Maurizio Di Puolo, architetto, designer e fotografo docente al Politecnico di Milano in uno scritto, “Per Paolo Portoghesi…ovvero COME IN UNO SPECCHIO”, rievoca dell’amico quella che nell’occhiello definisce “Una vita con due Amori: l’Architettura e la Fotografia”. L’autore si sofferma su questo secondo amore: “Paolo Portoghesi sente, avverte, scopre la magia dello specchio e del vetro smerigliato – osserva di Puolo aggiungendo – tutto il mondo dell’Architettura, del Grande Barocco guardato con l’occhio nel pozzetto di una Rollei o di un’Hasselblad: 36 centimetri quadrati di FrancescoBorromini o di Guarino Guarini a lati invertiti: la destra è la sinistra e viceversa. A testa bassa appare un universo perfettamente reale ma rivoltato: un Metaverso si direbbe oggi e la macchina diventa uno strumento d’indagine come lo stetoscopio, come i raggi X, come il telescopio per Galileo Galilei o il microscopio olandese del 1590…Ogni scatto, ogni fotografia diventa una selezione dell’intero, della totalità della visione oculare: si scoprono cose NON invisibili ma NON GUARDATE…scriveva Le Corbusier su “L’Esprit Nouveau “Les Yeux q’on voit pas” gli occhi che non vedono più. Guardando le foto di Paolo – aggiunge di Puolo – e in special modo i densi bianconero di Roma Barocca (1966) e dell’insuperabile Borromini (1967) si riesce a comprendere quanto abbia giocato la macchina fotografica (in questo tipo di nuova indagine accoppiata a una ricerca culturale e scientifica di altissimo livello, alla comprensione di fenomeni architettonici e stilistici “dati per dato” e, in alcuni casi, addirittura in disgrazia. E questo vale per il Barocco, per il Rococò, per l’Art Nouveau, per l’arte Topiaria, per il Razionalismo Italiano virato purtroppo in Stile razionale con tutti i difetti del “cappotto rivoltato” in tempi di guerra…”.
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Cosa può legare un oscuro impiegato di banca, uno zio lungimirante, un architetto nevrotico che morirà suicida, una mente intelligente scevra di banalità e convinzioni, uno spirito da entomologo e darwiniano, una cultura revisionista e innovatrice, una impagabile sotterranea e belliana ironia…mettiamoci pure Johann Sebastian Bach, Gottfried Wilhelm von Leibniz, François-Xavier Fabre e un pizzico di Antony Gaudì…si potrebbe ancora aggiungere un ingegnere tedesco sofferente di asma e un signore svedese di nome Victor Hasselblad nonché l’impareggiabile coppia Franke und Heidicke … e una sogliola. Manca solo la classica “noce di burro” e il pasticcio è fatto.
Perché un pasticcio? E perché la passione di Portoghesi per le Erme bifronte come simbolo della doppiezza nella vita, doppiezza onesta e colta che giustifica una vita con due amori: l’Architettura e la Fotografia. Una con la solidità del travertino e l’antichità del tufo e l’altra con l’impalpabilità del riflesso in uno specchio…un oggetto a tutt’oggi misterioso, responsabile di conquiste e truffe nelle credute Indie, di capolavori del torbido professor Lewis Carroll[1], del perché inverta destra e sinistra e non alto e basso e anche del meschino trucco dei fotografi dell’Ottocento che stampavano le lastre al contrario per compiacere mariti o mogli che ri-conoscevano “sé stessi” soltanto come apparivano in uno specchio.
Tutto il mondo in una cornice quadrata di sei per sei, ovvero trentasei centimetri. Un problema per la Kodak che rimedia con cento foto quadrate
E la prima Rolleicord che Pier Paolo Portoghesi cominciò ad usare giovanissimo – dono o prestito dello zio lungimirante. – e le successive amatissime Hasselblad create dal grande Victor erano basate sulla visione su di uno specchio in una cornice quadrata di sei centimetri per sei centimetri: tutto il mondo in trentasei centimetri quadrati. La famosa “inquadratura” nata dalla pittura che qui si ripete. Per la gioia dei corniciai.
Sarà questo un problema per uno sconosciuto giovane bancario, George Eastman, in vena di “start up”, che il 4 settembre 1888 deposita ed ottiene il brevetto N°388.850 per una scatola che chiama Kodak: la prima macchina fotografica che non necessita di cavalletto, panno nero ed altre alchimie…
“You Press the Button, We Do the Rest”
fu lo slogan di lancio. Cento scatti e poi la macchina veniva spedita alla fabbrica e ritornava con un nuovo rullo e cento copie stampate di bimbi più o meno belli, ragazze in fiore e cani e gatti di razza incerta ... un successo grazie anche all‘United States Postal Service.
Un meccanismo perfetto ma le foto erano tonde: una logica istintiva di “buco tondo” e quindi “foto tonda” diametro sette centimetri: come l’orma di un fondo di bicchiere…
Purtroppo dal 1839, anno di nascita della Fotografia, il mondo si era abituato in quarantanove anni alle immagini su lastre di vetro rettangolari (ancora una memoria pittorica) e quelle foto tonde faticavano a farsi accettare: Eastman in fondo non aveva inventato niente ma aveva inventato un nuovo “strumento”: una scatola nera con un buco, senza mirino con soltanto incisa una grande V con angolo di 60 gradi sul dorso e un bottone da schiacciare…e l’inventore corse ai ripari con il modello Kodak 3, due anni dopo: cento foto ma quadrate. Fu il boom: l’unica raccomandazione era di “stringerla al petto” al momento dello scatto – una reminiscenza del violino serrato sotto la guancia dell’artista – e basta.
Dopo 124 anni finisce nel 2012 la fortuna della Kodak e con essa il “côté” magico della fotografia. Ma rimane l’opera di Portoghesi che riporta nell’ovile tante pecorelle smarrite
La fortuna mondiale della Kodak durerà per ben 124 anni fino al fatidico 2012 con il dilagare dello “Tsunami” digitale: quindi non più pampa e vacche argentine, carne Simmenthal e ossa per fare la gelatina per miliardi di chilometri di pellicole. Scomparve un mondo. E scomparve anche il “côté” magico della fotografia: l’attesa fra scatto e visione, la camera oscura, una certa chimica ancora alchemica … era stata la magia di far uscire un coniglio dal cilindro ma, cercare di farne uscire dieci, puzza di truffa e le foto col telefonino sventolato a ventaglio dall’alto degli “open deck” turistici ne sono la triste prova.
Paolo Portoghesi sente, avverte, scopre la magia dello specchio e del vetro smerigliato: tutto il mondo dell’Architettura, del Grande Barocco guardato con l’occhio nel pozzetto di una Rollei o di un‘Hasselblad: 36 centimetri quadrati di Francesco Borromini o di Guarino Guarini a lati invertiti: la destra è la sinistra e viceversa.
A testa bassa appare un universo perfettamente reale ma rivoltato: un Metaverso si direbbe oggi e la macchina diventa uno strumento d’indagine come lo stetoscopio, come i raggi X, come il telescopio per Galileo Galilei o il microscopio olandese del 1590…
Ogni scatto, ogni fotografia diventa una selezione dell’intero, della totalità della visione oculare: si scoprono cose NON invisibili ma NON GUARDATE…scriveva Le Corbusier su “L’Esprit Nouveau “Les Yeux q’on voit pas” gli occhi che non vedono più.
Guardando le foto di Paolo e in special modo i densi bianconero di Roma Barocca (1966) e dell’insuperabile Borromini (1967) si riesce a comprendere quanto abbia giocato la macchina fotografica (in questo tipo di nuova indagine accoppiata a una ricerca culturale e scientifica di altissimo livello, alla comprensione di fenomeni architettonici e stilistici “dati per dato” e, in alcuni casi, addirittura in disgrazia. E questo vale per il Barocco, per il Rococò, per l’Art Nouveau, per l’arte Topiaria, per il Razionalismo Italiano virato purtroppo in Stile razionale con tutti i difetti del “cappotto rivoltato” in tempi di guerra…
Portoghesi ha il grande merito di avere radunato e “guardato” finalmente tante pecorelle smarrite riportandole nell’ovile di tanti libri e tante foto alle quali ho l’orgoglio di avere dato il mio contributo in amicizia e comunanza di idee.
La passione per il Ticinese Borromini
La sua indubbia passione per Francesco Borromini arriva – nelle foto – ad una sorta di Transfert freudiano che gli permette lo smontaggio del meccanismo progettuale del Ticinese, ai ripensamenti bene evidenziati nei disegni superstiti all’Albertina di Vienna, allo scoprimento di segnali a doppio senso … una mano nevrotica, ipocondriaca, misantropa e forse misogina che come in una TAC viene salvata nelle foto di Paolo. Si svela un personaggio poco diplomatico che osa scrivere al Cardinale Camillo Pamphili
“…E se le dette cose appariranno al perfetto giudizio di Vostra Eminenza spropositi, ne incolpi sé medesimo in havere domandato parere ad uno spropositato come son’io”
e così si gioca il lavoro per il Casino del Bel Respiro a Villa Pamphilj che passerà ad Alessandro Algardi.
Un uomo, il Borromini, alla perenne ricerca della Luce e dei suoi effetti sulle membrature e le sinuose cornici proprio forse per le tenebre della sua mente…Luce negata che in una notte d’agosto lo porterà, per rabbia, a suicidarsi gettandosi sulla propria spada.
Il Bianco e Nero vero colore dell’Architettura
In questa chiave e in questa mostra l’Architetto/Fotografo Paolo Portoghesi dà il meglio di sé in settanta immagini di un burrascoso ma solare Bianco e Nero: il vero colore dell’Architettura. Sono la storia di un metodo, una lezione di stile. Si dimentica Henri Cartier-Bresson e il mito della Leica inventata da Oskar Barnack, si dimenticano i magici colori africani di Bruce Chatwin e i quattro granulosi fotogrammi salvati della Contax di Robert Capa nello sbarco in Normandia: un altro mondo…
Ma assolutamente per ragioni affettive mie e sicuramente di Paolo non posso (non possiamo) dimenticare due signori tedeschi Paul Franke e Reinhold Heidecke, una sorta di Gatto e Volpe della fotografia, che nel 1920 tagliano a metà una macchina stereo Heidoscop a tre obiettivi, buttano via quello centrale e girano in verticale gli altri due creando la gloriosa prima Rolleiflex...nient’altro che una migrazione degli occhi. Appunto, come nella sogliola.
E sarà proprio una Rollei la prima macchina di Paolo.
[1] Autore di Alice nel Paese delle meraviglie.