Piero De Chiara nel suo pezzo “L’illusione della rete unica e la posssibilità do creare domanda aggregata” invita ad “Affrontare i veri problemi della digitalizzazione in Italia con una strategia della domanda, non dell’offerta. “La copertura della banda larga fissa, comprendendo quindi l’ADSL che usa cavi in rame nell’ultimo miglio, è quasi universale e allineata con i migliori paesi europei, ma il 40 per cento delle famiglie italiane non è abbonato a nessun servizio a banda larga. Il 19 per cento degli italiani non ha mai usato internet in vita sua”. Per De Chiara “Nel breve periodo si può invece integrare la domanda privata delle famiglie, in ritardo cronico e forse strutturale, con domanda aggregata costruita intorno ad alcune iniziative di politica industriale su cui l’Italia ha la possibilità di essere tra le economie più avanzate e innovative”.De Chiara considera che “In funzione di queste scelte di politica industriale e della conseguente domanda attesa, vanno disegnate anche l’offerta e le architetture di rete, che non si riducono a mobile e fisso FTTC e FTTH in download, ma comprendono anche l’upload, la banda su domanda, gli slice per servizi verticali e l’orchestrazione delle priorità e dei tempi di latenza. Conta poco se la rete è unica o in concorrenza, se la proprietà della rete è privata o pubblica; ma il ruolo dell’intervento pubblico è comunque decisivo perché le politiche industriali da sole non avvengono”. Peraltro “L’infrastruttura di rete non è sufficiente per il rilancio delle telecomunicazioni. Servono campioni europei Per riequilibrare i rapporti di forza non bastano i campioni nazionali. Servono – conclude De Chiara – campioni europei, supportati da un potere politico più forte di quello ciascuno stato membro e capace di imporre nuove regole. … Non c’è solo la privacy e l’intelligenza artificiale, sulle quali l’Unione europea si sta muovendo. Come abbiamo visto, I due benemeriti principi del servizio universale e della neutralità della rete andranno ripensati e integrati con la parità di accesso ai dati (e di imposizione fiscale)”.
La disputa sulla rete unica rischia di creare falsi obiettivi e di offuscare i veri problemi della digitalizzazione del paese, che sono sul versante della domanda più che su quelli dell’offerta e quindi sono più difficili da affrontare e da risolvere.
L’indice di digitalizzazione dell’economia e della società che l’Unione europea pubblica annualmente colloca anche nel 2020 l’Italia al quart’ultimo posto; ma l’unico indicatore in linea con la media europea è proprio quello della connettività. La copertura della banda larga fissa, comprendendo quindi l’ADSL che usa cavi in rame nell’ultimo miglio, è quasi universale e allineata con i migliori paesi europei, ma il 40 per cento delle famiglie italiane non è abbonato a nessun servizio a banda larga. Il 19 per cento degli italiani non ha mai usato internet in vita sua. È quindi un’illusione l’idea di ricomporre questa impressionante spaccatura sociale, doppia rispetto alle medie europee, solo con una strategia dell’offerta di banda larga veloce e ultraveloce in fibra, sulla quale il nuovo governo promette di arrivare con quattro anni di anticipo rispetto agli obiettivi del 2030 Digital Compass dell’Unione europea.
Purtroppo non esiste una scorciatoia societaria o tecnologica o normativa a un problema economico e sociale complesso, che l’evoluzione tecnologica rischia anzi di aggravare.
In epoca telefonica il principio del servizio universale ha funzionato molto bene, rispettando la legge di Metcalfe, che afferma che l’utilità (che genera la domanda) e il valore (cioè il corrispettivo dell’investimento) di una rete sono proporzionali al quadrato degli utenti. Questo principio si è incrinato con l’internet a banda larga, quando, grazie anche al principio della neutralità della rete, utilità e valore si sono trasferiti sopra la rete (Over The Top). Tra pochi anni, quando le differenti qualità del servizio di rete si rifletteranno dapprima sui prezzi di abbonamento e poi si diffonderanno modelli di acquisto di banda e di priorità su domanda, entrambi questi benemeriti principi di servizio universale e net neutrality saranno inapplicabili nell’accesso alla rete e aumenteranno le differenze sociali anche tra quel 44 per cento degli italiani (a fronte del 57 per cento media UE) che hanno competenze digitali di base sufficienti per l’uso di internet.
Per impostare una strategia della domanda occorre quindi interrogarsi sui motivi della debolezza della domanda da parte delle famiglie e delle imprese italiane e poi impostare politiche industriali coerenti con gli spazi competitivi consentiti dall’evoluzione tecnologica e dei mercati. La debolezza di domanda delle famiglie non trova spiegazioni sufficienti con fattori quali la più alta età media, la propensione all’uso del mobile, la scolarizzazione, l’orografia. Anche ammesso che le lievi correlazioni siano anche cause, non giustificano l’ampiezza del divario. Persino il reddito non spiega una classifica che ci vede dietro al Portogallo, alla Romania e alla Slovacchia. Quindi neanche i voucher per le famiglie meno abbienti, pur doverosi, ricuciranno questa frattura.
C’è quindi un problema profondo nella domanda privata italiana, correlato con comportamenti radicati e difficilmente modificabili nel breve periodo, quali il maggior affidamento alle relazioni familiari, la propensione al risparmio e la preferenza per altri consumi. Qualcuno ha scritto che il passaggio del calcio dal satellite alla rete, costituirà la spinta decisiva per la domanda di connessione; ma via! anche sorvolando sul fatto che per gli eventi in diretta con pubblico di massa il broadcasting è tecnicamente più efficiente dell’unicasting, stiamo parlando di appena un milione e mezzo di abbonati Sky, quasi tutti già abbonati alla banda larga. Non è stata Netflix e tanto meno sarà Dazn a regalarci la scorciatoia per incrementare la domanda delle famiglie.
Nel breve periodo si può invece integrare la domanda privata delle famiglie, in ritardo cronico e forse strutturale, con domanda aggregata costruita intorno ad alcune iniziative di politica industriale su cui l’Italia ha la possibilità di essere tra le economie più avanzate e innovative. Perché nella nuova divisione internazionale del lavoro, oltre a inseguire i ritardi, oltre a restare fornitori di filiere dirette da altri paesi (come il Nordest riesce a fare con la meccanica tedesca), occorre coordinare e concentrare ricerca, sviluppo, investimenti e incentivi pubblici su alcuni settori in crescita, tecnologicamente dinamici e in cui si ha la possibilità, anche per le specificità nazionali, di diventare protagonisti se non leader mondiali.
Attualmente (aprile 2021) nelle capitalizzazioni nella borsa americana il valore dei beni immateriali, quali marchi, brevetti o dati è il quadruplo di quello dei beni materiali, quali immobili e macchinari; appena qualche decennio fa era un quarto. I mercati finanziari europei e asiatici seguono la stessa tendenza, perché solo questa inversione di peso tra valori immateriali e materiali consente di tutelare risparmio e pensioni e di svincolare l’aumento della ricchezza dai beni non rinnovabili. Internet ha svolto un ruolo di catalizzatore e, a partire dallo scoppio della bolla dot-com del 2000 e poi dei subprime del 2008, di concentratore di ricchezza in poche imprese e in poche aree geografiche del mondo.
La triplice mossa difensiva europea
In questo contesto L’Europa si è mossa prevalentemente in tre direzioni, necessarie ma non sufficienti: 1) una regolamentazione a tutela dei consumatori e dei loro dati sensibili; 2) un recupero di risorse fiscali sottratte dai giganti internet; 3) un aumento di produttività importando innovazione in settori forti quali l’automotive tedesco o la logistica e GDO francese. Si tratta di mosse difensive che possono aver successo solo se accompagnate da ricerca, sviluppo e politiche industriali che creino innovazione autonoma, perché lo spostamento della ricchezza sui beni immateriali e la sua concentrazione in poche imprese, rendono problematiche sia le politiche fiscali, sia la negoziazione dei valori dei brevetti e dei dati.
A maggior ragione in Italia, dove a partire dagli anni Ottanta non si è registrato neanche l’incremento di produttività, è ormai illusorio inseguire il vecchio modello di crescita del cosiddetto catch-up, fondato sulla adozione di tecnologie straniere e sulla crescita della spesa pubblica.
Per acchiappare la nuova fase si tratta invece di intuire quali delle tecnologie emergenti possono essere sviluppate localmente e concentrare su di esse ricerca, sviluppo e incentivi al trasferimento tecnologico alle imprese, in particolare a quelle piccole e medie e alle start-up. Con l’avverbio “localmente” si intende non solo il livello nazionale, ma anche quello comunale o europeo, quando le economie di scala lo consentono o lo impongono.
In funzione di queste scelte di politica industriale e della conseguente domanda attesa, vanno disegnate anche l’offerta e le architetture di rete, che non si riducono a mobile e fisso FTTC e FTTH in download, ma comprendono anche l’upload, la banda su domanda, gli slice per servizi verticali e l’orchestrazione delle priorità e dei tempi di latenza. Conta poco se la rete è unica o in concorrenza, se la proprietà della rete è privata o pubblica; ma il ruolo dell’intervento pubblico è comunque decisivo perché le politiche industriali da sole non avvengono.
Internet delle cose, edge computing e intelligenza artificiale
Per spiegare come nel nuovo contesto tecnologico il pubblico possa creare domanda pubblica e soprattutto orientare la domanda privata, accenno a quattro esempi relativi all’Italia, basati sui prossimi sviluppi dell’internet delle cose, dell’edge computing e dell’intelligenza artificiale.
- Il monitoraggio e la cura del patrimonio idrico, geologico e viario. Nel prossimo decennio il patrimonio di dati e di potenza di calcolo, che oggi è concentrato in enormi server centrali, sarà invece distribuito sul territorio. Si parla molto di intelligenza artificiale applicata alla mobilità autonoma o assistita, su cui Stati Uniti, Giappone, Cina e Germania stanno investendo cifre per noi irraggiungibili. Ma miliardi di sensori saranno distribuiti e messi in rete anche per monitorare, studiare e curare il territorio, le faglie acquifere, gli acquedotti, le strade e i ponti. In questo settore ricerca, sviluppo e investimenti sono molto più acerbe e l’Italia è un laboratorio straordinario, per la sua conformazione e, purtroppo, fragilità e dissesto.
La maggior parte di questi sensori e sistemi trasmittenti saranno collocati su suolo pubblico e autorizzati dagli enti locali, ciò che apre anche una occasione per prevedere l’accessibilità dei dati generati per qualsiasi utilizzo di pubblico interesse.
- L’agricoltura di precisione. Qui la ricerca mondiale si è concentrata su soluzioni per coltivazioni intensive e allevamenti di grandi proporzioni, con costi per i diritti di proprietà intellettuale che mal si adattano alla nostra struttura molto frammentata, orientata all’ortofrutticolo e ben distribuita tra nord, centro e sud. La messa in rete dei sensori e dei diffusori di acqua e fertilizzanti cambia il paradigma di questo settore e può produrre soluzioni sostenibili, adatte alla imprenditoria italiana ed esportabili nel mondo.
- I luoghi del lavoro di ufficio. Il Forum Disuguaglianze e Diversità e il Centro per la Riforma dello Stato hanno avanzato una proposta di Officine territoriali (1), ripresa da alcuni Comuni, Camere del lavoro e associazioni di cittadinanza attiva. Non c’è solo l’alternativa tra il lavoro da casa o il ritorno nel vecchio ufficio con ore di pendolarismo. Lo slogan della città in quindici minuti, non significa solo negozi, servizi e luoghi di svago raggiungibili a piedi o in bicicletta, ma anche luoghi per lavorare aperti a lavoratori dipendenti pubblici e privati e a lavoratori autonomi e nomadi. In passato l’Italia ha inventato architetture del lavoro che poi sono stati studiati e adottati all’estero. Senza andare troppo in là nel tempo, si pensi al dibattito mondiale sui distretti industriali italiani, fondati su relazioni territoriali forti, più efficienti dei modelli individualizzati o centralizzati. Oggi è possibile pensare un modello molto più granulare e dotato di reti di telecomunicazione facilmente scalabili. In un decennio la Commissione dell’Unione europea ha fissato obiettivi passando da 8 mega, a 30 a 100 e ora parla di Gigabyte. Il servizio universale non sarà mai uguale per tutti nelle case private; ma deve esserlo in un luogo vicino alla propria abitazione e dotato di connettività anche in upload sufficiente per qualsiasi esigenza futura. Su questo tema il PNRR imposta per ora solo il filone della medicina territoriale, che è per ovvie ragioni il tema oggi più sentito.
- Il lavoro creativo. L’Italia non è solo il principale giacimento di beni culturali del mondo, ma anche di mestieri che con grandi difficoltà si raccordano con le nuove piattaforme di distribuzione dell’industria creativa. Più che una nostra piattaforma distributiva – possibile solo a livello europeo (2) – occorrono reti di comunicazione che connettano con la massima qualità le nostre maestranze con i nuovi modi di produzione e post-produzione dell’industria dell’immaginario. Si pensi non solo alla risoluzione di immagine e sonoro, ma anche alle stampanti 3D per costumi e scenografie.
Si possono approfondire questi esempi o proporne altri, basati sui prossimi sviluppi di altre tecnologie emergenti. Non si può invece illudersi che una strategia della offerta di connettività da sola ci porti a essere competitivi e a costruire nuovi posti di lavoro.
L’infrastruttura di rete non è sufficiente per il rilancio delle telecomunicazioni. Servono campioni europei
Affidarsi a una strategia dell’offerta di infrastrutture ripete una vecchia idea del ruolo dell’intervento pubblico perché difende meglio nell’immediato gli stakeholder e questo spiega la passione per la rete unica di partiti, sindacati e soprattutto degli azionisti delle società di telecomunicazione.
Dal punto di vista della impresa incumbent della rete fissa l’Italia è solo in parte un caso speciale: in venti anni Telecom Italia ha cambiato sette volte proprietà con cordate via via guidate da Fiat, Olivetti, Pirelli, banche, spagnoli, francesi, americani. In questo arco di tempo il debito ha superato di una volta e mezzo il fatturato, i dipendenti da 120 mila ridotti a 50 mila, i dividendi alti nel primo decennio, poi scesi fino ad annullarsi.
Ma le aziende di telecomunicazioni perdono ricavi, valore e dipendenti in tutta Europa.
I consumatori non sono disposti a pagare di più per la connessione, ma sono disposti a pagare per i contenuti e i servizi che viaggiano “sopra la rete”; e quel che più conta, sono disposti a concedere i dati generati dai loro comportamenti, grazie ai quali gli Over The Top si allargano in tutti i mercati. Ormai nessuna società di telecomunicazione europea, neanche Deutsche Telekom, Orange e Telefonica, ha la forza per negoziare con i grandi OTT e per competere con loro in ricerca e sviluppo.
Per riequilibrare i rapporti di forza non bastano i campioni nazionali. Servono campioni europei, supportati da un potere politico più forte di quello ciascuno stato membro e capace di imporre nuove regole.
Non c’è solo la privacy e l’intelligenza artificiale, sulle quali l’Unione europea si sta muovendo. Come abbiamo visto, I due benemeriti principi del servizio universale e della neutralità della rete andranno ripensati e integrati con la parità di accesso ai dati (e di imposizione fiscale). Ma questa è la vera pecca dei paesi membri dell’Unione europea, che si sono attardati a difendere presunti campioni nazionali regalando il dominio nella ricerca e una prateria di preziosi dati che gli OTT hanno conquistato senza contropartite.
Note a fine testo
(1) Officine municipali: un posto per il lavoro da remoto, la nuova forma comune dei lavori” in Forum disuguaglianze diversità: 15 proposte per la giustizia sociale. Cfr. https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/?s=officine.
(2) Piero De Chiara, Un modello Ginevra per l’industria creativa europea. Guardare oltre il monopsonio delle piattaforme OTT”, Democrazia futura, I (1), gennaio-marzo 2021, pp. 165-170. Cfr. https://www.key4biz.it/democrazia-futura-un-modello-ginevra-per-lindustria-creativa-europea/353876/.