Glossario

Democrazia Futura. Platform society, ovvero società delle piattaforme

di Michele Sorice, Ordinario di Innovazione Democratica, Political Sociology e Sociologia della comunicazione alla LUISS di Roma |

Piattaforme: la parola chiave per capire il mondo in cui viviamo retto dai nuovi padroni del vapore della Rete.

Michele Sorice

Completa il primo fascicolo 2021 di Democrazia futura il Glossario, contenente “La parola chiave” per capire questo numero. Dopo la voce “Piattaforma” analizzata soprattutto da un punto di vista economico e di impresa da Giuseppe Richeri nel numero zero, non potevamo che proseguire che con due voci contigue: la prima oggi è “Società delle piattaforme” analizzata da un punto di vista sociologico e di comunicazione politica dal professor Michele Sorice  – che in qualche modo aggiorna e supera le vecchie definizioni di “Società dell’informazione” risalente alla seconda metà del Secolo scorso, o quella più recente andata affermandosi a cavallo fra due secoli e millenni di “Società della Rete” (Network Society). E’ il secondo lemma di una ideale Enciclopedia della comunicazione e della conoscenza che, a correzione parziale di quanto annunciato nel numero scorso vorremmo costruire a puntate in ogni numero della rivista.

Nel corso degli ultimi anni si è affermato il concetto di platform society, società delle piattaforme. L’espressione, per quanto efficace, è tuttavia ambigua dal momento che il termine piattaforma ha diversi significati, non sempre fra loro convergenti. Il concetto di piattaforma, infatti, è usato per indicare:

  1. Siti web ad alta complessità che offrono una pluralità di servizi, dalla relazione interindividuale a quella di gruppo fino a servizi di natura commerciale, come nel caso di Facebook e di altri social media o anche motori di ricerca che offrono un ecosistema complesso e articolato, come nel caso di Google; vengono spesso inseriti anche i siti che offrono servizi di food delivery e, in genere, tutti quelli che possono essere collocati nell’area del capitalismo digitale;
  2. Portali globali per l’e-commerce su un’ampia scala di prodotti (come Amazon, AliBaba, etc.) ma anche relativi a specifiche tipologie commerciali (come nel caso di portali di e-commerce di una specifica azienda). Quest’accezione è quella più usata, per esempio, nei documenti dell’Unione Europea nel decennio 2010-2019;
  3. Siti online approntati dalle amministrazioni pubbliche e rivolti ai cittadini sia come strumento informativo sia per la richiesta e consegna di documenti sia come spazi per la discussione e l’interlocuzione pubblica (come accade in alcuni casi di e-government e di consultazione);
  4. Siti online specializzati per la discussione, l’organizzazione di processi decisionali e l’attivazione di pratiche democratiche. Rientrano in questa categoria (in realtà suddividibile in altre sottocategorie) sia le piattaforme per la partecipazione democratica sia quelle di partiti politici. Nel primo caso si va da “piattaforme” proprietarie a quelle gestite da organizzazioni non-profit fino a quelle progettate specificamente per le pratiche di e-democracy sia in ambito locale sia nazionale. Nel secondo sotto-caso rientrano sia i siti di supporto alla vita politica dei partiti sia quelli che ne garantiscono la modalità organizzativa (in questo caso, infatti, si parla di partiti piattaforma o anche partiti digitali).

Questa pluralità di significati determina, com’è evidente, una certa confusione intorno all’uso del termine piattaforma. Al tempo stesso, però, evidenzia come il concetto di piattaforma – sebbene variamente declinato – sia diventato centrale nel dibattito sulla comunicazione e, più in generale, nel dibattito pubblico. Non è un caso, che alcuni studiosi abbiano espressamente parlato di un processo di platformization (letteralmente “piattaformizzazione”, termine brutto ma significativo) per indicare la centralità delle piattaforme digitali nella vita sociale contemporanea.

Le piattaforme non riflettono il sociale: producono le strutture sociali in cui viviamo, ci avvertono giustamente José van Dijck, Thomas Poell e Martijn de Waal in un libro, Platform Society, pubblicato nel 2016 in olandese, poi nel 2018 in edizione inglese e infine tradotto anche in italiano l’anno successivo (1) nel quale mettono in rilievo l’esistenza di un vero e proprio “ecosistema” di piattaforme, capace di modellare le pratiche quotidiane. L’ecosistema delle piattaforme si situa perfettamente nelle logiche del neoliberismo, così come il New Public Management aveva supportato tendenze alla commercializzazione della cittadinanza e alla diffusione egemonica del concetto di “stato leggero”.

Secondo Dal Yong Jin (2), esiste oggi un imperialismo delle piattaforme potenziato dallo sviluppo del capitalismo digitale. In effetti, la crescente integrazione di produzione, consumo, finanza, logistics e marketing trova la sua massima espressione proprio nelle piattaforme digitali contemporanee, in cui la cultura stessa diventa strumento per generare dati e contribuisce alla radicale trasformazione del lavoro digitale. L’imperialismo delle piattaforme, peraltro, si salda alla loro dimensione strutturale: la trasformazione dei dati degli utenti in valore costituisce infatti un meccanismo di accumulazione ma essa è spessa ridefinita ideologicamente in termini di condivisione (sharing), che tuttavia cela un processo di scambio fra soggetti con diseguale potere contrattuale.

Un portato pratico di tale ragionamento risiede nell’equivoco fra le finalità commerciali (legittime) delle piattaforme e il loro ruolo sociale come nuovo spazio di condivisione e proiezione della sfera pubblica. Ed eccoci così di fronte a un corto circuito logico: si chiede alle piattaforme di garantire il pluralismo e la democrazia dimenticando che esse sono prioritariamente aziende commerciali; al tempo stesso, però, esse si muovono come portatrici di una sorta di “ideologia” della partecipazione (per lo più limitata alla dimensione dell’accesso), della quale cercano di avere il monopolio; i cittadini si trovano così ad avere “spazi di libertà” che sono “concessi” e non realmente garantiti, senza che le istituzioni possano avere un ruolo specifico. Al tempo stesso, i soggetti politici legittimano il potere delle piattaforme, rendendole di fatto depositarie degli spazi di elaborazione del dibattito pubblico.

La “battaglia” fra Donald Trump e alcune piattaforme è stata emblematica. La discussione si è concentrata intorno al concetto di libertà e censura (usati a sproposito da molti commentatori, dal momento che le piattaforme si sono limitate a verificare la violazione dei loro “termini di servizio”, che un’impresa privata definisce autonomamente, e non hanno certo impedito a Trump di rilasciare interviste o parlare in piazza). Il problema semmai è che la politica ha delegato i suoi spazi di rappresentazione alle piattaforme.

Non solo filter bubbles

Lo sviluppo della società delle piattaforme determina diverse conseguenze. La prima è molto evidente: si pensi al fenomeno delle filter bubbles, cioè dalle dinamiche di polarizzazione determinate dall’uso di algoritmi che “filtrano” le informazioni e determinano la creazione di una sorta di “sub-ecosistema” digitale. Si tratta, cioè, di una proprietà strutturale definita dalle stesse regole di funzionamento della rete, da non confondere con le comunità omofiliche definite dal concetto di echo-chamber.Lo sviluppo di filter bubbles non è, ovviamente, un effetto dello sviluppo delle piattaforme ma vi è ovviamente connesso in maniera molto evidente. Le potenzialità “ideologiche” degli algoritmi che determinano la nascita e lo sviluppo di filter bubbles possono giocare un ruolo anche nei meccanismi informativi.

Una seconda conseguenza è di carattere teorico e concerne non solo l’accantonamento del concetto di società dell’informazione ma anche il sostanziale superamento sia della network society come teorizzata da Jan Van Djik (3) sia dalla connective society di cui avevano parlato Lee Rainie e Barry Wellman (4).

In questa prospettiva, la platform society, si colloca come momento più critico (e certamente meno ottimistico) delle teorizzazioni precedenti:  qui, infatti, il protagonismo attivo dei soggetti è limitato e la stessa socialità nelle piattaforme non è espressione di comportamenti sociali più o meno manifesti bensì l’esito dell’azione di orientamento delle affordances, cioè delle proprietà che un oggetto tecnologico possiede e che di fatto suggeriscono un uso possibile dell’oggetto stesso, orientando i soggetti proprio verso quello specifico uso. E seppure il “potere di orientamento” delle affordances non implica una relazione deterministica e non annulla il potere di agency dei soggetti, tuttavia le relazioni asimmetriche di potere fra i proprietaridelle piattaforme e i soggetti appaiono in tutta la loro evidenza. Tale asimmetria di potere, peraltro, costituisce una delle caratteristiche distintive del capitalismo digitale.

Una terza conseguenza strutturalmente connessa all’emersione della “società delle piattaforme” riguarda il processo di “piattaformizzazione” della sfera pubblica. A questo proposito diversi studiosi (fra cui chi scrive) hanno usato una definizione “di transizione”, ricorrendo al concetto di post-sfera pubblica. La post-sfera pubblica si colloca all’incrocio di diversi fenomeni, contraddistinti dall’uso – instabile e per definizione non normativo – del prefisso “post”: a) le tendenze post-rappresentative di cui ha parlato John Keane (5) e che evidenziano l’importanza degli ecosistemi comunicativi digitali nei processi di sviluppo delle forme di rappresentanza occasionale ma anche nell’emersione dell’apparente ossimoro concettuale della rappresentanza diretta; b) lo sviluppo del “post-politico”, concetto comunque ambiguo e per lo più connesso ai processi di depoliticizzazione; c) l’affermazione di una postdemocrazia (nella rivisitazione che Colin Crouch ha recentemente fatto (6) di quel concetto che lui stesso aveva utilizzato per la prima volta all’inizio del nuovo millennio (7) e che fa dei meccanismi di commodification della cittadinanza la sua caratteristica distintiva. La post-sfera pubblica costituisce anche l’esito disordinato della trasformazione della vecchia sfera pubblica della società di massa verso un insieme disorganico e frammentato di spazi pubblici fortemente polarizzati.

Neoliberismo e post-sfera pubblica

Le forme di concentrazione e le diseguaglianze di potere costituiscono di fatto una limitazione della sfera pubblica. Sia i populismi autoritari ri-emergenti sia il neoliberismo tendono da una parte all’unificazione (quasi all’omogeneizzazione) della sfera pubblica e dall’altra alla sua frammentazione. Unificazione e frammentazione sono qui dimensioni antitetiche che – nel nuovo capitalismo digitale – si sostengono reciprocamente, impedendo di fatto la nascita di una sfera pubblica plurale ma interconnessa.

La post sfera pubblica evidenzia la crisi della sfera pubblica borghese unitaria ma, al tempo stesso, non si muove verso la nascita di quella pluralità di sfere pubbliche coerenti e interconnesse sebbene in relazione dialettica, che potrebbero favorire la crescita di qualità della democrazia. La frammentazione delle esperienze (accentuata dai processi di piattaformizzazione sociale), si connette da una parte ai meccanismi di polarizzazione ideologica e dall’altra alle logiche di saturazione comunicativa. La post sfera pubblica piattaformizzataadotta le modalità discorsive del neoliberismo, si fonda su asimmetrie economiche, politiche e di potere culturale che tendono a parcellizzare la sfera pubblica, rendendola di fatto uno spazio di legittimazione del “pensiero unico” invece che un luogo simbolico di discussione e confronto.

La società delle piattaforme si rivela, quindi, come un’architettura organizzativa che si colloca nel solco della post-democrazia più che come esito della network/connective society. E non è solo la questione connessa al potere delle grandi imprese globali, da Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) a Natu (Netflix, Airbnb, Tesla, Uber) fino a Batx (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi). Il processo di piattaformizzazione è tanto più pericoloso quanto esso apre spazi a nuove forme di manipolazione e controllo (parole “vecchie” significativamente e prepotentemente ritornate nel dibattito pubblico e nella ricerca accademica). Scrivendo a proposito dell’opinione pubblica, Antonio Gramsci nel Quaderno VII faceva riferimento alla “lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento, in modo che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discorsi in un pulviscolo individuale e disorganico”(8). Impossibile non notare l’assonanza fra quel pulviscolo individuale e disorganico e i concetti attuali di frammentazione e parcellizzazione.

Note al testo

(1)José van Dijck, Thomas Poell, Martijn de Waal, De platformsamenleving. Strijd om publieke warden in een onliner wereld, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2016, 181 p. Edizione originale olandese liberamente scaricabile https://library.oapen.org/bitstream/id/07b2da80-d49a-4f24-b246-a2f04b4bffab/618753.pdf. Poi in edizione inglese: The platform society. Public values in a connective world, New York, Oxford University Press, 2018, X-226 p. Infine in edizione italiana a cura di Giovanni Boccia Artieri e Alberto Marinelli: Platform Society. Valori pubblici e società connessa, Milano, Guerini Scientifica, 2019, 335 p.

(2)Dal Yong Jin, Globalization and Media in the Digital Platform Age, London, Routledge, 2019, 180 p.

(3) Jan Van Dijk, De netwerkmaatschappij: sociale aspecten van nieuwe media, Houten, Bohn Stafleu Van Loghum, 1991, 260 p. Edizione Inglese: The Network Society, Social Aspects of New Media, London, Sage, 1999, 267 p. Traduzione italiana d Massimo Leone dall’edizione inglese. Sociologia dei nuovi media, Edizione italian a cura di Enrico Menduni, Bologna, Il Mulino, 2002, 319 p.

(4) Lee Rainie, Barry Wellman, Networked. The new social operating System, Cambridge, Cambridge university press, 2012, XIII-358. Traduzione italiana: Networked. Il nuovo Sistema operative sociale, a cura di Alberto Marinelli e Francesco Comunello, Milano, Guerini Scientifica, 2012, 439 p. 

(5) John Keane, Democracy and media decadence, Cambridge, Cambridge university press, 2013, VII-255 p.

(6) Colin Crouch, Combattere la post-democrazia, traduzione di Marco Cupellaro, Bari-Roma, Laterza, 2020, 196 p.  Poi in lingua originale: Postdemocracy. After the Crises, Cambridge-Medford Massachisetts, Polity Press, 2020, 187 p.

(7) Colin Crouch, Postdemocrazia, edizione italiana a cura di Cristiana Paternò, Roma-Bari, Laterza, 2004, 148 p. Poi in lingua originale: Post-democracy, Malden Massachusetts, Polity Press, 2004, XI-135 p.

(8)Antonio Gramsci, Quaderni dal Carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci in 4 volumi, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 2014, LXVIII-3370 p. Il passo citato è tratto dal Quaderno 7 che si trova nel secondo volume: 2. Quaderni 6-11 (1930-1933).

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