Per Massimo De Angelis “le prime mosse di Joe Biden in politica estera […] non sono convincenti”. In un pezzo contro corrente scritto per il secondo numero di Democrazia futura, dichiara di non ritenere “L’ideologia democratica americana” una garanzia di stabilità nello scacchiere internazionale date “Le debolezze della diplomazia statunitense nelle presidenze democratiche da Carter a Biden” descrivendo quelli che a suo parere sono “i rischi per le relazioni internazionali” chiedendosi: “ giova davvero all’Europa la politica di conflittualità permanente con la Russia? Giova una politica di destabilizzazione del Medio Oriente specie nell’area del mediterraneo?” Da anni sta andando avanti una politica soft di dittatura del pensiero unico. Una battaglia culturale totalitaria che veste i panni dell’illuminismo […] E’ un vento che comincia a soffiare anche in Europa. E’ un processo potentemente influenzato dai grandi gruppi digitali, Google, Facebook, Amazon, Apple, tutti portatori di un pensiero unico in quanto in nome della tolleranza vuole in modo assolutamente intollerante eliminare dalla scena pubblica ogni diverso parere e scardinare ogni principio di differenza tra persone e popoli”. Dietro alle “guerre culturali politicamente corrette” si nasconderebbeil nuovo maccartismo liberal: La stessa “battaglia per i diritti umani – sempre secondo De Angelis – ha cambiato segno e significato. Da impegno universale per il rispetto della dignità umana al di là dei diversi ordinamenti istituzionali e delle diverse sensibilità culturali e religiose è diventato una clava ideologica per colpire regimi diversi da quelli occidentali in nome di un ordine unico.
Sono solo le prime mosse di Joe Biden in politica estera. Ma non sono convincenti. La più clamorosa è quella degli insulti a Vladimir Putin. Era facile attendersi un rincrudimento dei rapporti con la Russia. Ricordiamoci le dure polemiche di Barach Obama sul tema omosessuali – Olimpiadi a Sochi e Mosca. Poi c’è stata la lunga polemica dei democratici sul Russiagate culminata con la richiesta di impeachment per Donald Trump. Ora l’epiteto di “assassino” affibbiato tra il lusco e il brusco da Biden al suo omologo. In proposito occorre tener presente che l’antipatia dei democrats per Putin è di lunga data. Anche ben oltre la fine della guerra fredda, essi sono sempre stati assai ostili a Mosca. Assai più che verso la Cina.
Lasciamo stare la guerra in Vietnam. Zbigniew Brzezinski, all’epoca di Jimmy Carter, arrivò a rispolverare l’antica teoria geopolitica secondo cui chi controlla il Caucaso controlla il mondo. Un’ossessione che avrebbe dovuto avere come conseguenza la disarticolazione dello Stato allora sovietico. Alla luce di tutto ciò non sorprende affatto che, subito dopo la nomina di Biden, sia di nuovo giunta al diapason la tensione tra Ucraina e Russia, con la prima prontamente incoraggiata e spalleggiata da Biden che minaccia interventi militari nell’area. Staremo a vedere.
Passiamo a un altro scacchiere da sempre delicato: quello mediorientale. Gli esiti amari della seconda guerra irakena avevano provocato la crescita di peso delle componenti sciite in quel Paese e nell’area, sino alla Siria e al Libano, e il connesso aumento di peso strategico dell’Iran. Insieme era cresciuto il radicalismo dello Stato islamico, ufficialmente salafita ma in realtà un confuso coacervo di forze radicali e terroriste anche sciite. Tale contesto aveva indotto Obama a una politica di “attendismo ostile” nei confronti dell’Isis e a un appeasement con L’Iran che ha prodotto infine l’allarme acuto di Israele e dei Paesi arabi sunniti del Medio Oriente.
I democratici avevano pensato di controbilanciare tale passività sul lato orientale del quadrante soffiando sul fuoco delle primavere arabe nel quadrante occidentale. Tutta l’area mediterranea è stata così terremotata, a partire dalla Libia (con il concorso qui di due “giganti” del pensiero e dell’azione europei come David Cameron e Nicolas Sarkozy e col protagonismo dello stesso Biden), ed è ancora lungi dall’essersi ripresa.
Trump, durante la sua presidenza, ha cercato con un certo successo di riportare equilibrio sul quadrante orientale riallacciando buoni rapporti con i tradizionali amici della penisola arabica: Arabia saudita, Emirati arabi e Giordania, isolando per converso l’Iran, punendo con la massima severità i suoi esponenti di punta terroristici, e contenendo la Turchia da una parte e la Siria dall’altra. Non ha fatto molto sul quadrante occidentale forse per stanare l’accidia europea e così lì, perdurando il nostro torpore, Russia e Turchia hanno aumentato la loro influenza.
Ora Biden non si è ancora mosso sullo scacchiere occidentale (è da attendersi qualche nuova sortita anti-siriana – anche in funzione anti-russa) ma su quello orientale ha teso la mano all’Iran dando subito un pugno in faccia alla leadership dell’Arabia saudita. Non un inizio tranquillizzante davvero. Tra l’altro Biden fa finta di non vedere gli accordi economici ma anche strategici in corso tra Cina e Iran che tra non molto potrebbero vedere la Cina affacciarsi, con impegni militari, non più solo in Africa ma nel delicatissimo Medio Oriente.
Già, la Cina, si diceva. Il terzo fronte della politica estera americana. C’è stato un primo summit che nessuno ha capito come è andato. Si vedrà dunque. L’impressione netta è che questa sia la cartina di tornasole di una tendenza di lungo periodo della politica estera dei democratici americani. Già dalla presidenza di Bill Clinton essi hanno dato l’impressione che per loro l’uscita dall’epoca dei blocchi significasse una cosa: promuovere un unipolarismo americano politico e strategico che prevedeva un solo interlocutore e un solo bilanciamento possibile: quello cinese in ambito commerciale e finanziario (vedi gli accordi sul Wto). Su questo asse credo si regga e si chiarisca tutta l’impalcatura della politica estera dei democratici americani, alla quale sono subordinate anche le mosse sugli altri scacchieri.
Con un grande problema però. La Cina dai tempi di Clinton è molto cresciuta economicamente, tecnologicamente e finanziariamente, mettendo in discussione il primato americano. Ma il fatto è che essa è ormai strategicamente presente in modo anche aggressivo nel Pacifico, nei rapporti con Taiwan e, come si diceva, si è stanziata in Africa e a breve si affaccerà via Iran in Medio Oriente. Su questo dunque è destinata a giocarsi la politica estera di Joe Biden e non so quanto l’Occidente nel suo insieme possa stare tranquillo.
Già. L’Occidente. Il tema chiama necessariamente in causa l’Europa. Priva di una politica estera e militare, da molto tempo l’Europa è una nave senza nocchiero in gran tempesta. Abbiamo confidato sempre più flebilmente sulla Nato e sul grande amico americano che, per carità, sinora ci ha evitato il peggio. Se però diamo un’occhiata alle mosse della politica estera americana possiamo chiederci: giova davvero all’Europa la politica di conflittualità permanente con la Russia? Giova una politica di destabilizzazione del Medio Oriente specie nell’area del mediterraneo? Se guardiamo i confini esterni dell’Europa, essi dal Marocco a Donetsk sono una cintura sempre più di fuoco che ci circonda, al punto che se gli Usa non fossero grandi amici potrebbe venire il sospetto che seguano un metodo per noi infausto. La stessa spartizione del mondo con la Cina che, bene o male, gli Stati Uniti sembrano perseguire, non va a nostro favore. O almeno non è automaticamente a nostro favore.
Tutto ciò serve a dire che se, dopo la presidenza Trump, l’Europa ha intonato lo scampato pericolo avviando la retorica delle sponde dell’Atlantico più vicine, ho l’impressione che ciò avvenga mentre essa, come un grande tacchino, rischia di finire dalla padella dritta dritta nella brace. Senza politica estera e militare del resto (e con in più una grande dipendenza energetica che nessuna politica green può anche solo significativamente attenuare), come potremo cavarcela con una Russia incattivita, con un Medio Oriente sempre più destabilizzato, percorso da crescenti migrazioni e influenzato da Russia e Turchia? Sì certo, possiamo dare anche noi dell’assassino a Putin, del dittatore a Recep Tayyip Erdogan e magari del fascista ad Abdel Fattahal-Sisi. Ma poi?
E anche con la Cina, con la quale è ovvio si debba dialogare e trattare: senza unione politica, senza difesa e politica estera, con le nostre regole troppo astrattamente mercatiste non rischiamo di essere troppo deboli e di finir presi tra Usa e Cina come tra due braccia di una stessa tenaglia? Siamo rimasti per oltre un ventennio assolutamente immobili, prigionieri di un infondato e un po’ spocchioso autocompiacimento bacchettando chi non tesseva le lodi della nostra grande Unione europea e oggi scopriamo che questa unione è troppo debole, fragile, piccola. Ma dell’Europa sarà bene parlare dopo le prossime elezioni in Germania (settembre 2021). Tra questa data e quella delle presidenziali francesi dell’anno dopo si deciderà quasi tutto.
Il nuovo maccartismo liberal dietro alle “guerre culturali” politicamente corrette
Non si può però chiudere tale disamina sulle prospettive della politica estera dell’America di Biden senza toccare un argomento solo apparentemente di politica interna. Su tale fronte è presto per dare giudizi e alcune iniziative (tassazione dei grandi gruppi e rilancio infrastrutturale del Paese) sembrano peraltro andare nella giusta direzione. Non va però sottovalutato il fatto che i democratici hanno voluto tenere sotto la scure di due impeachment il Presidente in carica per quattro anni. Non era mai avvenuto. La conseguenza è stata una radicalizzazione inaudita nel corpo civile statunitense sino alle soglie della guerra civile. Non solo.
E’ anche evidente che, per la vittoria elettorale democratica, oltre al fattore Covid è stata decisiva la rivolta degli afroamericani. La protesta è partita da una motivazione sacrosanta. Ed affonda le radici su una questione (quella della discriminazione degli afroamericani) mai seriamente affrontata da nessuna presidenza, democratica o repubblicana che fosse. In questo caso, però, essa è stata amplificata e strumentalizzata dai democratici portando alla cosiddetta “culture war”. Una guerra del tutto antistorica contro tutti i monumenti, contro tutti i libri e contro tutte le personalità storiche non in grado di passare l’esame della politically correctness. Non parliamo di Friedrich Nietzsche o di Richard Wagner, ma di Wolfgang Amadeus Mozart e di Dante Alighieri che dovrebbero essere bannati dalla cultura occidentale. Una guerra che non si combatte certo solo nelle piazze ma in tutti i principali campus, case editrici e giornali, andando a colpire per reato di opinione tanti docenti che non si piegano alla dittatura del pensiero unico. Una battaglia ottusa e oscurantista che si vuole però rappresentare come illuminista.
Che cosa c’entra tutto ciò col nostro ragionamento? C’entra e c’entra molto. Dietro questa spinta a radicalizzare ideologicamente lo scontro da parte dei democratici c’è un metodo e c’è uno scopo. Da anni sta andando avanti una politica soft di dittatura del pensiero unico. Una battaglia culturale totalitaria che veste i panni dell’illuminismo. Ma del resto già Theodor Wiesengrund Adorno aveva ben visto i germi totalitari del pensiero illuminista.
Gli ultimi tempi hanno visto un salto di qualità. In un’America sempre più divisa culturalmente perché sempre più fragile nelle proprie fondamenta ideali, sta sorgendo una sorta di maccartismo liberal.
E’ un vento che comincia a soffiare anche in Europa. E’ un processo potentemente influenzato dai grandi gruppi digitali, Google, Facebook, Amazon, Apple, tutti portatori di un pensiero unico in quanto in nome della tolleranza vuole in modo assolutamente intollerante eliminare dalla scena pubblica ogni diverso parere e scardinare ogni principio di differenza tra persone e popoli.
Intendiamoci. Qui non si tratta solo di idee. A partire dal 2001 è nato e poi con la presidenza Obama è potentemente cresciuto quello che si può definire apparato militar industriale (un triangolo tra poteri digitali-Pentagono-Cia che ha come referente politico il partito democratico). Un apparato che programma sviluppi non solo economici ma civili e strategici e che ha scelto il terreno del condizionamento delle idee come quello su cui giocare la partita decisiva. Un programma che ha come orizzonte ideale quello del “transumano”, l’idea che tutte le comunità umane particolari sono oramai più o meno superate e che bisogna dar vita alla nuova comunità ideale, a un uomo nuovo, riprendendo su basi tecnologiche le utopie totalitarie del Novecento. Perciò a chi ha la mia età tutto ciò ricorda per un verso la rivoluzione permanente di Trockij e per un altro la rivoluzione culturale di Mao. Il tutto naturalmente in salsa liberal e tecnologica americana.
Ebbene, tali tendenze, ecco la mia previsione, sono destinate ad avere un peso crescente sulla proiezione mondiale dell’America democratica e quindi sulla sua politica estera. Pensiamoci un attimo. C’è un filo rosso da seguire che parte da Clinton e dal dovere di ingerenza democratica in Kosovo. Si badi. Lì si stabiliva de facto un nuovo principio: che non è legittimo intervenire come in Crimea e nel Donbass per motivi di confine e demografici e in nome della sovranità nazional statale, ma è lecito farlo in nome di diritti umani in luoghi assai remoti e senza che vi sia per chi attacca una minaccia incombente.
Poi vi è stata la prima (giusta) guerra irakena (in nome di una sovranità violata) e la seconda che è nata contro la minaccia militare di Saddam ma è poi diventata guerra per l’esportazione dei valori democratici. Poi c’è stata, come ricordato, la dura polemica contro Putin alle Olimpiadi in nome dei diritti omosessuali, ora Biden è partito dando dell’assassino a Putin. Probabilmente come lascito del Russiagate. Senza pensare che, quanto a ingerenze, chi è senza peccato (cominciamo dagli Usa?) scagli la prima pietra.
Ma qual è il filo rosso? Il filo rosso è l’uso dei diritti come arma politica non solo interna ma internazionale. La battaglia per i diritti umani è una grande e importante battaglia che rimanda alla famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. Essa chiude idealmente un ciclo a Helsinki nel 1975. Perché essa era stata sino ad allora una via per la distensione mondiale.
Subito dopo la distensione stessa si arrestò e frenò e si è infine giunti con Clinton al sogno dell’unipolarismo americano come si è già detto. Da allora il tema dei diritti umani, fondamentale quando si è in presenza di questioni riguardanti il diritto alla vita di persone e comunità, la persecuzione aperta di minoranze etniche e religiose o le discriminazioni tra uomo e donna, da allora il plesso dei diritti umani ha conosciuto una proliferazione inaudita. Per cui, sempre più, ogni desiderio o pulsione soggettiva va considerata come diritto. Con la conseguenza di indebolire il consenso universale che è indispensabile per far progredire una efficace politica dei diritti umani.
Si è giunti allo snaturamento. La battaglia per i diritti umani ha cambiato segno e significato. Da impegno universale per il rispetto della dignità umana al di là dei diversi ordinamenti istituzionali e delle diverse sensibilità culturali e religiose è diventato una clava ideologica per colpire regimi diversi da quelli occidentali in nome di un ordine unico. Si è dato vita a una piattaforma di diritti che nascono da una cultura del tutto antistorica e irrispettosa di ogni diverso credo etico, religioso, culturale, che è sponsorizzata dai grandi gruppi digitali globali e che mira nella sua ideologia, come si è detto, alla creazione di un uomo nuovo transnazionale e poststorico.
Il rischio di un colonialismo postmoderno dietro all’attacco contro i regimi “oscurantisti”
Tutto ciò sta cominciando a impattare pesantemente nei rapporti internazionali. Ad esempio nella politica di cooperazione internazionale dove gli aiuti vengono subordinati a imprescindibili “condizionalità” educative che non mirano semplicemente a introdurre relazioni più umane e civili ma a imporre in modo diretto e semplificato modelli e standard occidentali e popolazioni assai distinte e distanti da tali standard. Non è difficile comprendere come tutto ciò indebolisca non poco la credibilità di un autentico impegno per i diritti e la dignità umana e rafforzi i confronti di chi è ostile a tutto ciò vedendovi i rischi di un colonialismo postmoderno.
Ebbene, dalle prime mosse è prevedibile che proprio questo sarà il terreno prescelto dall’amministrazione Biden per muovere scacco ai regimi “oscurantisti” della maggior parte del mondo. E che, anche qui, L’Europa, non potrà che accodarsi, visto che anch’essa ha tradito le sue grandi tradizioni autenticamente liberali in nome di questa ideologia del radicalismo politically correct. E’ l’ideologia del capitalismo della sorveglianza di Google, Netflix&Co, che vuole promuovere un eguagliamento indifferente e omogeneizzante tra individui sempre più ridotti a moltitudine precaria, senza radici, uguale ma senza identità. E disponibile a consumare e, solo quando occorre, a lavorare con molta flessibilità. Materiale per l’edificazione della società post-umana. O spesso materiale semplicemente da scartare.
Basta leggere il libro di Eric Schmidt, Amministratore delegato di Google, La nuova era digitale (1) per rendersene conto. Vi è un’idea di fondo. Dal cyberterrorismo, ai regimi autoritari, dalle minacce alla privacy e alla sicurezza, tutto alla fine sarà sconfitto dall’eden della trasparenza e dei diritti umani totali promossi e garantiti dal mondo digitale in tutto il mondo. Tutti i Putin, gli Erdogan e gli Xi Jinping della Terra dovranno piegare il ginocchio davanti al signore digitale.
Naturalmente anche gli avversari cominciano a maneggiare da par loro tali strumenti. Ma questo è un dettaglio, perché la nuova tecnologia della comunicazione è in sé buona, libera e uguale. E trionferà. E’ questa l’ideologia del nuovo pensiero liberal-trozkista americano.
Si può facilmente intendere come tutto ciò non è destinato a creare relazioni internazionali più distese e pacifiche né a diffondere nel mondo gli autentici valori umanistici e liberali occidentali ma solo la loro grottesca caricatura imposta dal globalismo democratico americano.
Nota al testo
- (1) Eric Schmidt, Jared Cohen, The new Digital Age. Reshaping the Future of People, Nations and Business, New York, Knopf, 2013, 315 p. Traduzione italiana: La nuova era digitale. La sfida del futuro per cittadini, imprese e nazioni, Milano, Rizzoli Etas, 2013, XXII-399 p.