Massimo De Angelis, interviene nel dibattito su Nazione e Patria in un articolo per Democrazia futura “L’idea di nazione e la stolta contrapposizione della Resistenza al Risorgimento” denunciando quella che nell’occhiello definisce “Una partigianeria antipatriottica davvero poco partigiana imbevuta del mito di un nuovo inizio espressione dell’illuminismo costruttivista oggi imperante”. “Negli scorsi decenni, in Occidente, seguendo il mito della globalizzazione e da noi anche quello europeo, si è pensato che la nazione, come per altro verso la famiglia e ogni corpo intermedio, fossero un passato da dimenticare in nome dell’individuo, autosufficiente, cittadino del mondo e cosmopolita […]. Al suo posto – secondo De Angelis – “l’uomo nuovo, cittadino universale trasparente, sottile e alla fine vuoto come un vetro [è diventato] l’ultima delle utopie partorite dalla nostra cultura dopo l’uomo nuovo fondato sulla purezza razziale e l’uomo nuovo prodotto dal socialismo ora quello prodotto dal progressismo perfettista”.
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L’insulsa decisione manifestata qualche tempo fa dal comune di Bologna di cancellare il termine “patriota” dalle targhe toponomastiche della città (in polemica con Giorgia Meloni e col suo rilancio dei termini “nazione” e “patriottismo”), consentendo solo la dizione “partigiano”, ha avuto l’indubbio merito di accendere i riflettori non solo sul tema della “nazione” ma su come tale riferimento venga vissuto oggi in Italia.
Partiamo dal fatto in esame. Esso indica palesemente la volontà di contrapporre la Resistenza al Risorgimento come riferimento principe (e magari esclusivo) di unità nazionale.
È quanto la maggior parte della sinistra ha fatto nel corso dei decenni. Pratica assai discutibile. Non si tratta, ovviamente, di trascurare l’importanza della Resistenza, ma perché contrapporla al Risorgimento?
Tante cose si celano dietro questa mossa. Un vocabolo è utile più di altri a darle significato: impazienza. Già appena dopo la ratifica dell’Unità d’Italia, nel 1861, vi furono gli impazienti e nostalgici del Risorgimento che, in polemica con la destra storica, cominciarono a tuonare contro i limiti dell’unificazione.
Restavano allora certo aperti molti problemi, a cominciare da quello di Roma e delle terre irredente ma a tali questioni si sommava un’incontenibile insoddisfazione politica, culturale e sociale. Essa confluì nell’impennata anticattolica legata alla presa di Roma e poi nel blocco della sinistra storica di Agostino Depretis che andò al governo nel 1876. Esperienza con luci e ombre all’interno della quale maturò, accanto a impulsi genuinamente riformisti, una più robusta pulsione massimalista animata da utopie palingenetiche, dall’ansia per un nuovo inizio che giunse a coniare e diffondere il mito del Risorgimento come rivoluzione fallita.
Gli è che, sotto la crosta di un consenso anche ampio, fragile era l’adesione e l’identificazione alle istituzioni e infine al senso e valore dell’unità nazionale. Così come mancava una cultura politica caratterizzata da senso della gradualità e da realismo, mentre fertile era sempre il terreno per lo spirito di disunione nazionale e per una contestazione delle classi dirigenti che oggi si definirebbe populismo.
La Guerra calò, si leggano in proposito le riflessioni di uno storico come Adolfo Omodeo, come una sciagurata scura sul giovane Stato unitario. Scoccò l’ora di quelli pronti a tutto e capaci a nulla. L’impazienza e l’insoddisfazione confluirono nel trasversale fronte interventista che poi, a seguito dei deludenti risultati ottenuti ai tavoli di pace, divenne più virulento, scandendo ora la parola d’ordine della vittoria mutilata. Era il primo embrione di un nazionalismo che, si badi, non era affatto “di destra” ma trasversale. Questo a sua volta divenne origine del movimento fascista, anch’esso, notoriamente, fenomeno assai complesso e trasversale non certo etichettabile come “di destra” e tanto meno come “conservatore”. Ma certo animato da nazionalismo, movimentismo aggressivo, impazienza e anzi smania di futuro.
Ebbene, un analogo sentimento di frustrazione per il “tradimento” da parte delle vecchie classi dirigenti si riprodusse, vent’anni dopo, nell’opposto moto antifascista mescolandosi alla spinta vitale alla libertà e alla democrazia. È ovvio che a maggior ragione vi fossero lì sentimenti genuini e generosi nella disillusione e impazienza dopo la fine del regime fascista col drammatico epilogo del disastro bellico.
Su di essi (per fortuna) fecero leva i partiti popolari del dopoguerra, e in particolare la Dc e il Pci. Ma un prezzo venne allora perciò pagato. Il primato della Resistenza venne appunto contrapposto a quello di un più ambiguo Risorgimento.
Qui le origini di un altro luogo comune trasversale e a lungo invalso: quello delle due Italie, quella pulita e quella sporca, quella sana e quella infetta, quella virtuosa e quella corrotta, un manicheismo astratto che così male ha fatto al nostro dibattito pubblico sino a oggi. E che ha di nuovo alimentato una disunione e un sospettoso distacco verso le istituzioni.
Tutto ciò, a sua volta, si espresse anche nella Costituzione che, pur con tutti i suoi pregi, raccoglie anche non poco di quegli impulsi “populisti” e palingenetici che nell’ Assemblea vennero espressi dalle “sinistre”: quella cattolica, quella laica (azionista) e quella socialista massimalista, rendendo il Testo fondamentale (lo dico a costo di essere politically uncorrect) assai più ricco di utopia e vaghe aspirazioni che di chiare regole. Desideroso di tratteggiare un vago futuro e un nuovo inizio piuttosto che ordinare il presente della nazione, con senso della gradualità, del realismo e con “sacro” rispetto delle istituzioni.
Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti e la riconciliazione nazionale nel secondo dopoguerra
Non così, non così per la verità e per fortuna si atteggiarono Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti che riuscirono a serbare la continuità nazionale possibile, innanzitutto con la tradizione liberale, nell’Assemblea impersonata da Benedetto Croce, che aveva accompagnato la nascita e il primo crescere dello Stato unitario.
Anche qui però pagando un prezzo, come ebbe a denunciare Luigi Sturzo: quello della partitocrazia come surrogato di uno Stato sentito intimamente delegittimato.
Fu grazie, comunque, a questi due leader se la riconciliazione nazionale ebbe luogo. E se il sentimento della nazione e dell’esser comunità nazionale non venne spento.
Con pieno merito, perciò, essi, e i loro partiti, divennero i perni della nuova stagione democratica della nazione italiana. L’Italia, così, sia pur tra mille difficoltà e nel quadro di una guerra fredda che alimentava divisioni e non facilitava il compito né alla Dc né al Pci, schierati su fronti diversi, ebbe allora e nonostante tutto, va ben detto, un trentennio di stabilità e di crescita democratica. Una fase che culminò, per poi rapidamente naufragare, con la strategia del compromesso storico, politica di autentica unità nazionale, tra il conservatore-rivoluzionario Aldo Moro e il rivoluzionario-conservatore Enrico Berlinguer. Fu una stagione di quasi guerra col riemergere in modo particolarmente cupo e violento, di sentimenti ostili alle istituzioni, allo Stato e alla nazione. L’assassinio di Moro, che avvenne non a caso, anche questa volta, proprio nel nome (usurpato va da sé) del tradimento della Resistenza secondo gli ideogrammi della sinistra degli autonomi e brigatista, segnò la fine di una fase democratica e della sua opera di consolidamento delle istituzioni. Ma forse, occorre rifletterci, segnò l’infarto non solo della politica di unità nazionale ma di un sentimento nazionale che allora sembrava potesse di nuovo germogliare e che avrebbe potuto rafforzarsi. Certo anche qui giocarono i molteplici interessi esterni alla nazione che miravano a disgregarla per controllarla. Ma appunto la nazione e lo spirito unitario non risposero.
Seguì perciò, dopo la fase transitoria della ripresa del centrosinistra, un’epoca turbolenta nella quale ripresero fiato e giunsero a imperversare sino a contaminare le istituzioni, a cominciare da quella giudiziaria, quei sentimenti di impazienza, insoddisfazione, quel manicheismo che divideva gli italiani tra virtuosi e reprobi, quel populismo ostile alle classi dirigenti e alla loro politica che tutti conosciamo. Mani pulite è imbevuta di tali pulsioni che animarono anche vaste frange parlamentari e che segnano il vizio d’origine della Seconda Repubblica. Tutto ciò, naturalmente, ha colpito a morte la coesione nazionale e lo Stato italiano, rendendo sempre più fragile la nostra democrazia. E sempre più, conseguentemente, la parola nazione è stata o negletta o considerata quasi una parolaccia.
A questo punto due altre circostanze andrebbero rapidamente richiamate.
La prima è che nazione e orgoglio nazionale sono naturalmente ben altrimenti considerate nel resto dei Paesi anche a noi più vicini: dagli Stati Uniti d’America, alla Gran Bretagna, alla Francia. Fa eccezione la Germania. Anche qui a motivo del fatto che la Germania, al pari dell’Italia, è un paese debellato. Non è un caso se anche lì si siano cercati surrogati al valore della nazione pensando di trovarli in costruzioni quali il patriottismo della cittadinanza o costituzionale che non scaldano i cuori. Anche se lì, a differenza che da noi, è ben presente un orgoglio etnico che è prossimo a quello nazionale.
Tale circostanza si salda con la seconda: quella della crescita dell’Europa e delle istituzioni. Qui il discorso sarebbe lungo. Valga per ora dire che i tedeschi, ma soprattutto gli italiani, hanno visto nell’Europa la possibilità di una seconda patria che surrogasse quella sconfitta nel 1945.
Una madre buona al posto di una cattiva o almeno considerata dissoluta. Speranza naturalmente destinata a cocente delusione. Con l’aggravante, per l’Italia, che mentre la Germania ha accettato di essere nano politico diventando però gigante economico, noi abbiamo accettato il nanismo, e in qualche modo una nuova “sudditanza” come condizione generale e persino autoimposta.
Aggravante resa ancor più pesante dal fatto che è cresciuta dopo la guerra anche una disposizione delle élite culturali e soprattutto economico-finanziarie del nostro Paese, a chiamarsi fuori e a contare sul cosiddetto “vincolo esterno”, teorizzando, con un massimo di impazienza e pessimismo, che l’Italia era semplicemente incapace di essere autonoma e sovrana. Che in fondo era destinata a tornare una semplice “espressione geografica”. Pensiamo a un banchiere come Enrico Cuccia per fare un solo nome tra tanti. Anche lì, in fondo viveva il sentimento che non l’Italia andava salvata ma solo una certa e una nuova Italia. Impressionante vedere come quel fiume carsico d’impazienza, insoddisfazione e spirito di divisione abbia lavorato nei decenni. La decapitazione della nostra classe politica con Mani pulite, caso unico per ampiezza in tutto l’Occidente, ha completato l’opera.
Preservare un’identità e una comunità nazionale sentite, più che non mai, a rischio
Ma veniamo all’oggi. E ripartiamo dall’Europa. L’idea di sostituire la patria nazionale con quella europea sembra e sarà sempre più confutata dall’andamento dei fatti al pari delle fumose idee di patriottismo della cittadinanza e di patriottismo dei diritti e cosmopolita. Il rischio è al contrario che, anche grazie alla sciagurata guerra con la Russia, i più brucianti nazionalismi dopo esser stati tenuti sotto il coperchio erompano sfuggendo di mano in tutta Europa.
L’idea e la realtà di nazione, dunque, piaccia o non piaccia, torna al centro. Ed è di vitale importanza.
La vittoria elettorale di una forza come quella di Giorgia Meloni non è perciò casuale ma denota una esigenza diffusa di preservare una identità e una comunità nazionale sentite, più che non mai, a rischio.
Ma la questione è più vasta e richiede, tra l’altro, anche un’intesa su che cosa sia oggi una nazione. Vale sempre tornare alla splendida ode di Alessandro Manzoni, Marzo 1821. La nazione è lì detta “gente … una d’arme, di lingua, d’altare, di sangue e di cor”.
Tutta l’ode è un commovente incitamento a prendersi la propria libertà, la propria sovranità:
“Per l’Italia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta. O risorta per voi la vedremo al convito dei popoli assisa, o più serva, più vil, più derisa sotto l’orrida verga starà”.
Tutta la splendida ode andrebbe riletta (anche se dubito che ciò avvenga ancora nelle scuole italiane) per capire che cosa vuol dire sentimento nazionale, qual è il valore essenziale che esso interpreta. Per vedere, anche, le differenze a due secoli di distanza.
Nazione, comunità, popolo versus individualismo illuminismo e cosmopolitismo
Oggi l’Italia non è più una per armi, la lingua è sempre più impoverita e meticciata con quella inglese e tecnocratica, la religione ammette il pluralismo, il sangue è rimescolato con quello d’altri.
E il cuore … beh il cuore è un enigma.
Eppure quell’ode ci fa vivere ancora un fremito. Che rimanda a un senso di comunità, sì più ampia ma determinata, e a un’idea di libertà: libertà per noi, per le nostre famiglie e i nostri figli fondata su una sovranità, che può essere “condivisa” con quella di altri ma mai “ceduta” ad altri.
Ecco l’idea di nazione è quella della libertà di una comunità. Una comunità che è un popolo. Termine fratello di quello di nazione.
Ripeto. Molte cose sono cambiate e si sono rimescolate. E d’altra parte un’idea di nazione che volesse non ordinare ma sfuggire a questa realtà e all’apertura che essa comporta sarebbe un’idea regressiva, cupa, sarebbe essa sì, chiuso nazionalismo. Ma l’idea di nazione è cosa ben diversa da ogni chiuso nazionalismo. Richiama una comunità di luoghi, persone, memorie, tradizioni, modi di vivere.
L’idea di nazione è come l’idea di persona, così diversa, a sua volta, da un chiuso individualismo: e si noti che tale individualismo è oggi imperante e si salda benissimo con l’eclissi del valore della nazione. E qui il discorso giunge alla sua chiusura.
Negli scorsi decenni, in Occidente, seguendo il mito della globalizzazione e da noi anche quello europeo, si è pensato che la nazione, come per altro verso la famiglia e ogni corpo intermedio, fossero un passato da dimenticare in nome dell’individuo, autosufficiente, cittadino del mondo e cosmopolita.
Si tratta di un grave e pericoloso errore ancora bene presente e da combattere.
Un errore di tipo “gnostico-illuministico”. Un errore “antropologico”. L’uomo, infatti, ciascun uomo, è un ente particolare che si apre a una dimensione universale (Dimensione universale dell’Uomo, dei suoi diritti davvero comuni e ancora, eventualmente della Trascendenza). Ma questa apertura è possibile e feconda se l’uomo resta un “esserci” particolare, radicato nella sua vita, negli affetti personali e nella memoria che è anche tradizione lingua, costumi di una comunità, che cambiano anche nel tempo ma a un ritmo assai lento e delle quali ogni persona fa parte.
L’utopia del nuovo inizio dell’illuminismo costruttivista oggi imperante
Mentre l’illuminismo costruttivista e perfettista oggi imperante in Occidente, contro cui hanno speso parole definitiva pensatori come Friedrich von Hayek, Karl Popper e tanti altri, nutre l’illusione che quelle particolarità siano solo “pregiudizi oscurantisti” da eliminare per forgiare l’uomo nuovo, cittadino universale trasparente, sottile e alla fine vuoto come un vetro.
È l’ultima delle utopie partorite dalla nostra cultura dopo l’uomo nuovo fondato sulla purezza razziale e l’uomo nuovo prodotto dal socialismo ora quello prodotto dal progressismo perfettista. L’idea di un nuovo inizio che veda nel passato solo oscurità è una utopia assai pericolosa della quale è facile cogliere una ascendenza nel nuovo inizio che la cultura prevalente nella sinistra ha sognato nel corso del secolo scorso travisando e/o esasperando il senso dell’antifascismo e della riconquistata libertà.
E non è un caso che tale utopia voglia sterilizzare in Europa, nel rapporto tra comunità nazionali e centro, il principio di sussidiarietà in nome di una visione centralistica, e veda nella famiglia non una risorsa ma un nemico da annientare.
Giova qui ripercorrere un testo del giovane Aldo Moro del 1946.
Emblematico per la data e per quel che Moro, lo abbiamo detto prima, ha significato nell’eclissi della nazione italiana.
”Come la famiglia – scrive Moro tra l’altro – negherebbe sé stessa se arrestasse l’ansiosa ricerca di ogni suo membro per una più vasta esperienza umana che ne soddisfi l’esigenza di universalità, così pure negherebbe se stessa se non riconoscesse lo Stato che appunto si risolve in questa più vasta e complessa esperienza umana. Perciò la famiglia entra a comporre lo Stato e nella famiglia, più che in ogni altro organismo, quello trova la sua genesi ideale […]. La suprema esperienza etico-giuridica dello Stato non può d’altra parte escludere il valore degli aggregati particolari che in esso si pongono, ma deve riconoscerli come lo strumento più efficace per la realizzazione piena della sua solidarietà universale”.
Questo in concreto il riconoscimento del particolare – famiglia e le singole persone in essa, comunità locali, nazione – che si apre all’universale, lo Stato e, oggi, le istituzioni sovranazionali.
Per tutto ciò, dunque, e concludendo, rimettere oggi al centro il tema della nazione, è un’operazione decisiva, di smascheramento e per altro verso di vitale rinascita sociale che con ogni probabilità può esser frutto solo di una cultura conservatrice. Liberalconservatrice.
Quella di Giorgia Meloni è dunque una sfida potenzialmente importante, importante non solo per una parte ma per la nazione. E per tornare a unirla, questa nazione, contro gli eterni profeti di divisione, insoddisfazione e malanimo.
Scommessa importante. Difficile dire se possa essere anche vincente. Sarebbe già qualcosa se servisse a mutare un po’ la direzione della nostra storia.