La storia

Democrazia Futura. Le trame eversive degli anni Settanta: le dietrologie e la realtà

di Vladimiro Satta, storico contemporaneista e documentarista del Servizio Studi del Senato della Repubblica |

Perché le stragi non fecero crollare né lo Stato, né i partiti, né i leader del sistema politico e istituzionale, il colpo di Stato non si fece e i terroristi non ottennero l’appoggio delle masse. L'articolo dello storico Vladimiro Satta.

Vladimiro Satta

Per gentile concessione del professor Giovanni Orsina, promotore del convegno La Repubblica dei complotti. Lo stile paranoico nella politica italiana tenutosi a Roma, presso la School of Government della Luiss l’11 e 12 maggio u.s,,  Democrazia futura propone la relazione del prof.  Vladimiro Satta su “Le trame eversive degli anni Settanta: le dietrologie e la realtà[1] “. nella quale lo storico contemporaneista e documentarista del Servizio Studi del Senato della Repubblica spiega – come recita l’occhiello –   “Perché le stragi non fecero crollare né lo Stato, né i partiti, né i leader del sistema politico e istituzionale, il colpo di Stato non si fece e i terroristi non ottennero l’appoggio delle masse”.

Lineamenti

Il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta offre parecchio materiale per un discorso sulle teorie complottistiche, o dietrologie.

Non a caso il termine dietrologia è una parola nata negli anni Settanta, appunto in relazione ai casi italiani di attentati stragisti e di trame eversive (che cronologicamente precedettero, sia pure di poco, lo sviluppo della lotta armata all’estrema sinistra).

Pertanto le teorie specificamente riguardanti le trame golpiste dell’epoca, ovvero la minaccia contro le istituzioni democratiche che più si avvicina alla rappresentazione dei fatti dell’estate 1964 illustrata e criticata dall’onorevole Mariotto Segni, vanno esaminate non da sole bensì nel contesto della cosiddetta “strategia della tensione”, l’espressione di origine giornalistica che unifica -assai discutibilmente- tutti gli episodi di terrorismo e di eversione di destra, e, talvolta, arriva ad includervi persino il terrorismo di sinistra, insinuando dubbi sulla genuinità di quest’ultimo.

E’ un periodo spesso chiamato “anni di piombo” o anche “anni di piombo e di tritolo”, il che è esagerato, ma è sintomatico di una percezione diffusa. Per giunta le dietrologie hanno fatto strada anche in ambito politico-istituzionale, oltre che mediatico.

A volte le dietrologie su episodi di eversione o stragi sono rimaste fini a sé stesse, ma altre volte sono divenute elementi di una teoria complottistica generale relativa alla parabola degli equilibri politici nazionali di allora.

A fine anni Sessanta si era aperta una crisi del centro-sinistra che si trascinò durante la prima metà dei Settanta, poi vi fu l’ingresso dei comunisti nella maggioranza e infine a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta il ciclo si chiuse con la ripresa del centro-sinistra e il ritorno dei comunisti all’opposizione.

Tale esito politico finale, negativo per il PCI, è stato raffigurato come conseguenza diretta delle bombe, delle trame eversive e del brigatismo rosso, e considerato il loro vero, malcelato obbiettivo.

In quest’ottica, non si è dato peso al fatto che documenti, dichiarazioni e comportamenti di eversori e terroristi mostrino che costoro piuttosto erano nemici della Repubblica, e che il fulcro dei governi italiani fosse la DC e non il PCI e che il partito dello scudocrociato sia stato di gran lunga il più bersagliato fra tutti: ci si è sbarazzati delle evidenze riducendo terroristi ed eversori a meri esecutori manovrati da presunti mandanti, i quali avrebbero avuto lo scopo di “influire pesantemente sugli equilibri politici più che [di] arrivare al colpo di stato vero e proprio di tipo greco o cileno, come scrisse il giornalista e saggista Gianni Flamini nel 1981, nel primo volume della sua monumentale opera pubblicata a Ferrara nella prima metà degli anni Ottanta Il partito del golpe. le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro composto da quattro volumi (di cui il terzo e il quarto suddivisi in due tomi) che ricopre il quindicennio che va dal 1964 al 1979 [2].

Chi sarebbero i mandanti? Tralasciando le invenzioni più stravaganti -tipo la Grecia dei colonnelli o i governi laburisti del Regno Unito-, i principali candidati sono stati: gli apparati dello Stato italiano, con particolare riferimento ai servizi segreti; gli USA/la NATO; l’organizzazione Gladio/Stay Behind; la P2 di Licio Gelli. Tutti soggetti che da un cambiamento di regime avevano molto più da perdere che da guadagnare, si badi.

Nei primi tempi le dietrologie potevano sembrare tentativi di colmare alla meno peggio gli inquietanti vuoti di conoscenza sulle nuove e pressanti realtà.

Con il passare del tempo però hanno perso tale giustificazione, in quanto le ricostruzioni giudiziarie e storiche hanno infine ottenuto risultati cospicui.

Oggi i punti rimasti oscuri sono pochi, specialmente sotto il profilo storico, e non sono tali da impedire di vedere le linee di fondo.

Anzi, a riprova di come la fioritura delle dietrologie non sia direttamente correlata all’ampiezza delle lacune delle ricostruzioni, si rileva che l’episodio stragista di cui purtroppo si sa meno, quello del treno Italicus dell’agosto 1974, è stato e tuttora è oggetto di attenzione e di speculazioni molto meno di altre stragi fasciste meglio lumeggiate quali Piazza Fontana o Piazza della Loggia; allargando la visuale ulteriormente, è lampante che intorno all’Italicus non ci si è sbizzarriti con le dietrologie in misura anche lontanamente paragonabile a quanto invece si è fatto e si continua a fare per la vicenda Moro, una storia che ha avuto una sua compiuta ricostruzione sin dal 1983, dapprima giudiziaria e parlamentare, poi anche storica. 

La sussistenza di un fondo di verità, nel senso che negli anni Settanta qualche disegno golpista effettivamente ci fu, non giustifica però alcun surplus di fantasie.

Se queste ultime hanno proliferato è perché la dietrologia dei cosiddetti “misteri d’Italia”, nelle sue espressioni, non è stata affatto una

“sobria diffidenza interpretativa che non si accontenti di restare alla superficie degli eventi o dei testi”,

 come vorrebbe Carlo Ginzburg.

Al contrario, come mette in evidenza Hervé Rayner, le narrazioni dietrologiche intorno ai cosiddetti “misteri d’Italia” sono state modellate secondo i canoni narrativi ed estetici dei romanzi polizieschi e di spionaggio.

Probabilmente, proprio questo è uno dei motivi del loro successo.

Dunque risulta più appropriata la definizione dell’Enciclopedia Treccani, che chiama dietrologia la tendenza

“ad assegnare ai fatti della vita pubblica cause diverse da quelle dichiarate o apparenti, ipotizzando spesso motivazioni segrete, con la pretesa di conoscere ciò che effettivamente “sta dietro” a ogni singolo evento”.

Questo atteggiamento apre la strada al paradosso, già messo in luce da Giovanni Sabbatucci, per cui i dietrologi abbracciano narrazioni molto meno coerenti e convincenti delle ricostruzioni che invece rigettano definendole spregiativamente “verità ufficiali”.

Appellarsi alla frase di Pier Paolo Pasoliniio so, ma non ho le prove, e nemmeno indizi”, che è infelice persino linguisticamente poiché chi non ha prove né indizi non sa, bensì presume, non vale a liquidare la questione e, anzi, ne conferma la serietà.

Stabilito che il complottismo relativo agli anni Settanta è innanzi tutto una mentalità, va riconosciuto che in alcuni suoi alfieri esso ha avuto origine da un desiderio di verità e di giustizia, sebbene costituisca un falso progresso.

Valga l’esempio di Giovanni Tamburino, il magistrato che negli anni Settanta fu titolare dell’inchiesta sulla trama eversiva denominata “Rosa dei Venti”.

Nel 1983, nell’Introduzione al Volume Terzo de Il partito del golpe di Gianni Flamini, Tamburino plaudì al complottismo, dichiarando che esso era un avanzamento epocale rispetto alle antiche spiegazioni degli eventi in chiave di “ricorso alle forze infernali” nonché alla tesi “insensata” che il terrorismo sia “frutto naturale di questo o quel malessere sociale”.

I punti di partenza, ossia il rigetto del “ricorso alle forze infernali” e la ripulsa del sociologismo spicciolo, sono condivisibili, ma è assai dubbio che il rimedio complottista sia migliore del male.

Dire, come fa Tamburino nel prosieguo della sua Introduzione, che “la realtà è ben altrimenti manipolata e dominata di quanto i nostri poveri sforzi di complottisti abbiano saputo configurare” e che “di complottismo si è peccato e molto, ma in difetto” anziché in eccesso, significa riformulare in versione laica l’immagine del Maligno che imperversa nonostante gli esorcismi.

E’ spiacevole ma necessario fare presente che la dietrologia in buona fede, involontariamente, ha fatto il gioco di una dietrologia gemella, la quale invece era ed è in mala fede: la dietrologia propagata dai fascisti. La tesi della “strage di Stato”, infatti, è stata lanciata da Giovanni Ventura, l’uomo che la sentenza di Cassazione n. 470/2005 ha dichiarato responsabile della strage di Piazza Fontana insieme a Franco Freda.

Ventura, in veste di editore, commissionò a due autori di sinistra un libro, Gli attentati e il Parlamento, uscito nel 1970, in cui si sosteneva che la strage di Piazza Fontana non era fascista, bensì un misfatto dei moderati, avente l’obbiettivo di coagulare intorno a Dc e socialdemocratici un blocco d’ordine. Dopo Ventura, la tesi della matrice istituzionale fu rilanciata dal capo di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie. Sulla scia di Ventura e Delle Chiaie poi si misero Vincenzo Vinciguerra, lo stragista di Peteano, e altri camerati.

Lo stragista Ventura è perciò l’antesignano della sintesi ossimorica “destabilizzare per stabilizzare”, inventata dalla Commissione Parlamentare sulla loggia P2, oggi cara ai fautori del complottismo sia di destra che di sinistra (al punto che nel 2022 Gianni Barbacetto, dalle colonne del Il Fatto Quotidiano, ha proposto la grazia per Vinciguerra).

Evidentemente i fascisti che subdolamente hanno tentato di addossare le colpe allo Stato avevano afferrato al volo le potenzialità depistanti e almeno parzialmente assolutorie offerte loro dalla teoria della “strage di Stato”, mentre purtroppo parecchi altri, che tuttora la riecheggiano, dopo cinquant’anni abbondanti ancora non se ne sono resi conto. I concetti di “destabilizzare per stabilizzare” e di “strage di Stato” sono agli antipodi rispetto alla finalità enunciata dal maggiore responsabile della strage di Piazza Fontana, Freda, che era la “disintegrazione del sistema“.

Si attaglia perciò anche ai “neri” oltre che ai “rossi” l’osservazione dello storico Salvatore Lupo, secondo il quale la teoria del complotto confligge con le reali motivazioni delle migliaia e migliaia di persone che parteciparono alle azioni terroristiche o eversive.

I fatti e le teorie

Le trame di colpo di Stato, per mano strettamente militare o per mezzo di sinergie tra militari e civili, apparvero sulla scena italiana nel 1970 e ne uscirono nel 1974. Nell’ordine, vi furono il fallito golpe del comandante Junio Valerio Borghese fra il 7 e l’8 dicembre 1970, i progetti dei generali Fanali e Roselli Lorenzini tra 1971 e 1972, i preparativi della Rosa dei Venti iniziati dopo l’esperienza di Borghese e andati all’aria definitivamente nell’autunno 1973, il cosiddetto “golpe bianco” di Edgardo Sogno sventato nel 1974. In ognuno di questi casi i cospiratori cercarono di procurarsi gli appoggi istituzionali italiani e occidentali di cui avrebbero avuto bisogno, ma non ne ebbero a sufficienza.

Come si sa nessuna di queste cospirazioni arrivò alla conquista del potere, quindi, e neppure ci andò vicina.

Le truppe radunate da Borghese, il cui tentativo nella notte dell’Immacolata del 1970 fu l’unico entrato in fase esecutiva, ricevettero un contrordine da parte di Borghese stesso e fecero dietro-front; tutti gli altri piani golpisti si fermarono ancora prima e molti dei loro artefici subirono condanne in tribunale, sebbene le sentenze siano state complessivamente benevole rispetto alla gravità dei fatti accertati in sede storica. Inoltre, nessuna delle cospirazioni degli anni Settanta ebbe effetti cruenti.

A quest’ultimo riguardo, però, va detto che proprio i fallimenti furono il motivo per il quale non corse sangue, poiché in un Paese democratico dove la sinistra e le organizzazioni sindacali operaie erano piuttosto forti e organizzate quale l’Italia, nell’eventualità di un colpo di forza da parte della destra le reazioni sarebbero state massicce, durissime, e quasi certamente sarebbe scoppiata una guerra civile.

E’ ampiamente documentato che l’intenzione dei cospiratori, tutti, era abbattere le istituzioni democratiche, mentre non si ha alcuna prova che essi in realtà volessero soltanto inscenare un’intentona, vale a dire imporre ai governi correzioni di rotta, lasciando in carica i governanti e intatte le istituzioni.

Sul piano cronologico, vanno messe in risalto due circostanze. L’una è che tra  il 1969 e il 1974 il Partito Comunista Italiano non aveva ancora spiccato il balzo elettorale che, all’indomani delle elezioni del 1976, lo renderà indispensabile ai fini di una maggioranza parlamentare che sostenesse il governo, con la “non sfiducia” prima, e la fiducia poi; l’altra, è che fino a tutta la prima metà degli anni Settanta aveva avuto poco peso e vita stentata la loggia massonica P2 di Licio Gelli, soggetto cui molte narrazioni dietrologiche imputano la direzione occulta di stragismo, eversione e lotta armata, ad onta della mancanza di riscontri e dell’assoluzione definitiva dall’accusa di cospirazione politica sancita dalla Cassazione nel 1996.

Gli anni in cui la P2 divenne forte, cioè quelli dalla seconda metà dei Settanta al 1981 in cui essa si dissolse, furono scevri di golpe o di intentonas che si voglia. 

Le conoscenze sul golpe Borghese, sulle intenzioni dei generali Sergio Duilio Fanali e Giuseppe Roselli Lorenzini, sulla Rosa dei Venti e sulle autoillusioni di Edgardo Sogno sono consolidate, essendo state oggetto di procedimenti giudiziari e di lavori storici. Le ricerche condotte in anni recenti dallo studioso Luigi Guarna su documentazione di fonte statunitense che in precedenza era inaccessibile le hanno integrate e sostanzialmente confermate.

Il dato saliente, a mio avviso, è che sia all’interno delle Forze Armate italiane, sia da parte dell’amministrazione statunitense, le trame incontrarono opposizioni o quanto meno indisponibilità.

In particolare, a livello italiano il generale Enzo Marchesi, Capo di Stato Maggiore della Difesa e dunque superiore di Fanali e di Roselli Lorenzini, avversò i loro disegni fintanto che rimase in carica e la nomina ad agosto 1972 di Eugenio Henke quale suo successore -invece di Roselli Lorenzini, come avevano sperato i golpisti- spense le velleità di questi ultimi (vi sono indizi che l’autorità politica, avendo avuto sentore delle trame, scelse Henke proprio per questo).

Quanto agli Stati Uniti d’America, le carte dimostrano una loro costante refrattarietà rispetto alle ipotesi di colpi di Stato. Sebbene stando alla documentazione emersa da poco l’atteggiamento statunitense sembri motivato più da ragioni di opportunità che di principio, resta fermo che gli americani bocciarono i proponimenti di Junio Valerio Borghese, furono dalla parte di Enzo Marchesi e non ressero il gioco della Rosa dei Venti, né quello di Sogno.

Questo significa non soltanto che le prospettive di colpo di Stato militare erano destinate all’insuccesso, ma anche che una delle più note elaborazioni dietrologiche, quella di Franco De Felice chiamata teoria del “doppio Stato”, è infondata alla radice. Franco De Felice aveva pensato che nel secondo dopoguerra gli apparati dello Stato italiano si trovarono a dover osservare due lealtà, l’una verso la Repubblica e l’altra verso lo schieramento occidentale, divenute inconciliabili di fronte all’eventualità di un arrivo dei comunisti italiani al potere e, pertanto, a quel punto abbiano optato in favore degli alleati americani ricorrendo a qualunque mezzo, anche delittuoso, e avrebbero così alterato la dinamica politica nazionale “in misura grave e continuativa”. Non sto a ripetere le critiche indirizzate da Giovanni Sabbatucci, da me e da altri verso la tesi di Franco De Felice prima ancora dei ritrovamenti ad opera di Luigi Guarna, ma osservo che se era l’alleato americano stesso a non volere la svolta autoritaria in Italia, allora i generali italiani golpisti non erano leali nei suoi confronti, bensì il contrario.

Quanto al comportamento dei politici italiani di fronte agli intrighi di alcuni militari, al golpe Borghese, alla Rosa dei Venti e al “golpe Bianco” di Edgardo Sogno, tutta la storiografia -senza eccezioni- ha preso atto che le cospirazioni furono contrastate e che Giulio Andreotti, in particolare, da ministro della Difesa fu abile in questo, intervenendo in maniera al tempo stesso incisiva e morbida, ovvero liquidando le suddette cospirazioni senza scontri istituzionali con i militari e senza clamori, nei limiti del possibile. Nelle mani di Andreotti, trasferimenti, nomine, ristrutturazioni di reparti, proficui rapporti con il SID e con l’autorità giudiziaria, dosaggio di notizie da divulgare tramite la stampa funzionarono perfettamente per conseguire i suoi obbiettivi.

Già, ma quali erano gli obbiettivi? Non erano forse la difesa delle istituzioni e la sconfitta dei golpisti? E’ nella risposta a questi interrogativi che si trincera oggi la dietrologia.

Mentre un osservatore straniero, lo spagnolo Juan Avilés Farré recentemente scomparso, nella sua monografia su strategia della tensione e trame golpiste pubblicata nel 2021[3] elogia l’azione efficace e prudente dei governanti italiani in quelle circostanze, l’italiano Francesco Biscione nel suo volume Dal golpe alla P2. Ascesa e declino dell’eversione militare (1970-75, edito nel 2022, sostiene che in realtà lo scopo di Andreotti fosse creare uno spazio per la P2 la quale, tramontata la prospettiva del colpo di Stato militare, avrebbe guidato il “movimento eversivo” allo “scardinamento del progetto costituzionale repubblicano” battendo altre vie, non precisate, e riuscendovi ampiamente[4].

Dulcis in fundo, Biscione adombra perciò l’ipotesi che il vero capo della P2 fosse Andreotti e non Gelli[5].

L’enormità delle illazioni contro Andreotti, comunque, non deve fare perdere di vista la metamorfosi dell’eversione tratteggiata da Biscione (e da altri prima ancora di lui). Egli a partire da fine 1974 dunque sgancia il “movimento eversivo” dal golpismo e non ha neppure uno stragismo cui associarlo, però bolla come anticostituzionali e persino eversive quelle che invece erano legittime proposte politico-istituzionali di segno conservatore o moderato.

Il Piano di Rinascita Democratica piduista o altre piattaforme consimili, riforme costituzionali comprese, possono piacere o non piacere, ma fintanto che vengono portate avanti senza usare la forza e rispettando le regole democratiche non devono essere squalificate come eversive. Se invece tale criminalizzazione avviene, è segno che il bene considerato in gioco non è tanto la salute delle istituzioni democratiche, bensì le fortune delle forze politiche che conservatrici o moderate non sono. Al fondo, il discorso di Biscione è perciò una riedizione del tradizionale vittimismo degli sconfitti del “compromesso storico”.

La percezione del pericolo golpista che si aveva negli anni Settanta, naturalmente, aveva origini tutt’altro che archivistiche, e non sempre poggiava su notizie.

Le prime rivelazioni sul golpe Borghese furono pubblicate dai giornali nella primavera 1971, ma già a luglio 1969 Giangiacomo Feltrinelli, dall’estrema sinistra, in un opuscolo ipotizzava che un colpo di Stato potesse avvenire entro l’estate stessa e per questo riteneva che bisognasse affrettarsi a prendere le armi, cosa che fece lui per primo. E’ vero che al tempo in cui Feltrinelli scriveva, Borghese aveva già cominciato a darsi da fare, ma l’opuscolo non conteneva informazioni su Borghese e i suoi camerati, bensì era una previsione. Feltrinelli non era il solo a paventare un colpo di Stato militare, perché i timori di involuzione autoritaria ormai circolavano dai tempi della rappresentazione allarmistica dei fatti dell’estate 1964, e nel frattempo si erano aggiunti la consapevolezza che nel 1967 un regime militare era stato instaurato nella vicina Grecia e che in Italia nel biennio 1968-1969 c’erano forte tensione sociale, frequenti episodi di violenza politica e attentati, sia pure ancora incruenti.

Un ulteriore impulso alle paure di colpo di Stato venne dall’interpretazione dell’incriminazione di Pietro Valpreda per la strage di Piazza Fontana, che venne fatta propria da gran parte della sinistra oltre che dagli anarchici, secondo la quale era in corso una macchinazione di Stato mirante a sopprimere le libertà politiche e annientare le opposizioni.

In questo clima, quando a partire dal 1971 divenne di dominio pubblico che qualcuno effettivamente aveva tramato, l’allarme diventò permanente, senza sottilizzare su quanto fosse davvero alto il rischio né su chi fossero esattamente i cospiratori, che furono sommariamente identificati nei reazionari, mettendo insieme i fascisti e le istituzioni.

Lo strano asserito connubio tra gli aggressori della democrazia e i governanti che la guidavano e la difesero, e appunto per difenderla imposero lo scioglimento di Ordine Nuovo nel 1973 e di Avanguardia Nazionale nel 1976, divenne un caposaldo delle dietrologie.

Oggi ci si imbatte in corpose monografie che ignorano bellamente la risposta antifascista delle istituzioni, o vi accennano fugacemente e non ne tengono minimamente conto nelle valutazioni. Viceversa, nelle interpretazioni dietrologiche degli anni Settanta spesso ha spazio il “Piano Solo”, raffigurato alla stregua di un’intentona ai danni del Partito Socialista Italiano e delle ambizioni riformistiche presenti nei primi governi di centro-sinistra nonché come precursore dell’eversione degli anni Settanta.

Senza neanche bisogno di entrare anch’io nel merito delle vicende del 1964 e dintorni, rimarco che lo schema dell’intentona contro i riformisti al governo non è applicabile agli anni 1970-1974, in quanto stavolta l’asserito bersaglio delle pressioni illecite sarebbe stato il Partito Comunista che era all’opposizione, non al governo.

La controprova dell’erroneità della tesi dell’intentona anticomunista è che quando il PCI entrò nella maggioranza, cioè vari anni dopo che il golpismo era svanito e le stragi cessate, non si registrò alcuna ripresa né dell’uno né delle altre. Si noti altresì che nessuno fra i teorici dell’asserita intentona degli anni Settanta si sente di precisare quale incidenza essa avrebbe avuto sulla vita politica nazionale.

In realtà non furono conservatori o reazionari a strumentalizzare la paura del golpe, bensì fu il comunista Enrico Berlinguer nell’ambito del suo partito. Berlinguer, infatti, agitò il fantasma del golpe allorché, nel 1973, annunciò la proposta di “compromesso storico” rivolta al tradizionale avversario, la DC, nel terzo articolo di una serie intitolata appunto: Riflessioni dopo i fatti del Cile.

Possiamo escludere, dunque, che il golpismo manifestatosi nel 1970 ed esauritosi definitivamente nel 1974 abbia deviato il corso della politica italiana e, tanto meno, bloccato l’ascesa del PCI, la quale semplicemente non era ancora iniziata.

Tuttavia poiché, come si è detto, il golpismo in senso stretto è stato accomunato allo stragismo nella “strategia della tensione”, resta da determinare l’impatto prodotto da quest’ultima sulla storia italiana.

Stragismo e golpismo

Stragismo e golpismo non sono sinonimi e non postulano l’uno l’esistenza dell’altro o l’accordo preventivo con esso, né viceversa. In teoria una strage può servire in previsione di un pronunciamento militare successivo, però può anche essere concepita per minare l’odiato e altrimenti solido potere in carica prima ancora di avere un piano preciso per sostituirlo. La disintegrazione del sistema concepita da Franco Freda è un esempio in quest’ultimo senso.  

Allo stato attuale delle conoscenze, si hanno scarsissime tracce di combinazioni tra stragi e tentativi di colpi di Stato. Non c’erano intese né collaborazioni tra gli attentatori di Piazza Fontana e i golpisti radunati intorno a Borghese. Anzi, è addirittura probabile che le bombe del 12 dicembre 1969 abbiano indotto Borghese a posticipare il suo attacco in attesa di vedere le reazioni e gli sviluppi conseguenti ai quei gravi attentati.

Le trame dei generali fra 1971 e 1972 non prevedevano stragi. Il “golpe bianco” di Edgardo Sogno, nemmeno. A loro volta, gli attentati sanguinosi della prima metà degli anni Settanta, vale a dire a Peteano nel 1972, alla Questura di Milano nel 1973, a Brescia e sul treno Italicus nel 1974, non risulta fossero destinati ad aprire la strada a colpi di Stato in preparazione. Caso mai, fu il progetto della Rosa dei Venti a contemplare attentati finalizzati a surriscaldare il clima prima dell’azione militare, ma avrebbe dovuto trattarsi di una serie di attentati incruenti che, peraltro, non ebbe luogo.

Vi fu poi il 2 agosto 1980 la strage alla stazione ferroviaria di Bologna, che a parere mio (e non solo mio) dovrebbe fare storia a sé.

Per brevità, non mi soffermo sul perché manchino le condizioni per postulare l’esistenza di un’unica “strategia della tensione” di matrice anticomunista e io ritenga invece che i crimini degli “anni di piombo e di tritolo” fossero frutto di una pluralità di spinte eversive e terroristiche, figlie delle disparate ideologie estremistiche propense all’uso della forza che circolavano in Italia.

Comunque, al fine di seguire i ragionamenti di coloro che adottano lo schema interpretativo della “strategia della tensione”, rilevo che a detta della maggioranza di essi tale strategia della tensione arriverebbe fino al 1974, al massimo.

In proposito, richiamo un interessante contributo di Marco Grispigni Sull’abuso del concetto di strategia della tensione, dove l’autore sostiene che sarebbe corretto parlare di “strategia della tensione” limitatamente al 1969.

Un altro noto studioso, Mirco Dondi, estende la “strategia della tensione” fino al 1974 ma non oltre e, per di più, vede differenze di scopo tra la strage del 1969 che considera “di provocazione” e le stragi del 1974, che definisce “di intimidazione”.

Biscione concorda con la delimitazione al 1974 e prima di lui si erano espressi nello stesso senso anche Franco Ferraresi e Mimmo Franzinelli, separatamente.

Persino chi invece si spinge fino alla strage alla stazione di Bologna si sente in obbligo, almeno, di distinguere tra una prima fase durata dal 1969 fino alla bomba sul treno Italicus del 1974 e una seconda fase conclusasi il 2 agosto 1980: ad esempio, la consulente dell’Associazione Familiari delle Vittime Cinzia Venturoli.

Un caso intermedio, meritevole di attenzione, è quello di Aldo Giannuli. Egli è autore di una trilogia sulla “strategia della tensione” che si ferma al 1975 e ha ribadito più volte che tale strategia si arrestò a metà decennio. Tuttavia l’11 giugno 2021 lo stesso Giannuli, che in quel momento era consulente della Procura Generale di Bologna nel cosiddetto “processo-mandanti”, quando il Presidente della Corte d’Assise gli fece notare che in tribunale la sua tesi suscitava “dissenso”, fece contorsioni nel tentativo di annacquare le proprie dichiarazioni precedenti.

La dilatazione cronologica della Strategia della tensione sino al “riflusso” degli anni Ottanta

Il problema è che la dilatazione cronologica della “strategia della tensione” fino ad includervi l’attentato commesso il 2 agosto 1980, teorizzata dalla magistratura bolognese che ne fa una pietra miliare della propria ricostruzione, ci proietta in una fase diversa della storia d’Italia, scavalcando il cambiamento epocale di fine anni Settanta, di cui furono espressioni evidenti già agli occhi dei contemporanei il forte regresso comunista alle elezioni politiche 1979, il sensibile calo della forza dei sindacati operai, della conflittualità sociale, dell’impegno politico e del valore comunemente attribuito alle ideologie, che prese il nome di riflusso.

Tirare dentro la “strategia della tensione” un attentato distante ben sei anni dagli attentati e dalle trame golpiste precedenti, e che non fu seguito né da una nuova serie di bombe, né da una nuova stagione golpista, né da un mutamento degli indirizzi politici generali o delle politiche dell’ordine pubblico e della sicurezza interna, appare decisamente incongruo. Invece di fornire una valida motivazione della strage di Bologna, indebolisce ulteriormente la già precaria idea che la “strategia della tensione” mirasse a fermare il PCI.

Conclusioni

Il bilancio finale dello stragismo, del terrorismo e dell’eversione è che le stragi non fecero crollare né lo Stato, né i partiti, né i leader del sistema politico/istituzionale, il colpo di Stato non si fece, i terroristi non ottennero l’appoggio delle masse; piuttosto, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale furono sciolti, i NAR, le Brigate Rosse e Prima Linea debellati, Borghese e innumerevoli camerati costretti a riparare all’estero.

 E’ quindi surreale la frase di Libero Mancuso, ex-magistrato schieratosi a sinistra: “Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete” e potrebbe persino essere ribaltata, considerando che non tutti i colpevoli sono stati individuati. Si potrebbe dire perciò: noi favorevoli alla democrazia abbiamo vinto e voi perso, sebbene alcuni di voi non sappiamo chi siano.

L’immaginaria sconfitta lamentata da Mancuso fa il paio con l’immaginario scardinamento della Repubblica ad opera della P2 asserito da Biscione e rivela una volta di più che in realtà, per gran parte dei dietrologi, la sconfitta ancora bruciante è un’altra, essa sì indiscutibile: la sconfitta del “compromesso storico”.

La pseudo-disfatta della Repubblica davanti ai suoi aggressori ha conseguenze negative, non soltanto di tipo culturale, che già sarebbero serie.

Una seconda e persino peggiore conseguenza di tesi come la “strage di Stato”, “destabilizzare per stabilizzare” e/o vittoria di imprecisati “poteri occulti” è la sfiducia che esse generano nei confronti delle istituzioni democratiche e della società.

Da un altro punto di vista, però, ciò significa che un convegno come il nostro può avere un valore non soltanto culturale, ma anche civile. Alessandro Manzoni, a proposito delle dicerie sull’origine della pestilenza, scrisse che il buon senso esisteva, ma preferiva restare nascosto per paura di scontrarsi con il senso comune: è nostro compito impegnarci affinché il buon senso abbia la possibilità di misurarsi con il senso comune dietrologico e ai posteri giunga una testimonianza di cui tenere conto per le loro ardue sentenze.


[1] Relazione tenuta nella prima sessione del convegno La Repubblica dei complotti. Lo stile paranoico nella politica italiana, Roma, Università Luiss School of Government- Istituto Bruno Leoni. Idee per il libero mercato, 11-12 maggio 2023.

[2] Gianni Flamini, Il partito del golpe: le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro. Volume primo: dall’inizio del 1964 al 27 giugno 1968, giorno del “suicidio” del colonnello del SIFAR Rocca. 1, 1964-1968. Intruduzione di Giorgio Rochat, Ferrara, Italo Bovolenta editore [1981], IX-219 p. Volume secondo: dal 13 settembre 1969, giorno in cui Borgjhese fonda il Fronte Nazionale, alla fine del 1970, con il fallimento della “notte di Tora-Tora”. 2, 1968-1970, 1982, 250 p.; Volume terzo: Dall’inizio del 1971 alla fine del 1974, organoizzazione e sviluppo del progetto eversivo politico in concorrenza a quello militare. 3-1, 1971-1973, 1983, 309 p.; 3.2, 1973-1974, 1983, 311-793 p. Volume quarto: Dall’inizio del 1975 alla metà circa del 1978- Il terrorismo rosso e il sequestro Moro- 4.1, 1975-1976, 1985, 230 p.; 4.2, 1976-1978, 1985.231-618 p.

[3] Juan Avilés Farré, La estrategia de la Tension: terrorismo neofascista y tramas, Madrid. Uned- Institudo Universitario Gutiérrez Mellado, 2021, 326 p.

[4] Francesco Biscione Dal golpe alla P2, Ascesa e declino dell’eversione militare (1970-75), Roma, Castelvecchi, 2022, 240 p. [il passo è a p. 219].

[5] Francesco Biscione Dal golpe alla P2, op. cit. alla nota 4, p. 222.

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