In un lungo articolo Michele Mezza spiega le ragioni della vittoria, solo di stretta misura, contrariamente a quanto previsto dagli istituti demoscopici, di Lula contro Bolsonaro, che rende molto difficile il mandato per governare di un Presidente privo di una maggioranza in Parlamento. Mezza tra le altre cose ci spiega le ragioni per le quali le vittime della crescita delle diseguaglianze hanno votato per i loro carnefici.
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Contrariamente a quanto ha affermato nei festeggiamenti del dopo voto, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, detto Lula, iL Brasile esce da queste elezioni come un paese con due popoli, e soprattutto due visioni diverse del proprio destino. Un dualismo al quale il nuovo presidente farà bene a dare una forma e soprattutto un modello di governo, consolidando rapidamente il dialogo con le forze del centro moderato che escono schiacciate da questo scontro politico.
La sua resurrezione politica, dopo il calvario della persecuzione subita proprio dal governo uscente, appare davvero miracolosa, ma, altrettanto appare incontestabile l’evidenza di una robustissima coda popolare che ha seguito la campagna elettorale del presidente uscente Jair Bolsonaro.
I dati sono davvero spietati, e sarebbe un errore gravissimo per la sinistra brasiliana affidarsi alla massima di Gyorgy Lukàcs, il grande filosofo ungherese che convisse con lo stalinismo non senza mantenere una separata autonomia di pensiero, che in una famosissima intervista ad un allora giovanissimo Franco Ferrarotti, patriarca della sociologia italiana, sosteneva che “un rivoluzionario non si fa condizionare dai fatti”.
Anche questa volta sarebbe bene guardarli in faccia invece i fatti, e farsi condizionare da loro nell’analisi e nelle aspettative per un gigante quale è il Brasile.
La vittoria di misura di Lula contro una composita alleanza sociale di ceti interessi e comunità ostili
Il settantasettenne ma ancora lucidissimo e soprattutto battagliero ex sindacalista di San Paolo Lula ha vinto l’elezione più contesa e sospesa della storia dell’intera America latina scontrandosi non solo con il portabandiera della destra più retriva e aggressiva ma anche con un‘alleanza sociale composita di ceti, interessi e comunità anche fortemente differenziate fra di loro, ma tutte convergenti nell’intolleranza nei confronti di una leadership riformatrice e progressista quale quella che ha sostenuto il suo avversario.
Siamo oltre il tradizionale schema della contrapposizione fra città e campagne, fra centro e periferia, adottato per leggere la geografia elettorale in Occidente, dove destre populiste si oppongono a sinistre elitarie.
L’incombere di una destra radicale e sfacciata, che non fa velo del suo estremismo, risponde ad una logica nuova, ad una diversa concezione degli interessi individuali che vengono percepiti anche a latitudini sociali insospettabili.
Vedremo approfondendo i numeri che la categoria che sembra più utile per decifrare questi comportamenti elettorali di grandi masse quali quelli che hanno segnato il voto brasiliano è lo scontro fra hub e Hinterland, fra connettori e autarchici, potremmo semplificare.
E’ questo il ragionamento proposto dall’economista di Harvard Micheal Lindt nel suo saggio La Nuova Lotta di Classe. Elite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia[1], in cui si focalizza sulla dialettica conflittuale fra quella che definisce una “superclasse” burocratica ad alto grado di specializzazione e istruzione che, contrariamente a quello che i meccanismi della selezione per merito lascerebbero supporre, tende a rinnovarsi e a scontrarsi con una classe di lavoratori sempre più numerosa, che vive ai margini o al di fuori dei grandi centri, e si sente esclusa da qualsiasi ambito socialmente rilevante. Un conflitto moderno che snatura le identità tradizionale del movimento dei lavoratori perfino nel Brasile più sindacalizzato.
Tutti i sondaggi , fino alla viglia del primo turno, un mese fa, accreditavano per il vincitore un distacco di sicurezza di almeno dieci punti rispetto al presidente uscente, quell’impresentabile Jair Bolsonaro che continuava a proporsi come una caricatura di Donald Trump al ritmo di samba.
Gli errori degli istituti di sondaggio alla vigilia del primo turno e la stratificazione sociale del voto
E ancora qualche ora prima del secondo turno di domenica 30 ottobre 2022, gli stessi sondaggi, univocamente attribuivano nelle elezioni presidenziali un distacco meno forte ma non discutibile fra i due candidati: in media almeno quattro punti a favore di Lula.
I fatti ci hanno detto che non era così.
Non lo è stato ne in quantità, perché il distacco si è ridotto a poco più di un punto in percentuale, e non lo è soprattutto in qualità, perché Jair Bolsonaro, dopo i quattro anni del governo più disastroso e ingiustificabile della storia del paese, riesce nelle elezioni per il rinnovo ella Camera dei Deputati ad assicurarsi il controllo del Parlamento e degli stati più influenti, come il centrale stato Minas Gerais, della megalopoli San Paolo, culla del Partido dos Trabalhadores (PT), il partito dei lavoratori di Lula, e l’emblematico stato dell’Amazzonia, teatro del più criminale scempio ambientale, consapevolmente programmato da un governo.
Una matassa di indicazioni che ci viene sbrogliata dalla professoressa Wasmalia Bivar, l’ex presidente dell’istituto nazionale di statistica brasiliano ai tempi della presidenza di sinistra di Dilma Vana Rousseff.
Secondo le tendenze elettorali, ci conferma la professoressa, i poverissimi hanno votato in massa per Lula, mentre insieme alla borghesia speculativa e proprietaria, anche i ceti medio bassi, sia nelle città che nelle campagne hanno continuato ad appoggiare Bolsonaro.
Diciamo per usare una formula su cui stanno lavorando i sociologi anche in Europa, se gli ultimi rimangono in qualche modo legati alla sinistra i penultimi e i secondi sembrano ormai stabilmente integrati nel blocco di destra con un ceto medio dunque sempre più rdicalizzato.
II difficile mandato per governare di un Presidente della Repubblica Federale del Brasile privo di una maggioranza in Parlamento
Un quadro che rende ancora più difficile il mandato a governare a Lula che sarà costretto a cercare il sostegno del sistema tecnico burocratico delle amministrazioni delle compagnie private e pubbliche ma dovrà dare segnali chiari e risolutivi ai circa 35 milioni di poverissimi che attendono qualcosa più di una rassicurazione.
La destra, ci dice ancora la professoressa Wasmalia Bivar mostrandoci i grafici ufficiali delle organizzazioni internazionali latino americane, che ha governato pur consumando i disastri denunciati dalle stesse autorità monetarie ed economiche globali, come il Fondo Internazionale, ha comunque addirittura accresciuto i suoi voti, arrivando su poco più di 100 milioni di votanti, a soli due milioni dal nuovo presidente.
Le ragioni per le quali le vittime della crescita delle diseguaglianze hanno votato per i carnefici
Un quadro apparentemente inspiegabile se si rimane alla contrapposizione tradizionale fra proprietari e diseredati, fra dominatori e subalterni, che ancora segna le società latino americane. Tanto più se si guarda agli effetti dell’amministrazione Bolsonaro. Se si comparano i voti raccolti dal leader della destra agli indici economici dei quattro anni di presidenza Bolsonaro, dovremmo concludere che le vittime hanno votato per i carnefici. In questi 50 mesi di svolta reazionaria infatti risulta materialmente realizzata quella metafora con cui Warren Buffet, il mago di Wall Street aveva sintetizzato gli ultimi 30 anni :
”la lotta di classe è esistita davvero, e l’abbiamo vinta noi”.
Quel “noi”, i ceti proprietari e speculativi del mercato, sono stati i veri beneficiari della gestione di Bolsonaro. Potremmo dire che l’indice Gini, che misura le diseguaglianze di un paese, ci mostra come nei quattro anni di governo di destra la distanza fra l’ultimo 20 per cento della popolazione rispetto al primo 20 per cento sia quasi raddoppiata. Un valore incrementale senza precedenti in uno spazio temporale così ristretto. L’unica pausa, ci indica la professoressa Bivar, come si vede dal grafico qui sopra sulla Disuguaglianza, in quel processo di separazione fra ricchi e poveri si è registrata nei mesi della prima fase di Covid in cui Bolsonaro cercò di compensare gli effetti disastrosi del suo lassismo nelle misure di contenimento del contagio con una larga spesa di sostentamento della popolazione.
Ma ancora più chiaro appare lo scenario socio economico del Brasile che è andato a votare se consideriamo i dati sul potere d’acquisto delle famiglie, grafico numero 2. Si tratta dell’indice di relazione fra la Cesta Bàsica, più o meno l’equivalente dei prodotti del nostro paniere Istat per misurare la dinamica dei prezzi, con il salario minimo, che in Brasile era stato istituito proprio dalla precedente presidenza Lula.
L’andamento del potere d’acquisto dei brasiliani
Negli ultimi 15 anni, che abbracciano i due mandati di Lula e quello successivo della presidente Dilma Rousseff fino al presidente uscente di destra, possiamo vedere come la curva dell’andamento del potere d’acquisto, con l’inevitabile oscillazione determinata dalla concatenazione fra l’aumento dell’inflazione e i correttivi del governo, indichi una tendenza alla riduzione del dislivello fra prezzi e salari, fino proprio al momento dell’elezione di Bolsonaro, in cui la sperequazione si impenna.
Questa dinamica mostra con chiarezza chi siano state le vittime della presidenza di Jair Bolsonaro.
In Brasile, a differenza dello scenario europeo, questo indice, una specie di scala mobile, è estremamente sensibile e altamente indicativo per comprendere le condizioni di vita reale.
Circa il 54 per cento della popolazione infatti vive con un trattamento salariale che non si discosta di molto dal salario minimo.
In questo caso vedere come si sia logorato l’equilibrio ci fa intendere in quali condizione di miseria e sottalimentazione si siano trovati almeno 25 milioni di brasiliani.
Infatti tutte le rilevazioni sugli acquisti alimentari nel paese mostrano una caduta clamorosa degli acquisti anche nei grandi discount dove si approvvigionano i ceti più disagiati.
E il primo riflesso di questa tragica congiuntura economica è stato l’aumento immediato della mortalità nei soggetti con meno di 40 anni. Un dato che in Brasile mostra fedelmente le condizioni di vista, assistenza e supporto ai larghi strati che vivono in condizioni estreme.
Con Lula la mortalità di giovani e bambini si era ridotta del 30 per cento, con Bolsonaro è immediatamente aumentata del 26 per cento, prima del Covid, [e] stiamo [solo] riportando i dati della fine del 2019.
Ma il quadro della devastazione economica non riguarda solo una lotta di classe al contrario, come dice appunto Buffet, ma anche l’intero orizzonte di sviluppo del Brasile che ha pagato l’assenza di ogni strategia o politica di propulsione sia industriale sia nei servizi, con una caduta degli investimenti sia pubblici, meno il 50 per cento rispetto alle presidenze di sinistra di Lula e Rousseff, sia privati, meno il 30 per cento.
La carta del protezionismo giocata dalla destra populista
La destra populista ha giocato con cinismo la carta del protezionismo sul mercato interno, accusando la globalizzazione di aver colpito il lavoro brasiliano, mentre invece tutte le analisi ci dicono che lo scambio fra l’outsourcing dai paesi più ricchi è assolutamente virtuoso per Brasilia che ha importato consistenti quote di lavoro. Ma il protezionismo è servito, così come serve anche nel nostro paese con la bandiera del sovranismo alimentare e industriale, ad assicurare alle rendite di posizione consistenti profitti, schermandoli dalla concorrenza internazionale.
Ce lo spiega il geografo statunitense Phil Neel con la sua ricerca intitolata Hinterland. America’s New Landscape of Class and Conflict[2] in cui descrive il modello economico che si instaura nelle aree governate dal sovranismo reazionario. Si tratta, spiega Neel che analizza lo scenario statunitense ma anche europeo, di realtà dove si innestano pratiche di sfruttamento economico del territorio fortemente intensivo con attività estrattive e di allevamenti che alterano in profondità l’ambiente. Esattamente quanto è stato incentivato dagli uomini di Bolsonaro non solo in Amazzonia. Anche in questo caso guardando i voti in quelle zone ritorna la domanda: ma perché il consenso per questo scempio è arrivato a tali valori?
Il concorso della lobby degli agricoltori nella devastazione dell’Amazzonia
In certe aree agro industriali, come nel nord del paese, dove pure Lula ha costruito la sua vittoria, i candidati locali di Bolsonaro, coloro che materialmente hanno mediato le strategie estrattive di sfruttamento del suolo più brutali, hanno avuto lusinghieri risultati, arrivando in molti casi a raddoppiare voti ed eletti al parlamento. Indubitabilmente si deve constatare come persino la base indigena abbia votato in percentuale rilevante per i candidati che sostengono la liberalizzazione delle estrazioni minerarie e agro industriali dal territorio, con la conseguente deforestazione.
Con l’ottica italiana – di chi ha assistito ad esempio alla frana del consenso alla sinistra in regioni come l’Umbria, la Toscana o la stessa Emilia e Romagna – dobbiamo verificare come la spinta all’imprenditorialità individuale, e l’assalto alle risorse naturali sia un istinto che attraversa trasversalmente ceti e comunità che sembravano naturalmente base della democrazia garantista. Infatti molti dei candidati bolsonaristi hanno promosso norme e leggi che condividevano i diritti di estrazione e di sfruttamento con le comunità dei nativi che sono così entrate nel business della terra.
Cambiare questa spinta è oggi uno dei primi obbiettivi della nuova amministrazione. Ma per farlo non basteranno le raccomandazioni di pura conservazione dell’equilibrio naturale. Si conferma il vecchio adagio per cui l’ecologia che con considera la questione sociale diventa giardinaggio elitario.
L’unico settore dove si segnalano iniziative è quello agro industriale con la devastazione dell’Amazzonia. La lobby degli agricoltori, la vera base sociale di Bolsonaro, ha infatti ottenuto il sostegno alle più scellerate azioni di deforestazione per un uso intensivo delle colture e degli allevamenti che stanno estendendo le aree di inquinamento del polmone del mondo.
L’azzeramento della comunicazione e della cultura
Ma Bolsonaro non si è limitato ad esasperare i contrasti economici: ha anche del tutto azzerato una delle principali materie prime del Brasile che è la comunicazione e la cultura.
Uno dei paesi che più sono protagonisti nell’immaginario planetario, dove ci sono inattaccabili primati nel campo della letteratura, della musica e dello sport, si è visto degradato a luogo di volgare diffusione dei più indecenti luoghi comuni sulla facilità di contatto delle donne o la bassa vigilanza sulle attività illegali, come prostituzione e stupefacenti.
Bolsonaro ha abolito il ministero della Cultura, che è come abolire in Arabia Saudita quello del petrolio, tagliando ogni finanziamento a eventi e iniziative che davano lustro ai luoghi mitici della letteratura e musica brasilera.
Una scelta che ha voluto consapevolmente colpire quel ceto professionale di massa, si calcola che siano almeno 15 milioni l’indotto delle attività culturali interne ed esterne nel paese, sospettato di intelligenza con il nemico, che nella fattispecie è la sinistra. Una guerra preventiva che voleva debilitare proprio quelle figure che avrebbero potuto affiancare ed estendere la leadership di Lula.
La lotta al Covid nel Brasile di Bolsonaro e il ruolo della magistratura nella liberazione di Lula
Emblema di questa scellerata politica reazionaria, dove il pubblico è stato umiliato e rattrappito ed è stata data mano libera ai più avventurosi speculatori privati in ogni campo, è stata la campagna di lotta al Covid. Bolsonaro si è distinti come il pittoresco e esuberante testimonial della visione di destra per cui il virus non esiste e si tratta solo di una manipolazione globale per controllare gli individui.
Da fine marzo del 2020, quando l’infezione è sbarcata in forze oltre atlantico, il presidente brasiliano, insieme a Donald Trump dalla Casa Bianca ha battuto la gran cassa del liberismo, rifiutando qualsiasi impegno pubblico nel contrasto al virus e opponendosi anche alle più elementari forme di cautela, come le aborrite mascherine, raccomandate da tutte le autorità sanitarie.
Il risultato è stato di una spettacolare tragicità: 35 milioni di contagiati ufficiali, ma si stima che almeno si sia arrivati a superare quota 80 milioni, e 700 mila morti censiti con attendibili valutazioni che arrivano a contarne almeno 2 milioni.
La magistratura e la scomparsa di un centro conservatore e moderato in un quadro polarizzato
In questo paese [politicamente] balcanizzato e sbandato, senza il minimo senso comune e una credibile guida istituzionale si arriva, nel novembre 2019 dopo diciotto mesi di carcere, alla liberazione di Lula, dopo che la Corte Suprema del paese, dinanzi a prove inoppugnabili della macchinazione che lo aveva portato in prigione, decide di archiviare le accuse di corruzione.
Era il segno di un declino ormai inarrestabile di Bolsonaro e della sua destra machista.
La magistratura in Brasile, più ancora che negli Stati Uniti, è una diretta emanazione dell’esecutivo, e risponde al ministero della giustizia, che era occupato proprio dal giudice che aveva imbastito il processo farsa contro Lula.
Proprio da questa cupola elitaria era venuto il segnale che incrinava il monopolio della destra.
Si attendeva, e questo mi pare il vero buco nero su cui concentrare l’attenzione, l’emergere di forze e personalità moderate che rilevassero la leadership di Bolsonaro e aprissero la strada ad una nuova maggioranza conservatrice ma aperta ad aree più tradizionali del potere brasiliano.
Non è accaduto. Tutto il fronte politico del paese si è polarizzato attorno ai due simboli più connotati, come appunto l’ex capo sindacale Lula e l’improvvisato presidente uscente.
In mezzo niente. Non solo a livello nazionale, ma lungo tutto l’arco della politica brasiliana, negli stati, nelle grandi megalopoli, nelle comunità. Nessuna forza intermedia ha trovato spazio.
La radicalizzazione del ceto medio e la dispersione della classe operaia
Il ceto medio, che in Brasile ha diverse connotazioni e interessi, a secondo se è ancorato all’indotto della spesa pubblica o invece legato alla borghesia compradora di tradizione latinoamericana, si è radicalizzato, barricandosi nelle sue enclave residenziali, e separandosi anche fisicamente dalla moltitudine periferica.
- Il ceto professionale e tecnocratico, cresciuto enormemente in un paese che si candida a diventare una potenza tecnologica, rimane esterno alla politica e si caratterizza per occasionali scelte d’opinione, non ha trovato alcuna rappresentanza e rimane costantemente proiettato sulla scena statunitense di cui si considera un’appendice.
- L’ancora vasto movimento operaio, che in alcune realtà del sud del paese, mantiene una dimensione di massa, ha perso la sua specificità ideologica e culturale, disperdendosi nei rivoli dei singoli settori e territori diventando massa di manovra di gruppi locali.
- Infine la sterminata area di disagio e povertà che è stata anch’essa differenziata al suo interno in base ai livelli di assistenza e protezione ricavata dalle promiscuità socio politiche, è contesa dai contropoteri illegali e dal clientelismo dei signori delle metropoli.
Il ruolo delle Chiese evangeliste come aggregatore delle periferie, collante organizzativo della destra populista
Un mosaico ricomposto solo dalla sorgente attrazione religiosa.
Le chiese evangeliste che hanno superato l’influenza della comunità cattolica, sia in numero dei fedeli sia in capacità di interferenza sulla politica, sono oggi il vero aggregatore delle periferie. Sono queste entità, che si articolano dal livello di grandi comunità popolari ad un pulviscolo di sette e nicchie incontrollabili, a parlare più direttamente con le masse dei più diseredati. Un magnete che, esattamente sulla falsariga statunitense, funge da collante culturale e organizzativo della grande destra popolare e populista.
Una forza che si è visto agire anche nei confronti della gerarchia cattolica, meno presente che in altre scadenze, in queste elezioni. Gli evangelici sono stati i grandi finanziatori e sostenitori della destra senza quartiere di Bolsonaro, e soprattutto i veri nemici del ritorno di Lula.
Cosa potrà fare la Terza presidenza Lula in questo contesto per ricostruire un senso di comunità?
In questo orizzonte da fine guerra, in cui si tratta di ricostruire un senso di comunità, prima ancora che un quadro normativo ed economico, Lula deve innanzitutto, lo dicevamo all’inizio, compensare la sua debolezza, istituzionale, con un parlamento a maggioranza reazionaria, allargando la sua base di consenso al centro moderato che non ha avuto alcun ruolo in questa polarizzazione. Un’operazione non facile visto la radicalizzazione che ha toccato anche quest’area sociale.
Tre sono i passaggi che attendono ora il nuovo presidente:
- intanto riuscire a condurre la transizione dei poteri rispetto agli sconfitti che ancora, al momento in cui scriviamo, non hanno riconosciuto l’esito elettorale. Davanti abbiamo due mesi , prima dell’insediamento del nuovo presidente eletto, previsto non prima del gennaio del 2023, in cui davvero tutto può accadere.
- anche in vista di scoraggiare avventure golpiste, Lula deve raccogliere il messaggio che gli è subito venuto dal presidente americano Joe Biden che rivede in quello che sta accadendo in Brasile quanto lui stesso vive con l’opposizione trumpiana, in vista per altro delle elezioni di mid term. Un appoggio chiaro dagli Stati Uniti della Casa BIanca potrebbe dare slancio e sicurezza all’amministrazione della sinistra brasiliana
- costruire un’alleanza di reciproca fiducia e riconoscimento con la borghesia amministrativa per mettere il governo in sicurezza e estendere il consenso gestionale. Il tutto ovviamente senza incrinare le ragioni e le aspettative della base sociale che ha fatto vincere Lula.
Tre tappe di un percorso che presuppone un radicamento forte e diretto con il paese. In questo Lula deve resistere alla tentazione di sovrapporsi ad ogni istanza politica come Presidente e rilanciare con forza l’organizzazione sociale del suo partito che può essere un impresario di comunità e socialità nel deserto lasciato da Bolsonaro.
Un percorso complesso e incerto che il vecchio sindacalista ha tempra e coraggio per affrontare.
E del resto qual è l’alternativa?
[1] Michael Lind, Nuova Lotta di Classe. Elite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia. Con un saggio di Lorenzo Castellani e Raffaele Alberto Ventura, Roma, Luiss editore, 2021, 227 p.
[2] Così la quarta di copertina: “Negli ultimi quarant’anni il panorama degli Stati Uniti è stato radicalmente trasformato. È parzialmente visibile nell’ascesa di scintillanti centri costieri per la finanza, l’infotech e la cosiddetta “classe creativa”. Ma questa è solo la punta di un iceberg economico, la maggior parte del quale giace nell’oscurità del cuore in declino o ai margini scarsamente illuminati di città tentacolari. Questo è l’hinterland americano, popolato da torreggianti trebbiatrici e da braccianti ingobbiti, dove lavoratori provenienti da ogni angolo del mondo si affollano nelle fabbriche e nei “centri di realizzazione”. Spinta da una crisi in continua espansione, la struttura di classe americana si sta ricomponendo in nuove geografie di razza, povertà e produzione. Attingendo alla sua esperienza diretta dei recenti disordini popolari, Phil A. Neel offre una vista ravvicinata di questo paesaggio in tutti i suoi dettagli cupi ma accattivanti e racconta la storia intima di una vita vissuta all’interno dell’America”, Phil A. Neel, Hinterland. America’s New Landscape of Class and Conflict, London, Reaktions Book,2018, 208 p.