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Democrazia Futura. Le pagelle a Vladimir Putin e agli altri protagonisti in ricerca della pace

Giampiero Gramaglia

Dalla partita di scacchi e la scelta di invadere l’intera Ucraina al tragico gioco dell’oca di questi giorni con la decisione di concentrarsi sul Donbass. Dopo due mesi di guerra le pagelle di Giampiero Gramaglia a Vladimir Putin e agli altri protagonisti in ricerca della pace.

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Vladimir Putin 0

Con una mossa sola, sbagliata e criminale, l’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin rischia di perdere tutto: quello che poteva ottenere senza scatenare una guerra sanguinosa, l’annessione del Donbass – alla peggio al modo della Crimea -, il favore degli oligarchi, il potere. Nelle cronache occidentali, è volta a volta pazzo, malato, isolato, minacciato; lui appare freddo e algido, come sempre. La sua Russia non è quella di Lenin e Stalin, cui anzi contesta la gestione dell’Ucraina, ma quella degli zar, Pietro il Grande più di Caterina II. La conta degli alleati è deludente, Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Siria, ma fra quanti evitano di condannarlo c’è oltre  un terzo dell’umanità, con Cina e India. Peggio di lui, fa solo il suo sodale Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie: al suo confronto, Urbano II era un campione dell’ecumenismo.

Volodymyr Zelenskyj, il presidente 6, l’attore 8

Quando venne eletto, nella primavera del 2019, a molti, quasi a tutti, parve l’epigono degli ‘istrioni al potere’ di questo scorcio di XXI Secolo: una serie inaugurata da Silvio Berlusconi, antesignano nel ruolo, e portata all’apice da Donald Trump; imprevedibilità e incompetenza esaltate a titoli di merito e mescolate generosamente con populismo e qualunquismo e soprattutto con la capacità d’interpretare gli umori della gente, cioè di conquistare il favore degli elettori.

A Zelensky, poi, l’appellativo di ‘istrione’ sembra tagliato su misura: lui era un attore e il titolare di una compagnia di produzione, divenuto popolare interpretando il presidente in una serie televisiva intitolata Servitore del Popolo; e il suo partito si chiama proprio così, Servitore del Popolo

Ma nella crisi con la Russia, prima, e dopo l’invasione, ora, quell’ometto che come attore ricordava un po’ il Mr. Bean di Rowan Atkinson ha saputo ritagliarsi un nuovo ruolo che gli calza a pennello. E gli autori dei discorsi e i costumisti lo assecondano molto bene: Parlamento che vai, citazione che trovi; e sempre la maglietta militare, che non è aggressiva come la mimetica, ma che fa passare l’idea di una mobilitazione popolare.

Il presidente attore è così divenuto il simbolo e l’ambasciatore della resistenza ucraina.

Ma la battuta migliore, e più tragica, gliel’ha però scippata il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba: “Che cosa vogliamo? Tre cose, armi, armi, armi”.

Joe Biden 3

L’anello labile della riflessione occidentale sulla vicenda ucraina sono in questa fase gli Stati Uniti d’America  del Presidente Joe Biden. In missione in Europa per una trilogia di Vertici senza pari nella storia, Nato, G7 e Consiglio dell’Unione europea lo stesso giorno, giovedì 24 marzo 2022, nello stesso luogo, Bruxelles, Biden constata che l’Occidente è più forte e più unito che mai: “Questa guerra è già un fallimento strategico per la Russia”. Ma poi afferma che “Putin non può restare al potere” e fa sprofondare le relazioni russo-americane al punto più basso di tutta la Guerra Fredda – nessun presidente Usa lo aveva mai detto di Josip Stalin o Leonid Illic Brezhnev – e suscita un corso di critiche e distinguo – neppure Donald Trump veniva corretto così platealmente -. Ma, in realtà, Biden, cui su Putin scivola spesso la frizione lessicale – assassino, criminale di guerra, dittatore, macellaio, genocida, alcuni degli epiteti appioppati al leader russo, con cui l’Occidente dovrebbe negoziare, se vuole la pace -, ha scoperto il gioco: l’obiettivo di Washington non è fare cessare la guerra, ma indebolire la Russia ed eventualmente liberarsi di Putin. Lo asseconda, camminando sul filo della Terza Guerra Mondiale, Boris Johnson 4, un clone di Trump che cerca di ridare smalto alla relazione speciale tra Stati Uniti e Gran Bretagna.

Antonio Guterres senza voto

Lui e l’Onu, di cui l’ex premier portoghese è segretario generale, sono i grandi assenti di questa crisi: il Consiglio di Sicurezza è paralizzato dai diritti di veto, ma Antonio Guterres non mette la testa fuori dal Palazzo di Vetro. Magari lavora sotto traccia, ma talmente sotto che nessuno se n’accorge.

Ursula von der Leyen senza Charles Michel 6

Le donne dell’Unione europea fanno decisamente meglio degli uomini: a Kiev, la presidente della Commissione europea ci va senza il bambolotto belga Charles Michel, così è sicura di non trovarsi sullo strapuntino, arrivando però dopo la maltese d’assalto Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, che va all’incontro con Volodymyr Zelenskyj (tra)vestita da Zelensky, voto 8. Ursula von der Leyen lavora su pacchetti di sanzioni a raffica, moderatamente indolori per chi le applica e per chi le subisce, e riesce a tenere insieme l’Unione dove ci sono oltranzisti anti-russi – polacchi e baltici -, ‘putiniani doc’ – con capifila gli ungheresi – e cerchiobottisti. Ma incidere sulla crisi è altra cosa.

Jens Stoltenberg 6

Il segretario generale dell’Alleanza atlantica giustifica la proroga di un anno rispolverando linguaggio e concetti dai discorsi di Joseph Luns, il suo predecessore più longevo (ora lui lo insidia). Lui non dice una parola fuori posto – anzi, al Fantacalcio Putin se lo metterebbe in squadra, al posto di qualcuno degli stoccafissi che si ritrova -; ma la pace non è affar suo.

Emmanuel Macron / Olaf Scholz 5 1/2

Voto di coppia, dove forse il presidente francese meriterebbe la sufficienza e il cancelliere tedesco resterebbe un po’ sotto. Macron parla più di tutti con Putin, ma non ne cava un ragno dal buco; e, quando s’accorge che rischia di perdere le elezioni, molla tutto, impegnandosi a vincerle. Scholz è quello che, prima dell’invasione, va a Kiev a dire quello che tutti sanno, che nessuno vuole l’Ucraina nella Nato; poi, scoppiato il conflitto, s’è trovato impaniato nelle discussioni europee e interne alla sua coalizione. Da ‘chi l’ha visto?’ invece i leader degli altri Grandi dell’Unione, Mario Draghi, che forse si sta cercando un lavoro per il dopo Chigi, e Pedro Sanchez.

Recep Tayyip Erdogan 7

Il presidente turco, che ha tutti i difetti di questo mondo e di più, e pure  \\\\.dicap di essere nella Nato, almeno ci prova: fa incontrare ad Antalya i ministri degli Esteri russo e ucraino, poi a Istanbul le delegazioni a fine marzo. Ma, a quel punto, Kiev, forse consigliata da Washington, decide di mettere la pace in naftalina e Erdogan prova a tenere a galla il negoziato, ma non riesce più a farlo avanzare.

Naftali Bennet 6

Il premier israeliano ci prova, meno del presidente turco; ma a un certo punto smette di provarci, senza che sia chiaro perché, e sparisce. Forse c’entra il fatto che Volodymyr Zelenskyj sbaglia misura quando parla alla Knesset, dove, lui ebreo, crede di giocare in casa: paragone guerra in Ucraina e Olocausto e crea il gelo, anche perché non tutti hanno dimenticato che molti ucraini combatterono per il Terzo Reich nella Seconda Guerra Mondiale. E magari Naftali Bennett percepisce pure gli umori americani.

Xi Jinping 5

Il presidente cinese è l’ignavo della situazione, quello che “potrebbe” ma “non fa”: è per il rispetto dell’integrità territoriale, ma non condanna l’invasione; è contro le sanzioni, ma non fa nulla per distendere il clima; e, anzi, ne approfitta per attizzare la brace sotto Taiwan. Se questa è una ‘Super-Potenza’: pare l’Olanda, affari e basta. Non meglio il premier indiano Narendra Modi.

Papa Francesco 9

E’ l’unico che pensa e parla pace. Ma è anche quello che nessuno sta a sentire. Neppure, si direbbe, lassù.

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