Guido Barlozzetti inaugura la rubrica Voci perenni con un pezzo intitolato “L’oltre di Franco Battito” tracciando un “Ricordo a caldo del grande cantautore siciliano”. La sua è stata “Una lunga storia di musica e parole, ma anche di immagini perché la sua versatilità spaziò dalla canzone alla pittura al cinema, iniziata nei primi anni Settanta e sempre alimentata da un desiderio di non consistere, ma di spostarsi continuamente in una ricerca mai soddisfatta di sé”. In effetti, chiarisce Barlozzetti, “la sua capacità di tenere insieme una tensione personale di profonda riflessione filosofica e un contatto con il pubblico più largo […] Rispondevano a un bisogno di libertà/trasgressione, fatto di sonorità diverse da quelle del pop dominante e di testi che forzavano il perimetro della parola e giocavano sugli accostamenti paradossali svincolando il linguaggio dalle catene del senso, sull’onda di una voce sommessa, vibrante, profetica. Prospettiva Nevski in cui un giorno incontra Igor Stravinsky […] Battiato infrangeva barriere e apriva visioni, evocava e non diceva, spalancava campi all’immaginazione e lasciava scorrere le parole in uno switch-off paradossale e ininterrotto, con salti e sintesi fulminanti, non rinunciando mai a comunicare e a offrire semi per una percezione diversa, oltre la stabilità e la definizione delle cose e dei sentimenti inscatolati”. Il che porta il Maestro di Molo “a incrociare Karlheinz Stockhausen per poi continuare nella collaborazione con il violino di Giusto Pio”, ad incontrare un filosofo armeno come Georges Gurdjeff” e avviare “un lungo dialogo con Manlio Sgalambro, intellettuale anti-accademico ed eversivo, nichilista ed antisistematico, da cui tanta linfa era uscita per i testi delle sue canzoni”. “La coerenza di un viaggio gli va riconosciuta, mai appagata e vissuta in una distanza rispetto alle cerimonie e ai riti della società dello spettacolo di cui ha accettato la sfida disegnando una traiettoria tangenziale senza concessioni alle mode e agli stereotipi, semmai con il rischio inevitabile di diventare lui una moda e un giocoso ritornello” – conclude Barlozzetti rimpiangendone “la voce fragile e fidente”.
Il Maestro, lo chiamavano così, ci ha lasciato. A settantasei anni, a Milo, dove risiedeva in un ex convento alle pendici dell’Etna, nel territorio di Catania dove era nato.
Una lunga storia di musica e parole, ma anche di immagini perché la sua versatilità spaziò dalla canzone alla pittura al cinema, iniziata nei primi anni Settanta e sempre alimentata da un desiderio di non consistere, ma di spostarsi continuamente in una ricerca mai soddisfatta di sé.
Dire che sia stato un pezzo della nostra colonna sonora può sembrare riduttivo e un poco consumistico, e tuttavia coglie un aspetto fondamentale dell’artista, la sua capacità di tenere insieme una tensione personale di profonda riflessione filosofica e un contatto con il pubblico più largo. Album come L’era del cinghiale bianco e La voce del padrone hanno accompagnato gli anni Ottanta e di lì si sono iscritti nella nostra memoria.
Rispondevano a un bisogno di libertà/trasgressione, fatto di sonorità diverse da quelle del pop dominante e di testi che forzavano il perimetro della parola e giocavano sugli accostamenti paradossali svincolando il linguaggio dalle catene del senso, sull’onda di una voce sommessa, vibrante, profetica. Prospettiva Nevski in cui un giorno incontra Igor Stravinsky,
Cerco un centro di gravità permanente, Cuccurucucù, La stagione dell’amore, Voglio vederti danzare, No time no space, quel manifesto di liberazione del corpo e dello spirito che è La cura… Battiato infrangeva barriere e apriva visioni, evocava e non diceva, spalancava campi all’immaginazione e lasciava scorrere le parole in uno switch-off paradossale e ininterrotto, con salti e sintesi fulminanti, non rinunciando mai a comunicare e a offrire semi per una percezione diversa, oltre la stabilità e la definizione delle cose e dei sentimenti inscatolati.
A chi lo rimproverava di giocare con le parole e lo criticava per i suoi testi, rispondeva che non andavano letti ma ascoltati, non essendo la parola il contenitore di un senso dato, quanto piuttosto un segno da far proliferare nel corpo con cui si presenta, nella sua sonorità che va oltre e travalica le nostre abitudini.
D’altronde, la sua inesausta ricerca che lo aveva fatto iniziare dall’elettronica psichedelica di Fetus e Pollution e lo aveva portato a incrociare Karlheinz Stockhausen per poi continuare nella collaborazione con il violino di Giusto Pio, si era accompagnata a un percorso di meditazione che nel panorama italiano dei cantautori risulta del tutto singolare, o meglio declina la poeticità anticonformista in modi che dicono di un’eccentricità rispetto al centro di gravità “occidentale”.
Battiato aveva conosciuto Georges Gurdjeff, il filosofo armeno che vedeva la coscienza immersa in un sogno da cui deve uscire attraverso una meditazione trascendentale che attraverso passaggi successivi faccia raggiungere un livello di coscienza, oltre la quotidianità alienata. Così come aveva avviato un lungo dialogo con Manlio Sgalambro, intellettuale anti-accademico ed eversivo, nichilista ed antisistematico, da cui tanta linfa era uscita per i testi delle sue canzoni.
La coerenza di un viaggio gli va riconosciuta, mai appagata e vissuta in una distanza rispetto alle cerimonie e ai riti della società dello spettacolo di cui ha accettato la sfida disegnando una traiettoria tangenziale senza concessioni alle mode e agli stereotipi, semmai con il rischio inevitabile di diventare lui una moda e un giocoso ritornello. Rischio consustanziale alla condizione di qualunque artista di questa modernità, preso nel cerchio onnivoro della televisione, che nel suo caso trovò una resistenza e una capacità di non banalizzarsi mai e di proseguire nel tragitto della scoperta e di una coerente messa in discussione di sé.
Scorrendo i commenti, abbondano i riconoscimenti, “genio della musica italiana ”, “l’eterno enigma di un maestro senza confini”, “filosofo del pop e maestro della contaminazione”, “il filosofo della musica italiana”, “compositore che unì il pop e la musica colta”.
Viene da pensare all’ironia con cui li avrebbe accolti, lui che se un senso ha la sua ricerca combatté sempre per inseguire quell’oltre rispetto alle formule, alle definizioni, alle comodità del senso comune.
Nella sua visione era convinto della reincarnazione dell’anima. L’ultimo brano, del 2019, registrato con la Royal Philarmonic Orchestra, si intitola Torneremo ancora. “Nulla si crea, tutto si trasforma …, cittadini del mondo cercano una terra senza confini … la vita non finisce è come il sogno, la nascita è come un risveglio”.
Ne ascolto la voce fragile e fidente.