“Metti, un Pirandello in Consiglio dei Ministri (o al Pentagono, o al Cremlino). I pares e il primus, tutti in silenzio, mentre il Premio Nobel siciliano legge ad alta voce il suo Uno” di Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico, descrive con ironia e paradossale “Come rimasi erroneamente fulminato dal titolo di Uno, nessuno e centomila (1926)” “Quell’uno illimitato – il Vitangelo Moscarda di Luigi Pirandello chiarisce l’autore di questo pezzo scritto per Democrazia futura – improvvisamente, nella sua vita adulta, davanti allo specchio, in un giorno come un altro, vede un altro sé e, in una acquisizione inaspettata e immediata, capisce che egli si vede e si conosce diversamente da come lo vedono e conoscono sua moglie, il notaio, i suoi concittadini”.
Come rimasi erroneamente fulminato dal titolo di Uno, nessuno e centomila (1926)
Uno come l’animale, nessuno come Dio, centomila come gli uomini, perché l’animale è sempre uno, dio non è nessuno, un uomo è centomila uomini. Questa l’erronea fulminazione dal titolo; passando alla lettura, emerge invece che, più della distanza dalla semplicità dell’animale e dell’assenteismo di Dio, il problema è la moltiplicazione dell’io umano.
Ogni uomo è talmente tanti uomini da non sapere chi è: non si individua, non si riconosce, non si delimita, non si tiene. Questi centomila uno ne sono frustrati, indeboliti, immobilizzati in ogni loro azione.
Quell’uno illimitato – il Vitangelo Moscarda di Luigi Pirandello – improvvisamente, nella sua vita adulta, davanti allo specchio, in un giorno come un altro, vede un altro sé e, in una acquisizione inaspettata e immediata, capisce che egli si vede e si conosce diversamente da come lo vedono e conoscono sua moglie, il notaio, i suoi concittadini.
Prima di ogni parola, durante ogni movimento, il sospetto della inferma moltiplicazione lo coglie come un difetto, una imperfezione, un meteorite sul tetto di casa. Una casa in un paesino piccolo piccolo della Sicilia, luogo dove la filosofia attraversò e attraversa la vita in ogni istante, dove la speculazione del pensiero s’insediò con i greci dell’altro tempo, quello in cui la Grecia insegnò al mondo a vivere senza aver paura di dio, della morte, dell’inesattezza, della debolezza, della sconfitta.
Il protagonista è un banchiere: presta soldi a interesse. Ma vive in un piccolo paese della Sicilia e non a Bruxelles, quindi non potrebbe far fallire la Grecia e neanche un solo uomo che non paga i debiti.
Qualche giorno dopo aver capito che il suo naso è storto e non gradevole come lui aveva sempre creduto, altrettanto improvvisamente capisce cosa vuole e cosa non vuole dalla sua vita. Vuole essere – sente di essere o sa di voler diventare – l’opposto di sé. Vuole smettere di prestare soldi e regalare tutto ai poveri.
Ma questa decisione è talmente dall’altra parte del mondo e dell’io, che nessuno può capirla. Se il banchiere diventa totalmente estraneo a sé stesso, lo è ancor più ai suoi amici, colleghi e parenti. Non gli è permesso cambiare.
I suoi amici inorridiscono, sua moglie esce di casa, suo suocero lo dice pazzo.
Se in un primo momento Vitangelo è incerto, atterrito, nervoso, più tardi, isolato da questa moltiplicazione si intestardisce, corre contro il senso di marcia, contro il destino della sua famiglia, contro i suoi avi, contro le aspettative di tutti, poiché egli vuole diventare – non sembrare – un benefattore. Ma, se le persone a lui vicine ne perderebbero, i suoi concittadini neppure gli credono, perché – torniamoci – ognuno lo vede a modo proprio e nessuno com’è veramente. Egli è, dunque, centomila uomini soli.
In pochi romanzi la tesi è chiara, espressa, rimarcata come in questo testo di Luigi Pirandello.
A un certo punto, il nucleo della storia configura l’unica luce, la sola maledizione, la costante condanna di Moscarda – e del lettore: ogni uomo si fa una propria immagine di sé, che non corrisponde a quella che se ne fanno gli altri. Essendo gli altri una moltitudine, ogni uomo è molti uomini diversi. Dunque, non è nessuno. La tesi è reiterata più volte nelle pagine, sempre con maggiore insistenza e con più solide prove. Tanto che, a un certo punto, comincio a chiedermi anche io come appaio agli altri. Leggere Pirandello è moltiplicarsi, dunque ridursi; è acquisire una conoscenza, quindi meditare. È conoscersi, dunque odiarsi. È cercare quale immagine si sono fatti gli altri di noi, dunque sentirsi malsicuri. È sentire, dunque non dolcemente viversi. È fare domande a coloro dai quali non vogliamo le risposte:
“Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.”
Bisogna cercare un termine adatto a dare un nome alla vita dell’uomo di Pirandello. Lo troviamo per associazione, elaborandone uno di Pessoa: se il suo Bernardo Soares sdorme, il Moscarda di Pirandello svive:
“… non m’opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da ogni cosa mia, ma con l’orrore di rimanere comunque qualcuno …”.
Mi appare attuale in ogni tempo la riflessione pirandelliana, ma configura e richiede una umiltà che non abbiamo più. Una tenerezza verso noi stessi e verso il mondo, che non sappiamo più costruire. Soprattutto ora, quando siamo a un passo dalla fine e facciamo finta di niente.
Metti, una sera, in Consiglio dei Ministri, Pirandello che legge il suo Uno …
Quanto farebbe bene la lettura di questo piccolo romanzo sulla linea di un confine militarizzato, o dietro file di batterie missilistiche, o dentro un carro armato, o dentro un Pentagono o un Cremlino, o in un Consiglio dei Ministri! I pares e il primus tutti in silenzio, mentre il Premio Nobel siciliano legge ad alta voce il suo Uno, con il suo accento isolano e il suo tono ridicolmente da piazza Venezia, ché tanto i militaristi lo capirebbero eccome. E, forse, tacerebbero rendendosi conto, pagina dopo pagina, della loro debolezza, della loro mortalità, della loro mortiferità, del loro destino che consiste nello svilire il destino altrui. Oppure – che visione vertiginosa! – un’interferenza pirandelliana durante una telefonata intercontinentale, o un hackeraggio letterario alle linee internet, sulle quali, al posto dell’elenco degli armamenti da inviare nel teatro di guerra, vengono trasmesse queste parole da teatro interiore:
“Dico la pace. No, non temete non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua? Intendiamoci, per carità! Non rompiamo il nostro perfetto accordo. Io qua vedo soltanto, con licenza vostra, ciò che avverto in me in questo momento, un’immensa stupidità, che rende la vostra faccia, e certo anche la mia, di beati idioti, ma che noi pure attribuiamo alla terra e alle piante, le quali ci sembra che vivano per vivere, così soltanto come in questa stupidità possono vivere. Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sì, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensì per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia.”