- Parte prima HERMES Storie di geopolitica. Mondo – Europa – Italia
- Parte seconda TECHNE’ Innovazione, media, comunicazione pubblica e intelligenza artificiale
- Parte terza CLIO Storia del presente, critica sociale e scienze umane
- Parte quarta LEXICON Rubriche, glossario, selezione artistica
In apertura, l’editoriale di Bruno Somalvico “Onu, Unione europea, Italia: il rischio di uscire male dai conflitti”[1] descrive le tappe, dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011 a quello perpetrato da Hamas contro Israele il 7 ottobre 2023, che avrebbero portato a quella che l’autore definisce “il consolidamento, se non dell’idea spengleriana di ‘tramonto’, perlomeno, di grave crisi dell’Occidente”. Il 2023 verrà ricordato come “Un anno nel quale non si sono fatti passi avanti né in materia di politica estera, né di difesa in seno all’Unione europea, incapace di affrontare la riforma dei suoi regolamenti e processi decisionali. […] Un anno in cui sono emerse sempre di più le incrinature in seno all’Occidente e negli equilibri politici geo planetari come ripetutamente emerso in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o in occasione delle riunioni del Consiglio Europeo, a fronte della crescita delle attività diplomatiche di una serie di autocrati, da Receip Tahir Erdogan ai due ex grandi rivali in seno all’Islam Mohammad Bin Salman e Ebrahim Raisi.” A parere del direttore editoriale di Democrazia futura “È ora che l’Occidente ritrovi una propria cabina di regia per pesare sul futuro degli equilibri nel mondo. Evitando il ripetersi nella storia di grandi tragedie che rischiano in caso contrario di trasformarsi in farse, se non addirittura in beffe”.
Nell’editoriale scritto per questo undicesimo fascicolo di Democrazia Futura, Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica presso l’Università di Bologna e socio dell’Accademia dei Lincei, commenta il disegno di legge costituzionale presentato dal governo evidenziandone i due punti cruciali. Secondo il noto scienziato politico «l’elezione popolare diretta del Primo ministro» presenta numerosi rischi di incostituzionalità e sarebbe – riprendendo il titolo stesso dell’articolo – «Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti che indebolisce i contrappesi istituzionali[2], da contrastare tramite referendum oppositivo». Secondo il professor Pasquino «da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione: primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti / votanti; secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi». L’accademico rileva da un lato l’assenza di un ballottaggio, giustificato per impedire ammucchiate nel fronte avverso di centrosinistra, dall’altro «l’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni». Ne uscirebbe un Presidente della Repubblica privo non solo del potere di nomina del Premier ma anche di quello di scioglimento del Parlamento «ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi».
Parte prima HERMES Storie di geopolitica. Mondo – Europa – Italia
Mondo
Una riflessione di Stefano Rolando, condirettore di Democrazia Futura e docente di Comunicazione pubblica e politica alla Università IULM (Milano), apre la sezione Mondo, con un articolo dal titolo “Israele-Palestina, la storia si ripete. Ma non è maestra di vita”[3]. L’autore, «nato nel 1948, come lo Stato di Israele», ricorda la guerra dei sei giorni, nel 1967, e i dibattiti che emersero in quel contesto, per introdurre l’idea di una storia recente di quella terra martoriata riassunta da scontri tra estremismi, con molte varianti a seconda delle crisi. E la crisi di questo autunno 2023 viene analizzata secondo schemi interpretativi che l’autore definisce «i tre oggetti di indagine: l’agenda di guerra; l’agenda diplomatica e la percezione dell’opinione pubblica», quest’ultima ben esaminata sulla base di quattro sondaggi su base nazionale. Ma al di là delle analisi e dei ricordi, rimangono in sospeso delle domande, sotto forma di conclusioni, e «le risposte – conclude Rolando – non dipendono solo dalla violenza scaturita dagli episodi del 7 ottobre ma dal lungo, lunghissimo processo che trasmette ormai a quasi quattro generazioni i suoi irrisolti».
L’attacco di Hamas contro Israele e le sue conseguenze nello scacchiere medio-orientale
Stefano Silvestri, già Presidente dell’Istituto per gli Affari Internazionali e Sottosegretario di Stato alla Difesa, in una reazione a caldo – scritta per Affari.internazionali.it a meno di 48 ore dall’inizio dell’assalto – ripresa per Democrazia Futura, dal titolo “Hamas sogna un asse anti israeliano guidato dall’Iran”[4], considera quanto avviato contro Israele all’alba di sabato 9 ottobre, «un gigantesco attacco terroristico, non una guerra», sostenendo che al momento «una cosa è chiara: Hamas ha voluto alzare in modo drammatico il livello dello scontro, in apparente netto contrasto con i molteplici tentativi di dialogo e di compromesso in corso in Medio Oriente. Non è possibile, in questa fase iniziale della crisi, affermare con certezza se questa sia una iniziativa autonoma o se si inserisca in un più ampio disegno di destabilizzazione, sponsorizzato da potenze esterne, quali ad esempio l’Iran. Le reazioni diplomatiche e politiche non sono univoche. Gli eventuali sponsor dell’attentato terroristico preferiscono restare nell’ombra». «Certamente – aggiunge tuttavia lo studioso – possiamo ritenere che questo attacco sia rivolto anche contro il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo, in particolare contro la possibilità che tale processo si estenda all’Arabia Saudita».
Il primo scritto di Giampiero Gramaglia per questo numero analizza i primi tre giorni di quella che l’autore, co-fondatore di Democrazia Futura ed ex direttore dell’Ansa, definisce nel titolo “La nuova guerra fra Israele e Hamas in un mondo senza tregua”[5], scoppiata «mezzo secolo dopo la guerra dello Yom Kippur». Proseguendo con la considerazione che «centinaia di morti – quasi 1500 nelle prime 72 ore – , migliaia di feriti, almeno 130 di ostaggi ci ricordano brutalmente che il conflitto tra israeliani e palestinesi in Medio Oriente, ora divenuto la guerra tra Israele e Hamas, non ha mai trovato pace e ha sempre continuato a covare sotto la cenere dell’indifferenza internazionale, nel mancato rispetto d’accordi e d’impegni, fino a questo sussulto di sangue e d’orrore, proprio quando la situazione appariva più tranquilla».
Una reazione a caldo in seguito al massacro del 7 ottobre arriva da parte di Salvatore Sechi, storico e docente all’Università di Ferrara, in un articolo che, fin dall’occhiello, intende dimostrare come “La grande sfida dopo quasi otto decenni di guerre, Risoluzioni Onu e assalti terroristici” che si pone oggi è quella al contempo – come recita il titolo – di “Estinguere i tagliagole di Hamas e dare uno Stato ai palestinesi”[6]. «I tagliagole di Hamas – scrive lo storico sardo – debbono ricevere non una sconfitta, che è un obbligo elementare dei ministri della difesa di Tel Aviv, ma essere oggetto di un plateale rito funebre, celebrato in pubblico. […] Non i palestinesi, ma questo gruppo di gendarmi del terrorismo palestinese che negli ebrei combattono gli stessi esseri umani, va spazzato via. Occorre estirpare quella parte che in ognuno di noi non risponde né al cuore né alla ragione. Contemporaneamente dobbiamo chiedere alle leadership di Israele, a quelle degli Stati Uniti, dell’Unione europea, di dare una terra, uno Stato e una Costituzione alle masse palestinesi». Per troppo tempo costretti a essere un popolo allo sbando in quella che l’autore definisce «infame» striscia di Gaza.
Giampiero Gramaglia torna con un articolo diviso in sette parti dal titolo “Settimane di alta tensione non solo sopra il cielo di Gaza e in Israele” [7]. Emergono nei titoli delle singole parti i segni del continuo aggravarsi della crisi che investe l’Europa e il Mediterraneo a partire dal 7 ottobre 2023: 1. “Le vittime salgono, in Israele si insedia un governo di unità nazionale”. 2. “Il bilancio s’aggrava, striscia di accordi mai rispettati”. 3. “Gaza attende l’attacco, è un disastro umanitario”[8]. 4. “La strage all’ospedale di Gaza offusca gli sforzi per mitigare la crisi”. 5. “I Vertici non sbloccano il conflitto, un convoglio di aiuti transita nella striscia”[9]. 6. “La strage di bambini: 20 giorni peggio di 20 mesi in Ucraina”[10]. 7. “Più vittime, rischio contagio”.
Infine, in merito alla crisi in Terra Santa, Riccardo Cristiano, giornalista e collaboratore di Reset, in “Iran, la scelta imperiale”[11] analizza – come da occhiello – il perché del “viaggio del ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian da Beirut a Damasco sino a Baghdad”. Sostiene Cristiano: «Siamo alla fine di una farsa politica, l’Iran presenta il Libano, e nei prossimi giorni farà lo stesso con Siria e Iraq, per quello che le ritiene, province del suo risorto impero. È la vecchia, profondissima ruggine tra persiani e arabi che riemerge e che mostra il Levante Arabo allargato, da Beirut a Baghdad, ridotto in macerie al termine della guerra di conquista da parte delle milizie khomeiniste disseminate in quei territori dai pasdaran, la forza d’élite del regime di Teheran. Questa ruggine ci riporta ai tempi stessi dell’islamizzazione della Persia da parte degli arabi», osserva Cristiano prima di concludere: «Il viaggio di Hossein Amir-Abdollahian è cominciato con una franchezza imperiale incredibile; in Occidente vi possono aver scorto una disponibilità (condizionata) a non estendere il conflitto, ed è bene che sia, se sarà, così, perché Hezbollah non ha solo la sua nota forza miliziana con cui attaccare Israele da nord, ma anche le moltissime milizie sorelle disseminate in Iraq, Siria, Yemen e altre ancora con cui colpire le stesse basi americane o altri obiettivi ritenuti “sensibili”».
Guerra in Ucraina e fermenti negli equilibri geopolitici planetari.
Lo scenario ucraino è altrettanto cruciale e ne dà conto Giampiero Gramaglia nel lungo articolo diviso in sette parti dal titolo “Guerra in Ucraina anno secondo. Cronaca di un’escalation e degli incontri per venirne a capo”. Gli otto sottotitoli, come parte di un racconto che mette in evidenza la stanchezza di un conflitto le cui sorti sembra che stiano lentamente cambiando, recitano: 1. “Più Brics, meno Prigožin”[12]. 2. “Il fronte è fermo, ma molto accade intorno”[13]. 3. “Russia: Putin, la resa dei conti dentro e fuori, l’Ucraina, gli Usa, il Mondo”[14]. 4. “G20: il vertice di New Delhi conferma la crisi della governance mondiale”[15]. 5. “Una testimonianza d’impotenza e di divisione”. 6. “Mai così battute le vie della diplomazia”[16]. 7. “Alla sua 78esima Assemblea Generale l’ONU sciorina la sua impotenza”[17]. 8. “Brivido di freddo dell’Ucraina con l’Occidente. Tra scricchiolii politici e sussulti diplomatici”[18].
Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi presso l’Università di Napoli, in “Senza conflitti non si selezionano le leadership”[19] affronta la delicata questione, espressa fin dall’occhiello, del “rattrappirsi dello spazio pubblico e lo scollamento fra comunità e proposta politica”, evidente, per quanto riguarda i fatti di casa nostra, fin dalla crisi di leadership nel PD. Secondo Mezza «il tema che dovrebbe oggi impegnarci […] riguarda proprio la crisi delle leadership: in sostanza l’evaporazione di ogni macchina politica, partito o movimento, che possa in qualche modo contrapporsi all’autonomia dell’economia, o meglio ancora alla dittatura del business». Mancano le leadership negli Stati Uniti d’America così come in Europa, mentre «il popolo – fondamento unitario […] – viene sostituito da uno sciame» in virtù delle trasformazioni avvenute in campo economico e tecnologico. Se, ad esempio, «l’emancipazione di milioni di persone, sottratti alla disciplina del fordismo, inevitabilmente comporta una rinegoziazione del patto costituzionale», evidente nel sentimento di rabbia e rivalsa che alberga nelle opinioni pubbliche occidentali, allo stesso tempo, conclude Mezza, «il grande assente in questo scenario è il conflitto come straordinario fenomeno di integrazione e combinazione antropologica», così che «ora scopriamo come una società che non produce conflitto […] è un’ameba, una società che non genera pensiero» e, di concerto, nemmeno leadership politiche in grado di liberare «un sistema appaltato alla proprietà tecnologica» al fine di «ritrovare una visione alternativa non solo e non tanto a un governo ma a un’idea di società».
Giampiero Gramaglia sposta l’obiettivo sugli Stati Uniti d’America in “Usa 2024: cronaca della vigilia di una campagna dall’esito scontato almeno apparentemente. Nel giro di 24 ore fra il 24 e il 25 agosto 2023 è iniziata la campagna per l’investitura alla Casa Bianca”. Dai quattro sottotitoli degli articoli emergono le inquietudini di una nazione le divisioni che spaccano non solo la politica, ma anche la società americana: 1. “Un dibattito senza botto, criticato o arrestato Trump vince”[20]. 2. “Putin vota Trump, Biden tra shutdown e impeachment”[21]. 3. “Il Congresso sventa lo shutdown, ma blocca gli aiuti all’Ucraina”[22]. 4. “Alla Camera i ‘trumpiani’ sfiduciano lo speaker Kevin McCarthy. Congresso nel caos, politica in tribunale”[23].
Occidenti in crisi o in riposizionamento geo strategico nell’ordine multipolare?
Il dibattito sull’Occidente ispira a Giulio Ferlazzo Ciano, l’articolo dal titolo “Occidente e Occidenti. Glossario di geopolitica”[24], una riflessione su come definire oggi l’Occidente, chi ne fa parte, chi ne rimane escluso o dalla collocazione incerta, chi infine si trova a metà del guado. Ci viene in soccorso l’opposizione Occidente/progresso versus Oriente oscurantismo? Oppure la definizione di Occidenti, al plurale? Secondo l’autore potrebbe proporsi una «definizione non ambigua […] ancorché non sintetica: ‘gli Stati Uniti d’America e i loro più stretti alleati fra le nazioni rette da solidi regimi liberal-democratici e con adeguati livelli di sviluppo economico’». Dei privilegiati, per certi aspetti, ma che i nemici di quello stesso modello di civiltà e di sviluppo spingono a serrare i ranghi e a prepararsi alla difesa, senza troppo soffermarsi a dibattere su cosa sia, sia o non sia più Occidente.
Stefano Rolando prosegue la riflessione nell’articolo “Occidente e guerre, tra disuguaglianze e migrazioni[25] nel quale, dopo aver distinto «migrazioni e disuguaglianze economiche e disuguaglianze connesse a godimento di diritti basilari», Rolando esamina «gli effetti dirompenti per l’Occidente della mobilità alimentata dalla disperazione». «Il punto è che nel terzo millennio – scrive Rolando – lo squilibrio è digitalmente sotto gli occhi del pianeta. Quasi tutto il pianeta ha un telefonino a disposizione. E la potenzialità di generare intolleranza è diventata mille volte più forte rispetto al buio della non conoscenza che c’era nel recente passato. Una cosa sola non può fare l’Occidente: oscurare i fatti, negarne la prepotente evidenza, non discuterli severamente in ordine a cause e prospettive, speculare sugli allarmi e sulle paure per ricavarne vantaggi politici o affari immediati, creare condizioni interpretative divisive per mantenere un’illusione democratica e lasciare che la trasformazione di questi bubboni finisca – stupida ipotesi senza basi e senza riscontri – per avere tutte le sue ricadute in testa ai popoli e ai territori diciamo così diseredati. La mobilità – tecnologica, digitale, fisica – alimentata dalla disperazione ha oggi una dirompenza mai avuta nella storia del mondo. E la sommatoria dalla curva demografica, della curva degli autoritarismi che governano con violenza e crudeltà e della curva dell’evoluzione delle mobilità (quelle pacifiche e quelle guerresche o terroristiche) costituisce l’equazione del terzo millennio rispetto a cui chiamarsi fuori vuol dire perdere in partenza non una battaglia ma la guerra finale». Partendo da questi presupposti Rolando individua infine «due processi da attivare: trasferire risorse per ridurre gli squilibri e stabilizzare l’immigrazione».
Conclude la riflessione Salvatore Sechi ne “Il catafalco del diritto internazionale e la morte dell’Occidente”[26], che prende spunto dagli orrori dello scorso 7 ottobre per affermare che gli eventi successivi offrono «la misura di quel che significa il silenzio su ogni violazione del diritto internazionale. Il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele sarà affidato a quello che l’esercito israeliano si appresta a compiere addirittura nel sottosuolo di Gaza, vale a dire al massacro di migliaia di bambini, vecchi, malati, donne. Detto diversamente: un’impressionante strage di innocenti. A cominciare dagli ostaggi. Se sarà così, come temo, – conclude Sechi – sarà la fine dell’Occidente». «Come può essere diversamente – aggiunge lo storico sardo – se ammette come legittimi quel che macroscopicamente è illegittimo, cioè il blocco dell’alimentazione, la sospensione dell’elettricità, la chiusura forzosa degli ospedali con migliaia di malati e di vittime, l’uso delle bombe al fosforo, le punizioni collettive, i bombardamenti indistinti. Cioè lo sterminio di un popolo (quello palestinese). Poiché non si identifica con le brigate squadriste di Hamas, esso deve essere tutelato come quello israeliano. Perché in un futuro meno remoto si possano avere la convivenza in due Stati diversi».
Europa
La sezione si apre con un intervento di Giampiero Gramaglia dal titolo “L’Europa è gregaria e impotente”[27], nel quale l’ex direttore dell’Ansa osserva con il solito distacco, ma questa volta anche con una punta di rammarico, pur separando sempre i fatti dalle opinioni, le ragioni per le quali «nella guerra fra Israele e Hamas l’Europa non tocca palla e nemmeno ci prova». Nell’attuale crisi mediorientale rimane purtroppo intatto l’unica certezza incrollabile, ovvero «che, in politica estera, i 27 devono decidere all’unanimità e non possono decidere a maggioranza. E, quindi, basta che un polacco o un ungherese alzi la mano per obiettare e tutto si arena».
L’Europa di fronte a due guerre e alle prese con l’allargamento. Perché si fa sempre più grave la disunione in politica estera
Il presidente del Movimento Europeo Italia, Pier Virgilio Dastoli, in “Difesa europea e cantiere della pace”[28] è significativamente sottotitolato “perché abbiamo bisogno di una Helsinki 2 e di una nuova Carta di Parigi”. Secondo l’autore l’autonomia strategica dell’Unione europea «deve seguire la via di un multilateralismo globale che metta al centro le sfide del mondo di oggi senza perseguire il tragico obiettivo di sostituire ad una somma di nazionalismi statali l’isolazionismo continentale del nazionalismo europeo». Di qui la proposta formulata nell’occhiello. Infine in un post scriptum Dastoli denuncia il triplo ‘fiasco’ dell’incontro di Granada, innanzitutto in merito alla terza riunione della Comunità Politica Europea, immaginata inizialmente da Emmanuel Macron come succedaneo dell’Unione allargata. Nulla di fatto anche relativamente al tema dell’allargamento, mentre l’ultimo ‘fiasco’ sarebbe quello «che ha fatto tornare a Roma – come si dice – Giorgia Meloni con le pive nel sacco poiché si è dovuta accontentare di una intesa con l’irrilevante primo ministro britannico Rishi Sunak, è quello delle politiche migratorie in cui gli ipotetici accordi raggiunti fra gli ambasciatori sono stati bloccati non solo dai sovranisti di Visegrad ma anche da Olaf Scholz […] e anche da Emmanuel Macron che non è andato al là dei sorrisi diplomatici di circostanza».
Giampiero Gramaglia esamina i giochi di potere prima delle elezioni europee del giugno 2024 in “Unione Europea: verso un rimescolamento nel 2024. Nate in neretto sull’agenda d’autunno”[29], fornendo un quadro delle scadenze elettorali in Polonia, nei Paesi Bassi e forse anche in Spagna, prima di affrontare i «giochi di potere a Bruxelles» quando scadranno i mandati degli attuali commissari e del presidente del Consiglio dell’Unione europea. «Vietato fare i conti senza l’oste, cioè senza i cittadini alle urne», ammonisce Gramaglia, ma è chiaro che il voto del giugno 2024 sarà decisivo nel confermare o meno l’attuale maggioranza fra popolari, socialisti, liberali e verdi che aveva votato per Ursula von der Leyen e Charles Michel. Ma mancano ancora 10 mesi e – scrive come auspicio in conclusione Gramaglia – «la competizione politica evidente tra diverse visioni dell’integrazione europea sarà un incentivo perché i cittadini partecipino al voto con maggiore entusiasmo delle ultime volte».
Sempre Giampiero Gramaglia torna sul vertice informale di Granada di inizio ottobre con un breve articolo dall’eloquente titolo “Europa, allargamento, migranti, futuro dell’Unione: parole parole parole”[30] nel quale, senza alcuna remora, definisce la macroniana Comunità Politica Europea «una sigla senza storia, senza potere e senza coesione, [che] si chiude con una serie di nulla di fatto, dopo una fitta serie di riunioni plenarie e d’incontri bilaterali e settoriali […]. Di fermo, c’è la conferma del sostegno all’Ucraina: importante, dopo il voto che, in Slovacchia osserva come ha premiato i filo-russi. Per il veto di Polonia e Ungheria, la Dichiarazione finale non è stata approvata nella sua integralità ed è stata sostituita, per quanto riguarda l’immigrazione, da una dichiarazione della presidenza», così che è lecito domandarsi «se la Comunità politica europea, nata un anno e mezzo fa, non sia già cerebralmente morta».
All’estremità orientale d’Europa – sempre che si voglia considerarla tale, almeno sotto l’aspetto storico e culturale – Giulio Ferlazzo Ciano pone sotto la lente d’ingrandimento l’annosa questione del Nagorno Karabakh, analizzando le origini di una crisi che non sembra ancora finita e che pare produrre una nuova stagione di pulizia etnica. In “Armenia, nazione sofferente tra incudine e martello”[31] Ferlazzo Ciano vuole riportare l’attenzione su un conflitto, quello azero-armeno, di cui l’Europa sembra purtroppo disinteressarsi. Nel lungo articolo, partendo dalla situazione attuale ovvero da «La tenaglia russo-turca sull’Armenia» e da «Il problema giuridico del Nagorno-Karabakh (Artsakh)», ripercorre nel tempo – come si accennava – le cause alle origini della contesa, inquadrando Nagorno-Karabakh «nella cornice storica dell’Armenia moderna», arrivando infine ad affrontare, ormai ai giorni nostri, la disfatta armena nella seconda guerra del Nagorno-Karabakh e infine l’appena terminata terza guerra del Nagorno-Karabakh (19-20 settembre 2023). A tal proposito, sostiene l’autore, «il conflitto, sebbene sia durato appena due giorni, ha provocato e sta tuttora provocando una fuga di massa di armeni dalle rimanenti regioni dell’Artsakh, compresa la capitale Stepanakert, occupata dalle forze armate azere […] La fuga in sé non sembra essere provocata da violenze diffuse o pogrom, ma – chiarisce Ferlazzo Ciano – è semmai il risultato congiunto del crollo repentino dell’ultimo bagliore di autorità armena nella regione, assieme al timore che il Nagorno-Karabakh, una volta che sia sottoposto a controllo diretto delle autorità azere, possa essere l’obiettivo di una campagna di pulizia etnica anti-armena». I precedenti, come si potrà leggere nell’articolo, non autorizzano ad essere ottimisti.
Per parte sua Giampiero Gramaglia affronta il nodo politico polacco in un articolo “La partita europea tra Meloni e Salvini si gioca (pure) in Polonia”[32] suddiviso in due parti: 1. “Il risultato delle elezioni a Varsavia pesa sulle relazioni complesse fra l’Italia e l’Unione”, 2. “In Polonia gli alleati di Giorgia Meloni perdono il governo: vince l’opposizione europeista”. Nel primo osserva come “L’Italia, in asfissia di risorse, si complica la vita nel contesto europeo, alimentando di continuo spunti polemici, invece di cercare il dialogo e la collaborazione: Meloni e Salvini e i loro ministri attaccano briga alternativamente con Parigi e Berlino; e fanno comunella con Varsavia e Budapest, salvo poi essere ripagati dai loro interlocutori polacchi e ungheresi con la moneta di sonanti veti sulla politica europea dell’immigrazione”. Nel secondo esaminando i riflessi del risultato elettorale nello scenario europeo e italiano a meno di nove mesi dal rinnovo del Parlamento europeo nota: “Dopo la Spagna, anche la Polonia sceglie l’Europa e – secondo l’autore – relega all’opposizione i sovranisti che la governavano da otto anni dopo un voto con una partecipazione in forte crescita al 74,38 per cento” non senza aggiungere: “c’è chi sottolinea la seconda sconfitta europea consecutiva per Giorgia Meloni: dopo la batosta di Vox in Spagna a luglio 2023, ecco la perdita del governo del Pis in Polonia, partiti alleati di Fratelli d’Italia nel gruppo dei conservatori al Parlamento europeo”.
Un altro voto è al centro dell’attenzione di Alberto Leggeri, già professore di geografia a Lugano, osservatore e analista di geopolitica cinese, in “Risultati e valutazioni delle elezioni nazionali in Svizzera”[33]. L’autore, trattando le elezioni del 22 ottobre 2023 per il rinnovo dei due rami del parlamento elvetico, chiarisce le particolarità del sistema di governo svizzeri con «l’elezione annuale dei sette ministri del Consiglio federale da parte delle due camere riunite nell’Assemblea federale», prima di esaminare il voto che vede premiata l’estrema destra sovranista a scapito soprattutto delle formazioni ambientaliste, facendo notare oltre tutto come non manchi pur nella democraticissima svizzera una certa disaffezione al voto.
Giulio Ferlazzo Ciano in “I Balcani alla prova del secolo ventunesimo”[34] introduce il fattore Balcani nell’attuale panorama politico europeo. Nella penisola ‘non davvero penisola’ con la maggiore concentrazione in Europa di etnie, confessioni religiose e conflitti sedati ma mai davvero conclusi, il ventunesimo secolo ha portato fino ad oggi un’aria di maggiore tranquillità, oltre alla progressiva inclusione dell’intero spazio balcanico nell’Europa unita. Eppur si muove qualcosa sotto la superficie: dagli irrequieti Stati del Balcani occidentali, ancora esclusi dall’Unione europea e corteggiati da più attori internazionali, ai conflitti a bassa intensità pronti a riesplodere, come in Kosovo. Si è di fronte alla possibilità di una prossima quarta stagione di riunificazione della penisola, dopo le precedenti tre durature unificazioni sotto le insegne romane, bizantine e ottomane, oppure la balcanizzazione – intesa come estrema frammentazione – non ha ancora finito il suo corso?
Italia
Morte di un monarca repubblicano
Lo sguardo sulla nostra penisola prende le mosse dal ricordo del “monarca repubblicano” Giorgio Napolitano, a partire dall’articolo di Guido Barlozzetti, conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore, intitolato “Il funerale di Re Giorgio”[35], nel quale è descritto un rito (non) ecumenico con una scaletta meditata. Perché in quella cerimonia che è stata capace di «tenere insieme anime molto diverse fra di loro, sia negli orientamenti politici, sia proprio su quel discrimine tra credenti e non credenti», pur si è percepito «un distinguo sottile» tra gli esponenti della maggioranza: «lo testimoniano – secondo l’osservazione di Barlozzetti – la rigidità delle espressioni e l’impressione strisciante di un senso di costrizione a cui non ci si poteva sottrarre». Ad ogni buon conto non si può negare che le esequie di Napolitano «hanno raccontato il quasi secolo di un uomo forse con l’ambizione di restituire la ricchezza di una vita, che però diventava anche la difficoltà di toccare il punctum trasversale a tutte le possibili testimonianze. Quello che il Re Giorgio si è portato irreversibilmente con sé – conclude Barlozzetti – lasciandoci questo Funerale sul bordo di una Repubblica di cui lui ha vissuto alcune convulsioni e che oggi ha anche la tentazione di relegare nel passato lui e la sua memoria costituzional-repubblicana, più vicina ai Padri costituenti che a coloro che siedono sui banchi del governo e allo spirito un poco esausto e fatalista del Paese che democraticamente li ha votati».
“Re Giorgio”[36], senza altro aggiungere alla “eccezionalità di un evento funebre dell’ultimo esponente di una classe dirigente colta e preparata”, è il titolo dell’articolo di Gianluca Veronesi, ex dirigente Rai, già direttore della Comunicazione e delle Relazioni esterne. Ed è propriamente un funerale-rimpianto quello tinteggiato da Veronesi, nel quale «a parte i presidenti che portano il saluto e l’omaggio delle Camere, gli altri oratori mettono insieme gli spicchi della personalità del defunto che sono però gli spicchi di un secolo di storia politica italiana».
La storia della presidenza Napolitano, durata nove anni, è riassunta da Silvana Palumbieri, autrice e regista a Rai Teche e realizzatrice di documentari, in “Giorgio Napolitano, due volte presidente”[37]. Nel 2005 Giorgio Napolitano, a ottant’anni, scrive la propria autobiografia politica per Laterza, Dal PCI al socialismo europeo. Un anno dopo l’elezione al Colle. L’autrice ripercorre questa seconda vita istituzionale dell’ex leader della corrente migliorista, soprannominato “ministro degli esteri del PCI”. Il primo mandato vede gli anni di crisi della cosiddetta Seconda Repubblica, dal secondo governo Prodi dell’Unione del centrosinistra alla terza vittoria di Silvio Berlusconi e del centrodestra nel 2008, sino al “giro di boa” con «l’uscita di scena del Cavaliere nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia». Crisi politica e crisi economica si intrecciano con la nascita di un «governo del Presidente affidato al tecnico Mario Monti» cui seguirà per la prima volta nell’Italia repubblicana la rielezione di un presidente uscente dopo il risultato incerto delle elezioni politiche del 2013, che spianerà le porte al governo di larghe intese affidato a Enrico Letta ben presto destabilizzato dalla spaccatura nel centrodestra e dall’ascesa di Matteo Renzi nel Partito Democratico all’inizio del 2014. Quasi nove anni al Quirinale.
Michele Mezza offre una lettura più critica dello scomparso presidente della Repubblica in “Un comunista liberale: modernizzazione senza conflitto e senza popolo”[38], articolo che termina con la significativa domanda «Possiamo dire che [quello di Giorgio Napolitano] si tratti di un buon bilancio politico?». Al lettore l’ardua sentenza, nel mentre l’autore ritiene doveroso sottolineare come la storia politica di Napolitano appaia «con maggiore criticità, soprattutto sul versante della decifrazione dei processi sociali e dell’adeguamento della strategia politica: temi su cui rivendica un primato», ma che si risolve «in un semplice processo di omologazione e neutralizzazione di una carica innovativa, che pure permise negli anni Settanta di attrarre giovani e ceti medi» e «con la gestione di Napolitano […] il partito non riuscì a vedere come il progressivo sfaldamento dell’ordine fordista liberasse nuove energie e ambizioni, spingendo sul proscenio ceti subalterni e radicalizzando persino aree elitarie». Al contrario «tutto questo ribollire viene invece ingabbiato in un tatticismo politicista […] di quel continuo lavorio nel partito per concentrare tutta l’azione […] all’interno di una visione caratterizzata dalla cosiddetta autonomia del politico, da quella strategia tutta incentrata sull’accesso al governo come unica possibilità per legittimarsi ed essere mondati dal peccato originale della matrice comunista». Conclude Mezza che «l’astuzia della storia ha voluto che fossero proprio i teorici dell’esclusività della lotta di fabbrica ad accompagnare Napolitano in questo declino ideologico, lasciando alla sinistra come unico spartito da suonare, il ricorrente allarme per il pericolo di un nemico autoritario alle porte. Quando il Paese stesso è diventato come il nemico alle porte, per quella rivoluzione passiva che un mercato senza attrito sociale ha realizzato indisturbato, Napolitano è diventato presidente».
Lo storico Salvatore Sechi in “Da Gramsci a Napolitano: un comunista può anche essere un riformista?”[39] ha uno sguardo critico sulla figura del defunto presidente, rispondendo a Franco Lo Piparo che ha definito su Il Foglio del 28 settembre 2023 il presidente emerito un socialista liberale. Sechi chiarisce, come recita l’occhiello, “perché né il pensatore sardo né l’uomo delle istituzioni non possono essere considerati socialisti liberali non avendo mai voltato le spalle ai miti e alle illusioni del comunismo realizzato”. Secondo Sechi, malgrado il pentimento sulla repressione ungherese, nei decenni successivi «Napolitano non volle, e non seppe, fare una battaglia politica dentro il Pci contro la proposta di Berlinguer di opporre all’esperienza del comunismo e a quella della socialdemocrazia, messe disinvoltamente sullo stesso piano, una “terza via”».
Un anno di governo Meloni e di campagne identitarie. La premier tra pubblico e privato
Un’altra pagina di storia, e di una storia che non passa mai, indirettamente connessa con l’attuale stagione politica italiana, è oggetto della riflessione di Stefano Rolando in “8 settembre, 80 anni, interrogativi”[40], il cui occhiello recita significativamente “Perché la discontinuità interpretativa del passato prossimo della nostra storia si è fatta governo del Paese”. Le narrazioni di quattro punti controversi che hanno nutrito la formazione delle generazioni nate nel dopoguerra (l’8 settembre 1943 e il crollo dello Stato, l’8 settembre e le istituzioni, l’8 settembre e l’armistizio, l’8 settembre e la guerra) – scrive Rolando – «ci hanno avvilito, ferito, turbato. E tuttavia hanno contribuito ad una ricostruzione identitaria che era stata polverizzata. E su cui l’Italia ha fatto un grande cammino da quel 1943. Un cammino che contiene l’affermazione del pluralismo democratico, del rispetto dell’avversario politico, del diritto di parola, dell’importanza della ricerca della verità nel dibattito pubblico […]. Poi è arrivata la fase transitoria della seconda Repubblica – ricorda l’esperto di comunicazione pubblica – il populismo ha stemperato quasi tutto in una miscela di possibilismi». Per di più «lo scorso anno Fratelli d’Italia, il partito alla guida del governo, ha vinto tenendo nel simbolo la fiamma tricolore della continuità post-fascista, promessa di riscossa e rivincita», tanto da apparire a Rolando che «la discontinuità interpretativa del passato prossimo della nostra storia si [sia] fatta così governo del Paese». Concludendo infine la sua riflessione con l’ipotesi che «forse anche qui si va aprendo una divaricazione tra società e vuoto della pedagogia sociale e civile che ogni democrazia deve coltivare criticamente ma senza dare per scontato niente. Tutti si devono porre l’interrogativo riguardo a questa insufficienza. Giorgia Meloni non ha tutte le colpe del cambiamento. Sia chiaro. Ma – conclude Rolando – per come è stata amministrata la qualità della democrazia politica italiana è lei che dimostra di essere tra chi se ne avvantaggia di più».
Prosegue una analoga riflessione sui temi politici identitari Gianluca Veronesi in “Metterci la faccia”[41], sottotitolato “Sui comportamenti e le campagne identitarie di Giorgia Meloni e della sua maggioranza”. L’autore, dopo aver ironizzato sulla sfrenata corsa al neologismo utile a mettersi in mostra, osserva come «alla nuova destra e soprattutto alla sua leader piace molto il ‘metterci la faccia’», evidenziando a tal proposito come Giorgia Meloni scelga «le battaglie che meritano l’esposizione di quel suo viso che gioca tra l’ironico e l’ammiccante», soffermandosi poi sul decreto Caivano, «un luogo abbandonato e fuori controllo che rappresenta emblematicamente tutte le periferie metropolitane italiane», che tuttavia si risolve in un «trionfo del vietare e punire» che non riesce a combinare insieme castigo e alternativa realistica.
Michele Mezza in “Dall’operaismo sociale un contributo per una sinistra del mulino digitale”[42] prendendo spunto, da un lato dai risultati delle recenti elezioni spagnole, dall’altro dalla scomparsa di due figure apicali nella storia della sinistra comunista come Giorgio Napolitano e Mario Tronti, propone una riflessione su “Come aggiornare il patrimonio culturale della sinistra di fronte alle trasformazioni in atto nella società” in un lungo articolo a conclusione del quale l’autore aderisce alle tesi del cosiddetto “accelerazionismo tecnologico” «che contesta al capitale la guida naturale dei processi informatici. Un filone che idealmente riprende la linea di pensiero di Quaderni Rossi integrandola con una rielaborazione delle esperienze digitali che, proprio alla luce della tendenza ad un ulteriore decentramento dell’uso di potenze di calcolo che l’intelligenza artificiale sta proponendo, permette, come dicono gli esponenti di quella scuola di pensiero, di ‘Innovare l’innovazione’ […] Una visione che può sembrare eccentrica – aggiunge lo studioso – per chi ancora pensa che da questo processo di automatizzazione dobbiamo difenderci rallentandolo, ma che diventa l’unica via di uscita in una fase storica in cui proprio i rapporti di produzione ci portano a contendere al capitale la sua esclusiva sovranità sulla conduzione della riformulazione di tutte le relazioni sociali mediante appunto la mediazione digitale. Questa forma di orientamento del pensiero – conclude Mezza – è diventata oggi la modalità dominante nel configurare le attività in ogni campo delle relazioni umane. Ed è per questo che diventa discriminante per qualsiasi proposta politica che abbia l’ambizione di proporsi come alternativa, se non proprio antagonistica, al modello capitalistico, di comprenderne la struttura e praticarne il controllo».
Guido Barlozzetti torna sul messaggio della presidente del Consiglio pubblicato il 20 ottobre sotto forma di post su Facebook nell’articolo “Parola di Giorgia”[43] esaminando, come recita l’occhiello, “Un post che assume in sé aspetti diversi di un’epifania meloniana e del suo modo di rappresentarsi e comunicare”. Scrive Barlozzetti che «il benservito che la Presidente Giorgia ha annunciato nei confronti del compagno contiene, in questo senso, livelli di lettura diversi, individuandone quattro nella fattispecie:
- una cartina al tornasole del mondo-Meloni, inteso come la sua visione delle cose e l’insieme dei valori a cui fa riferimento;
- un caso emblematico di interferenza tra pubblico e privato;
- un’espansione-soap della politica, che alimenta il discorso dei media con un racconto che riguarda la cronaca rosa e i programmi gossip;
- un potenziale punto di crisi di una strategia di comunicazione, perché questa vicenda va a interferire direttamente con l’immagine stessa della Presidente.
Il giorno dopo il post, in un video messaggio inviato dal Cairo all’Assemblea di Fratelli d’Italia “La Presidente – scrive Barlozzetti – rivendica poi i risultati di un anno e sottolinea il perdurante “supporto e affetto degli Italiani” che riconduce alla natura stessa del governo e a una contrapposizione che fa parte sostanziale di un modo di porsi nei confronti della politica. Una cosa, dice, è la rappresentazione che “i giornaloni e i salotti tv” fanno del Paese, un’altra “l’Italia vera, dimenticata e umiliata dai governi della sinistra”. Ne individua le categorie: “L’Italia del lavoro, del merito, dell’intraprendenza imprenditoriale, della famiglia”, contro “i furbi e i privilegiati”, quelli “con il giro giusto delle amicizie”. E contrappone l’Italia di chi non arriva alla fine del mese a chi sperpera miliardi, l’Italia chi era escluso “perché non aveva la tessera di partito giusta”. Insomma, Meloni da capo-partito e insieme Presidente riprende la chiave movimentista, populista e radicaleggiante che ha come contraltare non la politica in quanto tale ma quella che viene ricondotta all’occupazione del potere da parte di un’Antagonista connotato come remoto rispetto ai bisogni del Paese reale”.
Parte seconda TECHNÉ Innovazione, media e comunicazione pubblica. Storie di media e società
Introduce la seconda parte di questo numero l’articolo di Marco Mele, giornalista e saggista, esperto e analista dell’industria dei media, “Agcom, presentata la relazione al parlamento 2023”[44] nella quale, solleva il problema l’autore, stupisce «lo spazio dato alla Rai, al servizio pubblico radiotelevisivo, nel discorso del presidente dell’Agcom: solo un capoverso, neanche un paragrafo», domandandosi se possa «l’Agcom sottrarsi a qualsiasi riflessione davanti al Parlamento sulla trasformazione della stessa Rai in Media company pubblica, o in Fondazione».
In primo piano. Uno sguardo sulla storia della radio e della televisione in Italia
Bruno Somalvico, storico dei media e direttore editoriale di Democrazia Futura, pubblica la seconda parte di “Cento anni di radiofonia e settant’anni di televisione in Italia”, ovvero “La stagione del monopolio radiofonico e televisivo della RAI (1954-1974)”, saggio breve nel quale vengono messi a fuoco tre fasi: “L’avvio e i primi anni della televisione (1954-1960)”[45]. “L’esplosione dei consumi massmediali dopo il miracolo economico (1960-1969)”[46] e “La stagione dei congressi e la riforma della RAI (1969-1975)”[47]. Ne emerge un quadro di forte centralizzazione delle attività intorno a Roma, fortemente voluto dalla classe dirigente democristiana che ne assume progressivamente il controllo, trasformando progressivamente il vecchio ente radiofonico nella principale industria culturale del Paese che, dopo la contestazione della fine degli anni Sessanta, conoscerà una stagione di grandi discussioni in previsione di una riforma che ne sposterà il baricentro verso il parlamento
La Rai degli anni Venti. Cronaca di un lento quanto gioioso suicidio del servizio pubblico in Italia
La Rai dei giorni nostri è invece oggetto dell’indagine di Giacomo Mazzone, direttore responsabile di Democrazia Futura e in un articolo dal titolo “Chi vuole uccidere il servizio pubblico e perché”[48] propone un tema molto d’attualità all’indomani della divulgazione della bozza di legge di bilancio 2024 che prevede la riduzione del canone Rai. L’articolo molto documentato sul quadro di finanziamento dei servizi pubblici in Europa e sulle prospettive di concentrazione anche dell’emittenza commerciale, denuncia «la decisione del governo di mettere nella Legge di Finanza 2024 una riduzione programmata del canone di 20 euro (portandolo da 90 a 70 euro) [come] un clamoroso errore, anche e soprattutto per un governo come l’attuale che propugna il concetto di ‘Europa delle nazioni’, contro il concetto di Europa attualmente messo in pratica». In effetti, a parere di Mazzone «mettendo a rischio la sopravvivenza stessa della RAI nel medio-lungo periodo, potrebbe privare il paese (assai più che il governo) di uno dei pochissimi strumenti che ha a disposizione per raggiungere i cittadini».
Sullo stesso tema interviene Marco Mele in “Il taglio del canone aumenta la dipendenza dalle scelte del governo”[49], evidenziando come «la sforbiciata prevista in manovra, da 90 a 70 euro, sottrae risorse per 440-450 milioni per la concessionaria, compensata da un contributo di 430 milioni». Così che «ancor più sarà aumentata la dipendenza di Viale Mazzini dalle scelte del Governo ´che possiede il 99,95 per cento delle azioni Rai) se rimarrà nel disegno di legge […] la norma che prevede il contributo del Governo valevole […] anche per l’attività editoriale».
È invece sotto forma di lettera aperta alla presidente della Rai, Marinella Soldi, il testo di Michele Mezza introdotto fin dal titolo da una domanda: “La RAI come parla agli utenti digitali?”[50], con l’intento di sintetizzare ciò che l’autore, con anni di esperienza da giornalista, ritiene essere i nodi di un possibile servizio pubblico radiotelevisivo per il decennio successivo. Scrive Mezza: «in previsione del rinnovo non solo del contratto di servizio, ma anche della Convenzione decennale in scadenza nel 2027, che dovrà traghettare la Rai nel prossimo decennio credo che l’attuale consiliatura prima della sua scadenza nella primavera 2024 dovrebbe rispondere ad una serie di interrogativi», per esempio quali siano i nodi su cui il Servizio pubblico dovrebbe garantire al Paese un ruolo attivo, quale la strategia sociale che dovrebbe adottare per ripensare il suo ruolo nell’abbondanza digitale e come possa la Rai, a cento anni dall’inizio della radiofonia in Italia all’inizio del fascismo, superare ogni condizionamento politico. Ma soprattutto, di fronte alla svolta tecnologica digitale degli ultimi anni, «possiamo continuare a mantenere inalterata la struttura fordista della redazione e l’articolazione verticale, a canne d’organo […] con reti e testate parallele e eguali fra loro?». Al termine della lettera, una proposta, da parte dell’autore, proprio per superare le vecchie logiche e avviare la Rai verso il futuro.
Angelo Zaccone Teodosi, presidente dell’Istituto Italiano per l’Industria Culturale (IsICult), si interroga sulla tendenza in atto in merito alla gestione della Rai in un articolo dall’eloquente titolo “Verso l’abolizione del canone, tutto a carico della fiscalità generale”[51]. L’autore giudica demagogica tale tendenza, addebitandola prevalentemente a Matteo Salvini, prevedendo ulteriore incertezza «sui futuri di medio-lungo periodo della Rai». Di fronte all’attuale confusione sull’ammontare dei contributi compensativi del minor gettito previsto dal canone, non ancor bene specificati dal ministro dell’Economia, non si può ignorare, secondo Zaccone Teodosi, che «la decisione proposta da Salvini e fatta propria da Meloni indebolisce anche quel “sovranismo culturale” tanto caro a Fratelli d’Italia, perché una Rai incerta e fragile non può certo contribuire ad affermare al meglio una visione ideologica che ponga la cultura nazionale come centrale nel sistema della comunicazione digitale». Il tutto di fronte a un’evidenza incontestabile, ovvero che «la Rai ha risorse pubbliche che sono meno della metà di quelle di Germania e Regno Unito» e risorse pro capite inferiori a quelle della Francia. Per concludere che «la deriva della Rai così continua: ancora più deficitario il suo possibile ruolo di agente di sensibilizzazione psicosociale e di alfabetizzazione digitale».
Manlio Cammarata, giornalista esperto di diritto dell’informazione e delle tecnologie, direttore di InterLex, esprime un punto di vista originale in “Tv. L’anomalia italiana continua”[52]. Cammarata è autore della monografia alla sua seconda edizione, riveduta e ampliata, L’anomalia (1994-2023). L’Italia è una repubblica fondata sulla televisione (Tabulas, 2023, 269 p.). «Dopo quasi vent’anni dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 22 aprile 2004 che denunciava “una combinazione unica di potere economico, politico e mediatico nelle mani di un solo uomo” – si legge nella quarta di copertina – l’allora presidente del consiglio non c’è più, il sistema dei media è sostanzialmente cambiato, ma la televisione è ancora il medium più influente. E ‘anomalia continua». L’autore ci spiega qui di seguito le ragioni per le quali «a ogni cambio di governo si ripete l’assalto a potere televisivo».
Segue di Glauco Benigni “Il principio di indeterminazione nel web”[53], il cui occhiello significativamente recita “Una nuova chiave di lettura della rete gigitale per capire la società in via di globalizzazione”, brano tratto per gentile concessione dell’autore dalla monografia dal titolo Tsunami Internet. Al di là dell’etica e della genetica (Roma, Harpo editore, 2022, 176 p.). Per usare le parole dello stesso Benigni, se ne cita una parte in forma di sintesi: «l’applicazione del Principio di Indeterminazione di Heisenberg al mondo di Internet – scrive Benigni – rende ampia ragione dell’impossibilità, mediante la sola osservazione esterna, di determinare le origini delle fonti e i loro intenti, in quanto noi nel semplice osservare restiamo totalmente estranei al Cybermondo. E inoltre una Fonte-notizia (spesso) esclude l’altra. Quando una notizia viene smentita da un’altra, nella nostra coscienza il loro effetto congiunto tende a zero: è un processo simile all’annichilazione di cui parla lo stesso Heisenberg, ovvero alla soppressione reciproca di due aspetti che si manifestano nello stesso tempo. L’informazione nel web si colloca di fatto in una dimensione “altra”, una enorme nebulosa composta da contenuti generati e realizzati in forma digitale: una dimensione non materica, con leggi proprie, ancora in gran parte sconosciute. In questa dimensione, anche se vi si rinvengono molteplici elementi materici tipici dei Media Classici (cavi, modem, tastiere, videocamere, testi, foto, filmati, eccetera), non possiamo addentrarci con gli strumenti d’indagine e le Leggi della Tradizione e se vogliamo coglierne interamente la natura dobbiamo adottare una nuova visione e una nuova strategia conoscitiva. Vi sono infatti due sostanziali elementi di indeterminazione nel web che si rafforzano e alimentano a vicenda: l’onnipresente dualità “vero/falso” e la potenziale (già citata) non-localizzazione delle Fonti. Il Principio di Indeterminazione in Internet rappresenterebbe dunque una nuova chiave di lettura della Rete Digitale. Esso dovrebbe sancire la sostanziale natura indeterminata delle narrazioni, delle valutazioni e, pertanto, dei giudizi finali.
Focus di approfondimento Stati Uniti, Europa e Cina: guerra dei chip, politiche per la società digitale e governo dell’intelligenza artificiale
Segue una sezione di approfondimento su Europa e governo della società digitale, introdotta da un articolo di Bruno Somalvico: “Per una politica comune europea nel campo delle tecnologie dell’informazione e dell’intelligenza artificiale. Dal DSA e DMA all’AI Act”[54]. In merito alle misure che l’Unione Europea ha elaborato il direttore editoriale di Democrazia Futura si interroga «se questo pacchetto creerà le premesse per la ripresa del processo di costruzione di politiche comuni in un campo così strategico come questo nel quale i nostri interessi europei non coincidono certo con quelli dei nostri alleati oltre Oceano», auspicando che il dibattito sulla materia prenda forma anche attraverso webinar e seminari in presenza con il contributo di tecnici, economisti, giuristi e sociologi.
Segue un articolo di Pieraugusto Pozzi, ingegnere e segretario generale di Infocivica Gruppo di Amalfi, “Il regolamento europeo sui servizi digitali al decollo. Gli effetti del DSA su grandi piattaforme e motori di ricerca”[55]. Tale regolamento, entrato in vigore il 25 agosto 2023, «impone novità significative per i Big Tech, definendo una lista di obblighi da seguire per operare in Europa senza incorrere in sanzioni», dovendo inoltre «dimostrare il proprio allineamento tecnico-operativo ad alcuni principi e prassi», quali la «Moderazione dei contenuti», la «Trasparenza», la «Profilazione», la «Tutela dei minori», la «Mitigazione del rischio e tutela della salute», venendo inoltre sottoposti a stress test e audit, prevendendo infine sanzioni per le inosservanze. Fatta tale premessa, conclude Pozzi, «all’osservatore del mondo digitale e delle vicende europee una domanda sorge spontanea: sarà per questo (ed altro) che lo spazio normativo (e politico) dell’Europa è sotto attacco geopolitico e lobbistico?».
Luigi Garofalo, giornalista e conduttore affronta il tema della guerra dei chip, in “Stati Uniti-Cina, tech war sui chip. Biden firma 52 miliardi per semiconduttori. Le due strategie”[56], partendo dall’assunto che Usa e Cina si contendono la supremazia mondiale anche nella produzione di microchip avanzati. Se al momento due aziende, una taiwanese, l’altra coreana, rivaleggiano per il monopolio sui chip avanzatissimi, con componenti più piccole di dieci nanometri, «il Chip and Science Act impedisce alle aziende che ricevono finanziamenti federali di “espandere materialmente la produzione di chip più avanzati di 28 nanometri in Cina (e in Russia) per 10 anni”». Pechino accusa gli Stati Uniti di mettere in atto una vera e proprio coercizione economica, nel frattempo cambia strategia per accelerare la produzione di semiconduttori, evitando di staccare assegni in bianco che fino ad oggi hanno spesso prodotto fallimenti, preferendo indirizzarsi verso esenzioni fiscali per attirare le società di chip. Nel frattempo anche questo fondamentale settore dell’industria strategica cinese non è esente dalla corruzione dei suoi vertici.
Sul medesimo argomento scrive Flavio Fabbri, giornalista ed esperto di transizione digitale, ecologica ed energetica, in “La guerra dei chip. L’Unione Europea non potrà essere autosufficiente, ma neanche la Cina”[57], nota come il mercato globale dei chip sia sempre più in subbuglio, sebbene il confronto tra Cina, Stati Uniti d’America e Unione Europea non si risolverà con un solo vincitore. Chris Miller, autore di Chip War, sostiene che «le supply chain ormai sono troppo estese, globali e interconnesse tra loro», per lasciar prevalere un solo contendente. Semmai converrebbe che l’Europa si concentrasse sui propri punti di forza, come le industrie manifatturiere ad alta intensità di ricerca, innovazione e sviluppo, concludendo Fabbri che «se l’Ue vuole conquistarsi un posto di rilievo in questo settore non deve puntare alla piena sovranità tecnologica e produttiva, ma concentrarsi sulla qualità dei progetti».
Conclude la sezione Michele Mezza con un articolo di approfondimento sulla politica americana in materia: “Un ordine esecutivo di Biden impone ai proprietari delle piattaforme di negoziare l’intelligenza artificiale con utenti e lavoratori”[58]. Si parte dal presupposto che l’intelligenza artificiale sia stata una fonte di profondo interesse personale per il presidente Joe Biden, con il suo potenziale di influenzare l’economia e la sicurezza nazionale. L’ordine esecutivo varato il 30 ottobre 2023 imporrà pertanto nuovi standard per gli sviluppatori e investirà il National Institute of Standard and Technology di fissare «test approfonditi per garantire la sicurezza prima del rilascio al pubblico», mentre il Dipartimento del Commercio «”svilupperà linee guida per l’autenticazione dei contenuti e la filigrana” per etichettare gli articoli generati dall’intelligenza artificiale». Tali misure riflettono «lo sforzo del governo di modellare il modo in cui l’intelligenza artificiale si evolve in modo da massimizzare le sue possibilità e contenerne i pericoli».
Parte terza CLIO. Storia del presente e scienze umane.
Critica del presentismo e dell’ideologica tecno-scientista digitale
Introduce la sezione l’articolo di Lorenza Pozzi Cavallo, giornalista d’inchiesta e analista politica esperta di intelligence, “Come scovare i falsi della ricostruzione e interpretazione dei fatti storici”[59], nel quale sottolinea la crucialità degli archivi per ricostruire senza inganni la memoria storica nell’era digitale. «Il venir meno del principio di autorità – osserva Lorenza Pozzi Cavallo – rendono l’utente più “indifeso” di fronte a una tale massa di “notizie” e ai social: per restare nel campo storico, accanto a siti autorevoli e scientificamente documentati si trova una congerie di siti privi di ogni indicazione di fonti certe. Tornerebbe utile l’antica, fondamentale distinzione dei filosofi greci tra opinione e conoscenza, tra doxa e epistème, non più o difficilmente percepibile quando si lancia una ricerca su Google».
I. I conti con la storia e la narrazione della nazione: 25 luglio 1943 e 8 settembre
Ottant’anni dopo l’8 settembre si discute ancora degli effetti di quella data tragica sul presente. Introduce la sezione Stefano Rolando con il mini saggio “25 luglio-8 settembre 1943. Il potere esplode come una bomba”[60]anticipato sul numero di settembre di Mondoperaio e che riprende e approfondisce il tema della discussione su quella che nell’occhiello definisce la “maggiore crisi identitaria dell’Italia contemporanea”. Riprendendo il paradigma delle molte verità sulle vicende della famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo oggetto di studio da parte di Emilio Gentile, Rolando propone «quattro idee sulla natura del potere nel fascismo» prima di esaminare «il concatenarsi dei fatti» in quei 45 giorni e considerare «la storia ancora non univoca, dal 25 luglio del ‘43 al 25 aprile del ‘45», ovvero come «ancora oggi collocare la verifica di una interpretazione storica che riguarda la fase finale, di tramonto e sconfitta del fascismo italiano». Rolando considera «decisiva l’analisi dell’8 settembre» prima di concentrarsi su come «la frattura 1943-1945» viene percepita dall’attuale governo Meloni: «sull’asse 25 luglio-8 settembre – per giunta nell’ottantesimo – è in gioco il giudizio etico-politico delle ragioni di valorialità della continuità del regime fascista oltre il suo naturale perimetro storico e contro l’interesse nazionale», scrive Rolando prima di riservare il paragrafo finale all’epilogo di una personalità come quella di «Benito Mussolini e la Repubblica Sociale Italiana» che «senza orgoglio, senza obiettivi strategici, senza una speranza per sé stesso, consapevole del senso unico imboccato subendo ulteriormente il ricatto nazista, […] scende nel girone infernale della sudditanza e consegna ad un falso sé la responsabilità di una guerra civile che lui stesso aveva il potere di evitare senza forse dovere ancora entrare – per i suoi stessi fedeli – nella irrevocabilità del ‘male assoluto’».
Lo storico Salvatore Sechi in “L’8 settembre e il fascismo che non abbiamo capito. Un’occasione preziosa per rileggere il passato”[61] affronta le ragioni della «fuga di Vittorio Emanuele III a Brindisi, l’inettitudine del governo Badoglio e l’inizio dell’occupazione tedesca», «la difficile ricerca di una nuova idea di patria dopo la morte di quella fascista e le controversie in seno al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN)», gli «effetti dell’affievolirsi del sentimento di appartenenza nazionale nel corso della Prima Repubblica» e l’interrogativo finale su «che cosa fu davvero il fascismo, con quale immagine è stato vissuto dagli italiani, a cominciare dagli anti-fascisti?», sostenendo in conclusione che «non avendo capito tempestivamente (ma anche nel lungo periodo) che il fascismo non era riducibile al manganello e al fuoco acceso nelle sedi dell’Avanti!, a ridosso delle case del popolo, delle cooperative, eccetera, non c’è da stupirsi che del governo Meloni si faccia la rappresentazione di decrepitezza e inettitudine redatta nelle gigantografie quotidiane del FattoQuotidiano. I Cinque Stelle avevano bisogno di sfornare, a mesto ricordo di Giuseppe Conte, un loro Paese Sera».
Marco Severini, docente di Storia contemporanea all’Università di Macerata, in “L’altro Otto settembre”[62] analizza un episodio marchigiano di resistenza dopo l’occupazione tedesca di Ancona, nei giorni successivi alla firma a Cassibile dell’armistizio, con al centro il coraggio di una donna del popolo, Alda Renzi (1890-1943). Uno studio utile non solo per ritornare, come fa l’autore, sul dibattito storiografico sulla morte della patria lanciato negli anni Novanta da Ernesto Galli della Loggia, ma per inquadrare l’atteggiamento della popolazione marchigiana e in particolare pratiche esercitate da donne coraggiose come quelle qui descritte che tessono numerosi episodi di storia locale generalmente rimossi e comunque rimasti a lungo obliati.
II. Rassegna di varia umanità. Elzeviri, interviste, analisi, commenti, interpretazioni, ricordi e altre amenità dello spirito, del pensiero e del gusto
Un’altra pagina di recente storia nazionale che continua a fare discutere è oggetto di un articolo di Salvatore Sechi dal titolo “Amato ha inteso colpire la prassi della doppia verità e della doppia lealtà”[63], nel quale lo storico contemporaneista intende mostrare, come recita l’occchiello, “il significato dell’intervento dell’ex presidente della Corte Costituzionale su La Repubblica, partendo dal presupposto che si sia trattato di «una confessione di un’impotenza e la volontà di denunciarla». Ovvero la difficoltà, se non l’impossibilità stessa, di venire a capo della verità in merito alle responsabilità della strage di Ustica. E così facendo Amato «intende rafforzare le ragioni della Nato […] chiedendo di non subire il passato, di liberarlo finalmente da ogni nebbia e doppiezza», concludendo che con tale gesto «ha voluto dirci che la politica della doppia verità nell’amministrazione della giustizia e della doppia lealtà nei confronti degli alleati è un grave pregiudizio e un errore».
Un altro mistero italiano, la scomparsa di Enrico Mattei, è analizzato da Gianfranco Noferi, già dirigente Rai e scrittore, partendo dalle origini, in “10 febbraio 1953: la nascita dell’ENI come bene pubblico sociale”[64], concludendo il trittico di articoli dedicati alla figura del fondatore dell’Ente Nazionale Idrocarburi in occasione del sessantesimo anniversario dalla sua morte. Vi ripercorre l’attività di diversificazione del gruppo e di rafforzamento dell’«intervento dello Stato in economia ispirato dal Codice di Camaldoli», quel documento redatto da «esponenti della appena costituita Democrazia Cristiana», riuniti nello storico eremo casentinese tra il 18 e il 24 luglio 1943, che poneva «la giustizia sociale come principio direttivo della vita economica» del futuro Stato democratico, «sottolineando la dimensione etica del dovere tributario». «La legge concedeva all’ente il monopolio nella ricerca e produzione di idrocarburi nell’area della Pianura Padana; al nuovo ente fu attribuito il controllo di Agip, Anic e Snam e di altre società minori, configurandosi così – chiarisce Noferi – come un gruppo petrolifero-energetico integrato che potesse garantire lo sfruttamento delle risorse energetiche italiane».
Interviene ancora lo storico contemporaneista Salvatore Sechi con un articolo dal titolo “Gramsci, Sraffa e l’ossessione trotzkista del Grande Terrore”[65] per spiegare, come recita l’occhiello, “Perché né il PCd’I né l’Urss non fecero nulla per liberarlo dal carcere”. A tal proposito la storiografia più recente conferma le ipotesi sostenute sin dagli anni Sessanta da Leonardo Paggi circa «la rottura mai ricomposta di Gramsci con Togliatti e il gruppo dirigente del PCd’I», rottura che spinse lo stesso Gramsci – ormai imputato di parteggiare per Trotzky – a conferire il mandato «a Piero Sraffa e a Tatiana Schucht di non destinare a Palmiro Togliatti i manoscritti redatti durante i suoi dieci anni di detenzione nelle prigioni di Stato». «L’esclusione di Palmiro Togliatti e del partito si può dire sia stata l’ultima manifestazione di volontà di Gramsci». Il saggio inoltre ripercorre minuziosamente alcune vicende che Sechi inquadra in una sorta di «inarrestabile processo di separazione di Gramsci dai suoi compagni comunisti» che spiegherebbe non solo perché questi ultimi non fecero nulla per liberarlo dal carcere, ma anche perché – dopo la grave crisi del capitalismo del 1929 – «dal fondo di un carcere Gramsci riesce a cogliere l’epocale cambiamento che sta avvenendo. C’è un ruolo nuovo dello Stato che da Washington a Mosca investe il vecchio mercato e modifica le forme della politica», intravvedendovi una nuova forma di totalitarismo. «Esso non coincide per nulla con le coercizioni e le violenze del neo-bonapartismo dominante nel paese del “socialismo reale” né con i meccanismi e le procedure del dominio ad opera del nuovo padronato. Ha, invece, a che fare con l’assunzione da parte dello Stato, negli Stati Uniti d’America come nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di funzioni collettive, totalizzanti in sostituzione di quelle che fino ad allora erano state iniziative private in un mercato lasciato a sé stesso».
Una riflessione sulla settima arte è invece al centro dell’interrogativo espresso fin dal titolo da Paolo Luigi De Cesare, “Cinema italiano: ci sarà il Miracolo di Sangiuliano?”[66]. Partendo da un intervento di Angelo Zaccone Teodosi, De Cesare svolge una lunga disamina sulle prospettive della nostra industria audiovisiva chiedendosi con quali modalità occorrerebbe «sostenere il Cinema Italiano nell’era del Conservatorismo Valoriale». Secondo l’autore, di fronte alla «manifesta fragilità della Legge Franceschini» e alle evidenti carenze valoriali che pur non sono il prodotto di un “cinema di sinistra”, semmai della trasformazione in senso consumistico della società, «l’approccio ideale sarebbe stato quello di lavorare per un’Industria culturale “forte”, capace di finanziare, l’indipendenza e la ricerca artistica, con gli stessi proventi dell’Industria; ovvero dei prodotti commerciali. Certo i prodotti commerciali non sono “neutri”. Incidono sull’immaginario e sulla educazione estetica. E cambiando l’immaginario, cambiano gli “orizzonti morali”; ma va messo nel conto». In ogni caso con il ministro Sangiuliano, al quale non risparmia garbate critiche, De Cesare è d’accordo nel considerare che «alla base ci deve essere una trasversale condivisione dell’obiettivo. Quello di rendere più autosufficiente il sistema-cinema italiano. Un campo specifico dove un po’ di sovranismo, protezionismo e orgoglio identitario non guasterebbe».
Lo storico dell’arte e docente all’università di Macerata Roberto Cresti ricorda Gianni Vattimo in “Pensieri interrotti. Un ricordo impersonale di Gianni Vattimo”[67]. E la prima parte è introdotta dall’immagine di «Vattimo [che] letteralmente dominava la scena. La sua conoscenza di prima mano dei testi della filosofia antica e moderna (della seconda, in particolare, dell’Otto-Novecento), i rapporti diretti con gli esponenti del pensiero europeo (Hans Georg Gadamer in Germania, Gilles Deleuze in Francia) e nordamericano (Richard Rorty), gli davano, in ogni dibattito […] una ricchezza di argomentazioni e di riferimenti alle migliori ricerche filosofiche in atto che spiazzava i suoi interlocutori, mettendoli in difficoltà, come di fronte a un Doctor invincibilis». Il ricordo prosegue rievocando i contenuti di una conversazione dello stesso Cresti nel 1991 con Gadamer nella quale Vattimo è definito «non un filosofo» bensì «un acrobata», facendo riferimento al celebre episodio, rievocato da Nietzsche in Così parlò Zarathustra, del «funambolo, il quale, in bilico sul filo teso sopra un mercato dalla folla versicolore, sentendosi incalzare e superare di slancio con un salto acrobatico dal pagliaccio che gli è giunto, su quel filo stesso, alle calcagna, precipita al suolo e muore», prima di concludersi sulle due legislature di Vattimo al Parlamento europeo: «diceva di ispirarsi, fin dagli anni Settanta, al cosiddetto “catto-comunismo” […] e del resto proprio in quella fusione politica si rivela, prima a caldo poi a freddo, l’essenza nichilista del cattolicesimo italiano, che ha col tempo -conclude Cresti – dissolto tutti i propri partner politici».
Parte quarta. LEXICON Rubriche, glossario, selezione artistica
A. LEXICON Rubriche
L’ultima parte di Democrazia Futura è inaugurata, per la rubrica Almanacco d’Italia e degli italiani, dall’articolo di Silvio Maestranzi, regista e sceneggiatore, L’assassinio dei fratelli Rosselli. Lo sceneggiato in tre puntate girato mezzo secolo fa e trasmesso dalla Rai nel 1974”[68]. Rievocando la riprese «dello sceneggiato […] tra i più impegnativi della [sua] attività di regista», Maestranzi sottolinea che «quella era una televisione impegnata che cercava di spiegare e rappresentare certi fatti della politica e della storia senza peli sulla lingua» e senza alcuna limitazione censorea.
Sempre per Almanacco d’Italia e degli italiani, la storica e critica letteraria Sara Carbone in “Italo Calvino, il colore del vuoto” [69] ricorda la morte di Italo Calvino, esattamente trentotto anni fa, il 19 settembre 1985, a Siena, di cui celebriamo quest’anno il centenario dalla nascita. Di Calvino Sara Carbone fa una presentazione originale sostendo che «Calvino è uno scrittore che non è mai morto e questo non perché sopravvive con le sue opere alla stregua degli altri autori presenti sugli scaffali delle nostre biblioteche, quanto per il fatto che, durante la sua vita, ci ha abituati alla sua “assenza” sia di uomo che di intellettuale. Restio a parlare di sé stesso, a condividere i suoi “dati biografici”, forse perché “dichiararli è come affrontare una psicoanalisi”, Calvino sa di vivere nell’epoca della tirannia dell’immagine, nel tempo in cui “lo scrittore ha occupato il campo” del visibile a discapito del mondo rappresentato nella sua opera».
Paolo Delle Monache, scultore e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano), per la rubrica Le avventure dell’Arte propone delle “Brevi riflessioni su Alberto Giacometti, il suo doppio, la Gioconda e il naso” nell’articolo dal titolo “Prima di Dolly c’è Diego”[70], con riferimento al fratello del celebre scultore bregaglino. «Alberto Giacometti se ha vissuto 66 anni è perché quasi 30 li ha rubati a Diego. Per Alberto – osserva Delle Monache – la candela ha bruciato il doppio lo stretto necessario, solo nei momenti di creazione, per poi placarsi, perché da lì in poi proseguiva Diego. O forse sarebbe più esatto dire che ha bruciato il “doppio” alla lettera: nel senso che a bruciare era il suo doppione Diego, un clone generato molto tempo prima della pecora Dolly. Questo per dire che Alberto Giacometti ha avuto due vite a disposizione. La sua e quella del suo sosia Diego, che aveva solo un anno meno di Alberto e gli somigliava molto». Mentre per trovare il riferimento alla Gioconda è necessario osservare lo sguardo della madre dei due Giacometti e si comprenderà ogni cosa.
Per la rubrica Tiro a segno Carmen Lasorella, giornalista e scrittrice, in “San Calogero è un ‘santo nero’”[71] spiega, come recita l’occhiello, “perché il 2 settembre, in occasione della festa di San Calogero a Porto Empedocle, il questore Emanuele Ricifari ha disposto la verifica dei certificati penali dei portatori del santo”. Se la risposta si può facilmente intuire, è ciò che ha accaduto in seguito a dare l’opportunità a Lasorella di avere tra le mani una «storia che fa piacere raccontare. Un modello di contagio positivo».
La morte dell’architetto Paolo Portoghesi suggerisce a Maurizio Di Puolo, architetto-designer e docente al politecnico di Milano, l’articolo “Per Paolo Portoghesi, ovvero ‘come in uno specchio’”[72], pubblicato nella rubrica Un certain regard. Paolo Portoghesi, come suggerisce l’occhiello, avrebbe avuto “una vita con due Amori: l’Architettura e la Fotografia”. «Guardando le foto di Paolo, aggiunge Di Puolo, e in special modo i densi bianconero di Roma Barocca (1966) e dell’insuperabile Borromini (1967) si riesce a comprendere quanto abbia giocato la macchina fotografica (in questo tipo di nuova indagine accoppiata a una ricerca culturale e scientifica di altissimo livello, alla comprensione di fenomeni architettonici e stilistici “dati per dato” e, in alcuni casi, addirittura in disgrazia».
Per la rubrica Il piacere dell’occhio, Venceslav Soroczynski (pseudonimo di uno scrittore e critico letterario-cinematografico) recensisce “Skazka/Fairytale (2022), un film capolavoro di Aleksandr Sokurov”[73] , definito “a metà fra la storia e il sogno, fra il ricordo e l’incubo, fra la testimonianza e la predizione”. In un estratto significativo dell’articolo si legge che «c’è qualcuno per cui il fare cinema non è un semplice atto artistico, ma un’elaborazione di significati profondissimi che conduce a opere a metà fra la storia e il sogno, fra il ricordo e l’incubo, fra la testimonianza e la predizione. Il russo Aleksandr Sokurov. a mio parere uno dei maggiori registi viventi, che vede i sui correlativi occidentali solo in Terrence Malick e Michael Haneke, infarina ancora una volta la velenosa anima del Novecento, per poi mandarla sullo schermo in tutta la sua crudezza».
Per la rubrica Visto da vicino, Italo Moscati, scrittore, sceneggiatore, regista, critico televisivo, teatrale e cinematografico, in “Giuliano Montaldo e le sue guerre”[74] ripercorre la figura del regista genovese recentemente scomparso sin dal suo primo incontro, alla metà degli anni Sessanta, che gli suscitò naturale simpatia. E nel ricordo emerge il giudizio sull’opera del regista, ritenuta il prodotto di «un lungo, intenso viaggio. Qualcosa che vive nel cinema italiano e non solo. Qualcosa di speciale che ha aperto nel cinema italiano».
Nella rubrica Fresco di Stampa Massimiliano Malvicini, assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale, a proposito di un recente lavoro del professor Gianfranco Pasquino (Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve), ha pubblicato una recensione dal titolo “Il lavoro intellettuale: tra opinione pubblica, etica della responsabilità e passione scientifica”[75]. Il volume – chiarisce subito Malvicini citando lo stesso Pasquino – approfondisce «le modalità con le quali viene o dovrebbe essere svolto il compito importante di elaborare idee, di comunicarle, di renderle utilizzabili, di riformularle nel tentativo, mai del tutto coronato da successo, ma sempre degno di impegno e di elogio, di impedire a coloro che hanno potere politico, economico, sociale, religioso e culturale, di trarre vantaggio da quel potere a scapito degli altri».
ùChristophe Prochasson e Anne Rasmussen, rispettivamente storico delle idee contemporanee a Parigi, e studioso della scienza della politica al King’s College di Londra, aprono la rubrica Memorie nostre con il ricordo di “Jacques Julliard: uno storico inclassificabile”[76], introducendolo con un’immagine che ne è perfetta sintesi: «Si dice spesso che Jacques Julliard sia un giornalista e uno storico. A volte aggiungiamo la qualità del saggista. Eccelleva davvero in questi tre registri. Ma sia che analizzasse il presente o il passato, era sempre la profondità di campo storica a guidare il suo sguardo. Gli piaceva ricordare la formula di Benedetto Croce: “non c’è storia se non il contemporaneo”». Julliard era inoltre «uno storico impegnato ma che non era uno storico militante schiavo delle logiche di partito, di gruppo o di interessi di qualsiasi natura» e il suo impegno storico «fu governato da tutto un insieme di convinzioni personali, a cominciare dal rifiuto del conforto delle certezze».
Un anno fa moriva Gianni Bisiach. Carmen Lasorella in “Gianni Bisiach, un anno dopo”[77], sempre per la rubrica Memorie nostre, traccia un breve “ricordo del grande giornalista goriziano” raccogliendo in un post scriptum la testimonianza di un suo amico, l’avvocato Giorgio Assumma, già presidente della Siae. «Appena diplomato, si trasferì con la famiglia in Eritrea. Un’esperienza – osserva la nota giornalista lucana – che gli avrebbe lasciato un segno profondo ed una laurea in medicina, conseguita all’università dell’Asmara, cui ne seguì una seconda all’Università di Roma. Fu l’incontro con Massimo Rendina, giornalista e partigiano – ricorda Lasorella – che portò Gianni Bisiach in Rai nel 1954: Vittorio Veltroni era il direttore del Tg. Per le sue competenze e il desiderio di approfondire, Bisiach entrò subito nella redazione dedicata agli speciali. Si occupava soprattutto di medicina e di scienze». Da qui una lunghissima carriera sia in televisione sia alla radio dove continua ad andare in onda quotidianamente la striscia di approfondimento Radio Anch’io.
LEXICON Glossario
Prosegue la pubblicazione di voci di un glossario, che dà il nome alla sezione, per capire la società digitale. Per questo undicesimo fascicolo “Algoritmi” è “La parola chiave spiegata da Michele Mezza. per capire come convivere con l’intelligenza artificiale e l’automazione del pensiero”[78]. L’autore sostiene che «interrogarsi su cosa intendiamo per algoritmo significa affrontare il modo in cui l’umanità sta condividendo una nuova forma di convivenza. Una forma che rimane profondamente segnata da contraddizioni sociali che prolungano in modalità diverse, la contrapposizione fra proprietari e subalterni che oggi leggiamo, più aderentemente al contesto digitale, nella contrapposizione fra calcolanti e calcolati. L’algoritmo è un meccanismo, una macchina dice qualcuno, che raccoglie attorno a sé, selezionandone ruoli e funzioni, i proprietari degli apparati di calcolo e gli utenti di questi modelli operativi».
LEXICON Selezione artistica
Infine, lo storico dell’arte Roberto Cresti in “Stazioni spaziali. A proposito dell’opera di Roberto Giavarini”[79], presenta l’artista in copertina e nelle pagine interne di questo undicesimo fascicolo. Le riproduzioni delle opere di Giavarini mostrano chiaramente, a detta di Cresti, come «ogni immagine è una ‘stazione spaziale’ oscillante e immobile, che attrare lo sguardo a una sospensione di pensieri appena creatasi o già in punto di svanire, un microcosmo nomade eppure saldamente fissato nelle sue palindromiche “rotae”, in cui l’eterno ritorno dei miti si compie e ricomincia».
Seguono la biografia e tecnica di Roberto Giavarini, la bibliografia, nonché l’elenco dei riconoscimenti e delle opere riprodotte in questo fascicolo, unitamente ad un’informativa sulla Galleria Ceribelli che ha promosso e ospitato alcune sue mostre.
[1]https://www.key4biz.it/democrazia-futura-onu-unione-europea-italia-il-rischio-di-uscire-male-dai-conflitti/474120/.
[2] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-unelezione-per-soddisfare-gli-istinti-populisti-indebolendo-i-contrappesi-istituzionali/465772/.
[3] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-israele-palestina-la-storia-si-ripete-ma-non-e-maestra-di-vita/464214/.
[4] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-hamas-sogna-un-asse-anti-israeliano-guidato-dalliran/462748/.
[5] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-nuova-guerra-fra-israele-e-hamas-in-un-mondo-senza-tregua/462674/.
[6]https://www.key4biz.it/democrazia-futura-estinguere-i-tagliagole-di-hamas-e-dare-uno-stato-ai-palestinesi/462865/.
[7]https://www.key4biz.it/democrazia-futura-una-settimana-di-alta-tensione-non-solo-sopra-il-cielo-di-gaza-e-in-israele/463203/.
[8] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-gaza-attende-lattacco-e-disastro-umanitario/463757/.
[9]https://www.key4biz.it/democrazia-futura-i-vertici-non-sbloccano-il-conflitto-un-convoglio-di-aiuti-transita/464402/.
[10] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-strage-di-bambini-in-20-giorni-peggio-di-20-mesi-in-ucraina/465044/.
[11] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-iran-la-scelta-imperiale/463547/.
[12] https://www.key4biz.it/piu-brics-meno-prigozin/457266/.
[13] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-ucraina-il-fronte-e-fermo-ma-molto-accade-intorno-prigozhin-i-brics-il-g20/457895/.
[14] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-russia-putin-la-resa-dei-conti-dentro-e-fuori-lucraina-gli-usa-il-mondo/459063/.
[15] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-g20-il-vertice-di-new-delhi-conferma-la-crisi-della-governance-mondiale/460289/.
[16] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-mai-cosi-battute-le-vie-della-diplomazia/459640/.
[17] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-78esima-assemblea-generale-lonu-sciorina-la-sua-impotenza/460858/.
[18] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-brivido-di-freddo-dellucraina-con-loccidente/462541/.
[19] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-senza-conflitto-non-si-selezionano-le-leadership/473555/.
[20] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-usa-2024-dibattito-senza-botto-criticato-o-arrestato-trump-vince/457316/–
[21] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-usa-2024-putin-vota-trump-biden-tra-shutdown-e-rischio-impeachment/461347/
[22] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-congresso-sventa-lo-shutdown-ma-blocca-gli-aiuti-allucraina/473614/.
[23] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-alla-camera-i-trumpiani-sfiduciano-lo-speaker-kevin-mccarthy/473617/.
[24] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-occidente-e-occidenti/464670/.
[25] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-occidente-e-guerre-tra-disuguaglianze-e-migrazioni/463394/.
[26] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-catafalco-del-diritto-internazionale-e-la-morte-delloccidente/463506/.
[27] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-leuropa-e-gregaria-e-impotente/464192/.
[28] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-difesa-europea-e-cantiere-della-pace/462146/.
[29] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-ue-verso-rimescolamento-2024-date-in-neretto-sullagenda-dautunno/458541/.
[30] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-europa-allargamento-migranti-futuro-dellunione-parole-parole-parole/462515/.
[31] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-armenia-nazione-sofferente-tra-incudine-e-martello/466655/.
[32] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-partita-europea-tra-meloni-e-salvini-si-gioca-pure-in-polonia/463388/
[33] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-risultati-e-valutazioni-delle-elezioni-nazionali-in-svizzera/464763/.
[34] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-i-balcani-alla-prova-del-secolo-ventunesimo/467841/.
[35] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-funerale-di-re-giorgio/461097/.
[36] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-re-giorgio/461449/.
[37] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-giorgio-napolitano-due-volte-presidente/460711/.
[38] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-un-comunista-liberale-modernizzazione-senza-conflitto-e-senza-popolo/473687/.
[39] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-da-gramsci-a-napolitano-un-comunista-puo-essere-anche-un-riformista/461218/.
[40] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-8-settembre-80-anni-interrogativi/458833/.
[41] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-metterci-la-faccia/459357/.
[42] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-dalloperaismo-sociale-un-contributo-per-una-sinistra-del-mulino-digitale/461163/.
[43] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-parola-di-giorgia/465292/
[44] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-agcom-presentata-la-relazione-al-parlamento-2023/473682/.
[45] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-cento-anni-di-radiofonia-e-settantanni-di-tv-in-italia-i/470944/.
[46] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-cento-anni-di-radiofonia-e-settantanni-di-tv-in-italia-ii/471215/.
[47] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-cento-anni-di-radiofonia-e-settantanni-di-tv-in-italia-iii/472597/.
[48] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-chi-vuole-uccidere-il-servizio-pubblico-e-perche/473174/.
[49] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-taglio-del-canone-aumenta-la-dipendenza-dalle-scelte-del-governo/473677/.
[50] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-rai-come-parla-agli-utenti-digitali/463208/.
[51] Uscito su Key4biz il 17 ottobre 2023 con il titolo “Matteo Salvini ‘killer’ della Rai? Verso l’abolizione del canone, tutto a carico della fiscalità generale”. https://www.key4biz.it/matteo-salvini-killer-della-rai-verso-labolizione-del-canone-tutto-a-carico-della-fiscalita-generale/463468/.
[52] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-lanomalia-italiana-continua/469841/
[53] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-principio-di-indeterminazione-nel-web/459181/
[54] https://www.key4biz.it/per-una-politica-comune-europea-nel-campo-delle-tecnologie-dellinformazione-e-dellia-dal-dma-e-il-dsa-allai-act/457244/
[55] https://www.key4biz.it/gli-effetti-del-dsa-su-piattaforme-e-motori-di-ricerca/457305/
[56] https://www.key4biz.it/usa-cina-tech-war-sui-chip-biden-firma-52-miliardi-per-semiconduttori-le-strategie-dei-due-nemici/413581/
[57] https://www.key4biz.it/la-guerra-dei-chip-lue-non-potra-essere-autosufficiente-ma-neanche-la-cina/459403/
[58] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-biden-impone-ai-proprietari-delle-piattaforme-di-negoziare-lintelligenza-artificiale-con-utenti-e-lavoratori/473692/.
[59] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-come-scovare-i-falsi-nella-ricostruzione-e-interpretazione-dei-fatti-storici/469385/.
[60] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-25-luglio-8-settembre-1943-il-potere-esplode-come-una-bomba/461281/.
[61] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-l8-settembre-e-il-fascismo-che-non-abbiamo-capito/457213/.
[62] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-laltro-otto-settembre/467689/.
[63] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-amato-ha-inteso-colpire-la-prassi-della-doppia-verita-e-doppia-lealta/473714.
[64] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-10-febbraio-1953-la-nascita-delleni-come-bene-pubblico-sociale/458211/.
[65] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-gramsci-sraffa-e-lossessione-trotzkista-del-grande-terrore/463963/.
[66] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-cinema-italiano-ci-sara-il-miracolo-di-sangiuliano/467516/.
[67] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-pensieri-interrotti/473396/.
[68] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-lassassinio-dei-fratelli-rosselli/461964/.
[69] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-italo-calvino-il-colore-del-vuoto/459933/.
[70] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-prima-di-dolly-ce-diego/462870/.
[71] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-san-calogero-e-un-santo-nero/457889/.
[72] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-per-paolo-portoghesi-ovvero-come-in-uno-specchio/458720/.
[73] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-fairytale-2022-un-film-capolavoro-di-aleksandr-sokurov/459896/.
[74] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-giuliano-montaldo-e-le-sue-guerre/472848/.
[75] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-sul-lavoro-intellettuale-tra-opinione-pubblica-etica-della-responsabilita-e-passione-scientifica/461453/.
[76] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-jacques-julliard-uno-storico-inclassificabile/473722/.
[77] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-gianni-bisiach-un-anno-dopo/468764/.
[78] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-algoritmi/460032/.
[79] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-stazioni-spaziali-a-proposito-dellopera-di-roberto-giavarini/473730/