di produzione avessero mostrato il collasso della capacità innovativa ed espansiva del modo di produzione capitalistico, ma per la convinzione che il primato nell’azione rivoluzionaria andasse cercata, e rinvenuta, da un’altra parte. In primo piano rientra, dunque, la soggettività, la consapevolezza che l’antagonismo operaio e contadino era cresciuto al punto tale da poter fare a meno della maturità del capitale.
E’ quanto Antonio Gramsci aveva rilevato, in data 24 novembre 1917, nel suo noto articolo su Il Grido del Popolo “La rivoluzione contro Il Capitale”. Direi che la tragedia del comunismo, non solo in Italia, comincia da questo tradimento del marxismo che prenderà il volto di un leninismo per procura (anche Gramsci dopo la carcerazione ne prenderà sempre più le distanze). Era nato lo Stato a carattere neo-bonapartista, cioè un regime non solo totalitario, ma implacabilmente repressivo, e votato allo sterminio del più grande numero di contadini che si sia mai registrata nella storia contemporanea.
Lo ricordo perché si tratta di un punto che gli eredi inconsolabili della vecchia sinistra comunista amano sempre dimenticarlo, ometterlo, replicando impavidamente una falsificazione della storia che fa paura e orrore.
Avere il coraggio di riagganciare un rapporto privilegiato con le socialdemocrazie
Avrà mai Elly Schlein il coraggio (che non ebbero Enrico Berlinguer e neanche, con l’eccezione di Achille Occhetto, i suoi i successori) di chiamare le cose con questo nome e, quindi, riagganciare un rapporto privilegiato con le grandi socialdemocrazie? E magari piantarla di arzigogolare sulle paranoie.
Mi riferisco a quelle da cui sono affetti molti vecchi comunisti bolognesi ed emiliani che per non prendere atto del fallimento storico del comunismo amavano (e ancor oggi amano in qualche talk-show sostanzialmente filo-putiniano) associarlo a quello dei socialisti, e si riempivano la bocca di non-sense come la cosiddetta “terza via”.
Di fronte ad un governo in cui a dominare è la sub-cultura fascista (da Ignazio La Russa a Francesco Lollobrigida e alla stessa premier) se la sente Elly Schlein di associare al doveroso proclama anti-fascista anche quello anti-comunista? o ritiene che il secondo (quello delle camicie rosse) sia un dispotismo meno esecrabile di quello delle camicie nere e brune?
Favorire più concorrenza nel nostro sistema produttivo e stabilire un patto con Confindustria e sindacati alternativo alle politiche statolatriche del governo
Nella narrazione degli obiettivi di Elly Schlein c’è un surplus di Stato e un deficit di libera concorrenza.
Il governo di Giorgia Meloni non ha nulla di liberale. E’ un fritto misto puramente e beceramente di destra, con sbavature (a dir poco) vetero-fasciste penosissime.
Quel che avversa di più è l’interesse per i consumatori, un regime liberistico serio. Se potesse scioglierebbe l’Autorità Antitrust.
Ma chi può dire che le sue proposte e in generale la sua attività per arginare lo strapotere di monopoli e delle multinazionali abbia mai attirato l’attenzione della sinistra? Dopo le lenzuolate che seguirono alle liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani c’è stato il vuoto, direi anzi un soprassalto della statolatria propria della storia del movimento operaio.
Sarebbe un bel passo in avanti se la nuova segretaria del Pd e il suo gruppo dirigente rilanciassero le battaglie per introdurre più competizione nel nostro sistema produttivo. La norma che lo prevedeva è del 2009 quando, secondo la Banca d’Italia, l’attuazione di tale misura avrebbe determinato un aumento del prodotto interno lordo dell’11 per cento, del l’occupazione e del consumo privato dell’8 per cento, degli investimenti del 18 per cento e dei salari reali addirittura del 12 per cento.
Perché non andare dalla Confindustria, dai singoli imprenditori, da Cgil, Cisl e Uil, e stabilire un patto che sia alternativo ai pasticci e ai contrasti di un governo senza rotta?