Guido Barlozzetti rievoca la figura di un grande architetto nell’articolo per Democrazia futura “Le stelle e le curve di Paolo Portoghesi” in cui dopo aver illustrato quel che definisce “una curva tangenziale rispetto al razionalismo funzionale, che lo ha portato tra le figure eminenti del post-modernismo internazionale, fino alla dedizione a una geo-architettura ispirata all’equilibrio con cui l’intervento umano ne rispetta l’anima profonda, che è la stessa, troppo spesso rimossa, dell’uomo” Barlozzetti ricostruisce un progetto assegnato nel 1990 a Portoghesi in occasione del settimo centenario della fondazione del Duomo di Orvieto, e purtroppo mai realizzato.
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La chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, a Calcata, con il basamento da cui svetta un tiburio stellato, doveva ricordare a Paolo Portoghesi la piroetta del campanile di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma del prediletto Francesco Borromini, che gli si era impresso nelle immagini dell’infanzia, dalle parti di Piazza Navona.
L’aveva progettata nel 2009 per il borgo nella valle del Treia in cui aveva deciso di vivere con la moglie Giovanna Massobrio, in una casa che in ogni dettaglio è una sintesi di gusto, simmetrie concentriche e di originale ornamento, che si prolunga in un “giardino meraviglioso” a dire di un armonico connubio umanistico e poetico di ambiente e natura, vegetale e animale, come il soffitto della Camera degli sposi nel Castello di San Giorgio a Mantova.
Non potevano che tenersi qui i funerali di un maestro che, senza dare alle definizioni nulla di più che il valore di un’indicazione, è stato un protagonista dell’architettura dagli anni Sessanta, lui che era nato a Roma novantadue anni fa e nel 1950 si era iscritto alla Facoltà di Architettura della Sapienza, una curva tangenziale rispetto al razionalismo funzionale, che lo ha portato tra le figure eminenti del post-modernismo internazionale, fino alla dedizione a una geo-architettura ispirata all’equilibrio con cui l’intervento umano ne rispetta l’anima profonda, che è la stessa, troppo spesso rimossa, dell’uomo. Insomma, la responsabilità degli architetti che, prima dell’alone individualistico dell’archistar, dovrebbero “consentire – diceva – all’uomo moderno di abitare poeticamente”.
Il funerale, come accade in una circostanza che guarda retrospettivamente una vita che si è conclusa, ha riunito sotto gli spigoli del plissé stellare della chiesa di Calcata una sorta di rappresentanza dei compagni di strada che in vario modo Portoghesi ha incontrato nel suo lungo cammino. C’erano gli studenti, commossi e grati della sua esemplarità di maestro rigoroso e creativo alla Sapienza di Roma, generazioni di architetti complici di battaglie e sogni, avventure e conflitti, perché l’architettura è un modo d’intendere il mondo non una neutra applicazione tecnica e decide della vita umana, del suo stare nel presente con tutta la ricchezza che gli viene dal passato rivisitata al futuro, c’erano Stefania Craxi e i testimoni di un partito che non c’è più, a cui Portoghesi si era iscritto sin dal 1961 fino a entrare nell’Assemblea Nazionale nel tempo che fu di Bettino, l’Imam del centro islamico culturale d’Italia venuto a rendere omaggio a chi con mente aperta s’era assunto il compito per tanti versi insidioso di progettare la Moschea di Roma, e c’era – alla fine – la piena non di circostanza dell’oratoria di Vittorio Sgarbi, tutti a ricordare di Portoghesi la leggerezza, l’ironia, la curiosità, la malìa di una voce indimenticabile.
Riferimenti diversi e intrecciati di un lungo percorso che colpisce all’inizio dei Sessanta con la Casa Baldi in cui già si esprime il bisogno di sottrarsi alle “inibizioni” dell’architettura modernista – secondo il titolo di un saggio fortemente critico apparso nel 1976 – e il variabile intreccio in cui l’architettura respira della vita e nella razionalità non rinnega il piacere estetico e ornamentale e l’immaginazione che non necessariamente contrastano con l’utile e il funzionale, ma ne mettono in discussione il dominio.
Ecco così a Roma la sorprendente Casa Papanice, nel 1968, ancora il piacere barocco delle linee curve, concavoconvesse, i cerchi concentrici della Chiesa della Sacra Famiglia a Salerno (1969), il Palazzo Reale di Amman, la Moschea di Roma (1974) a conferma di una sensibilità per lo spazio liturgico della religione, senza confini confessionali ma sempre in un pensiero costruttivo che legasse visibile e invisibile, come anche nella moschea di Strasburgo (2000) e, per stare nei confini della nostra regione, a Terni, nella chiesa di Santa Maria della Pace (1997), ancora una pianta stellare e poi, come consuetudine, l’utilizzo di materiali locali a cominciare dalla pietra sponga, la sistemazione di piazze da Rimini e a Roma…
Visse anche anni di impegno culturale nelle istituzioni e quindi anche di presenza nel circuito mediatico con l’incarico di Presidente della Biennale di Venezia nel decennio 1983-1992 e primo Direttore della Biennale Architettura dal 1979 al 1982.
Nasce lì nel 1980 l’esperienza collettiva de La Strada Novissima, settanta metri, dieci facciate per lato firmate da Gehry, Isozaki, Kolhaas, Purini, Hollein, Venturi, Bofill, lo stesso Portoghesi con Francesco Cellini e Claudio D’Amato… all’insegna di Presence of the Past.
Ma questa non può, non vuole e non deve essere una rassegna del lavoro di un architetto che ci lascia il pensiero di un raccordo profondo e insieme inventivo del rapporto tra passato e presente e dunque del modo in cui nell’attualità siamo chiamati, nella nostra libertà, a lasciare un segno che dica di noi senza recidere una memoria che è fatta di ambienti, paesaggi, materiali, della cultura che ha stratificato i lasciti nel tempo.
È solo in questo senso che mi consento un ricordo personale. Nel 1990, l’anno del Settimo Centenario della fondazione del Duomo di Orvieto, incaricato di coordinare le manifestazioni, fui tra quelli che pensavano che nell’occasione si dovesse celebrare la ricorrenza portando sulla Rupe di tufo un’invenzione architettonica che reinterpretasse già nel suo modo di offrirsi il gotico romanico della cattedrale, le stagioni che vi si erano iscritte, le aggiunte e le rimozioni.
Fu un’avventura creativa affascinante che Paolo Portoghesi accettò con entusiasmo chiamando a collaborare nei disegni dell’architettura Enrico Cerioni e con lui Vittorio Storaro per l’illuminazione, Piero D’Orazio per le vetrate e, per i calcoli statici, Antonio Maria Michetti.
Disegnò un basamento a pianta eptagonale, come i bracci d’ingresso, con una grande torre al centro che dalla Rocca avrebbe dovuto spandere la sua luce nella notte, mentre all’interno si raccontava la lunga, peregrinante e miracolosa storia del Duomo, della fede che l’ha tirato su insieme alla passione e al coraggio degli uomini. Segni che crescono sui segni e si aprono a una nuova vita nella Città che li condivide e con loro cammina nel futuro.
Non se ne fece nulla per l’ostilità tetragona di un’ideologia rinchiusa nella fortezza di un razionalismo iperfunzionalista e che in omaggio all’ortodossia marxista – e non marxiana – giudicava effimero, nell’accezione più negativa e gratuita, tutto ciò che non fosse compatibile con i cosiddetti bisogni del popolo, decisi da chi se li intestava e ne aveva la custodia e la chiave.
Ne venne realizzato un prezioso modello in legno, che fu esposto in fretta e furia a Orvieto e poi scomparve… misteriosamente. Fu, infatti inviato a Milano dove per essere esposto in una mostra di illuminotecnica a cura dell’azienda Reggiani, corredato da alcune colonne disegnate da Portoghesi e realizzate per l’occasione.
L’unica certezza è che non tornò ad Orvieto. Così, il campo resta aperto alle ipotesi più varie in cui la trascuratezza alla fine potrebbe anche fare tutt’uno con la premeditazione.
Qualche mese fa, c’eravamo detti con il Professore che sarebbe stata l’ora di raccontare quella storia. Era un auspicio, adesso è un dovere.