La storia

Democrazia futura. La rete unica in Italia: argomentazioni attorno a un’idea, 1861-2021

di Gabriele Balbi, professore associato in media studies, USI, Università della Svizzera italiana di Lugano |

Un approccio storico attorno all'idea di rete unica in Italia, che ripercorre la lunga strada delle telecomunicazioni in Italia dal 1861 ai giorni nostri.

Gabriele Balbi

Gabriele Balbi, professore associato in media studies all’Università di Lugano fornisce un approccio storico attorno all’idea di rete unica in Italia ripercorrendo tutta la storia delle telecomunicazioni in Italia dal 1861 ai giorni nostri. Balbi parte dalla questione della “standardizzazione dei sistemi di comunicazione” definita “un problema e un’urgenza fin dall’unità d’Italia [….] Un tratto comune a tutte queste iniziative di standardizzazione è, da un lato, l’intervento pubblico (cosa peraltro naturale in un settore come quello delle telecomunicazioni) e, dall’altro, la guida di organismi internazionali o la partecipazione di aziende italiane a consorzi almeno europei”. Affronta poi la problematica del servizio universale dal telefono ad Internet giudicando “La storia della perequazione (o della sperequazione) nazionale delle telecomunicazioni […] lunga e politicamente orientata”: “Storicamente – chiarisce Balbi – si è assistito a varie combinazioni: collaborazione (e a tratti collusione) tra pubblico e privato, argomentazioni a favore e contrarie all’ingresso di capitali privati stranieri, forme di convivenza”. Balbi ripercorre infine il precedente in materia di cablaggio a banda larga rappresentato dal progetto Socrate chiarendo le tre ragioni del suo fallimento: costi eccessivi, tecnologie vecchie e disinteresse del mercato e delle forze politiche. Venticinque anni dopo -conclude Balbi – queste ragioni [andrebbero] “comprese a fondo prima di imbarcarsi in nuove avventure”.

Il recente dibattito sulla rete unica a banda larga in Italia è per alcuni versi inedito. In primis, perché ha raggiunto una fase culminante in un momento drammatico con la pandemia di Covid-19, che ha oltretutto evidenziato una necessità quasi improvvisa di internet a grande velocità per lavorare, informarsi, andare a scuola. Inoltre, perché vede contrapposte due tra le più rilevanti aziende tecnologiche italiane come Telecom Italia ed Enel, con lo Stato che ha partecipazioni in entrambe. Infine, perché avviene in un momento storico caratterizzato dalla digitalizzazione spinta, dall’ascesa di nuove potenze globali come la Cina e dall’affermazione di nuove realtà anch’esse mondiali come le piattaforme digitali (dalle galassie Google, Facebook e Amazon, alle cinesi Tencent, Hawuei e Alibaba). Ci sono quindi nuovi attori, nuove tecnologie e, forse, inedite richieste degli utenti che si sono sviluppate attorno al dibattito sulla rete unica.

Eppure, sorprendentemente almeno per chi non fa storia delle telecomunicazioni, tra le argomentazioni a supporto della nuova rete e tra quelle contrarie, si assiste alla riemersione di alcuni topoi classici che accompagnano lo sviluppo delle telecomunicazioni italiane almeno dall’unità del paese. Ne sottolineerò tre, tra i molti possibili, cercando di ricostruirne brevemente i passaggi più originali.

La standardizzazione tecnologica

Per costruire una rete unica nazionale, posseduta da uno o più soggetti, occorre standardizzare le tecnologie utilizzate. Standardizzare le reti significa anche far parlare tra loro tecnologie diverse, con Telecom Italia che possiede ancora ampi tratti della rete telefonica in rame (tratti molto preziosi perché portano alle case, il cosiddetto ultimo miglio), ma è chiaro come una rete a grande velocità necessiti di fibra ottica. Un secondo settore in cui la standardizzazione, a livello non solo italiano ma addirittura europeo, è vista come una dimensione strategica è la sicurezza, con standard crittografici unici per il trasferimento dei dati.

La standardizzazione dei sistemi di comunicazione è un problema e un’urgenza fin dall’unità d’Italia. Nel 1861, infatti, i primi governi nazionali si interrogavano su come uniformare «le linee telegrafiche (che) erano costruite usando elementi di distinta qualità: diversi metalli per i fili conduttori, diverse tipologie di legname per i pali che li sorreggevano, differenti tipologie di isolatori per sostenere i fili sui pali e in molti casi differenti macchine telegrafiche» (1). Si trattava di un panorama variegato, in cui gli stati preunitari avevano preso decisioni profondamente disomogenee, fino a non poter comunicare tra di loro per le differenti tecnologie impiegate: noto è il fatto che, per esempio, non si potesse telegrafare tra il Regno di Piemonte e Sardegna e il Lombardo-Veneto (e quindi tra Torino e Milano). La scelta compiuta fu quella di una standardizzazione imposta dall’alto o, meglio, di “piemontesizzare” il sistema telegrafico come disse in parlamento il Ministro dei lavori pubblici Ubaldino Peruzzi. La standardizzazione avvenne faticosamente e con investimenti pubblici ingenti, dietro anche la spinta internazionale: l’Unione telegrafica (oggi Unione internazionale delle telecomunicazioni, ITU) si formò infatti nel 1865 e “impose” ai vari stati membri di standardizzare il nuovo mezzo non solo a livello nazionale, ma soprattutto internazionale. La rete telegrafica unica prevedeva ad esempio l’uso generalizzato del telegrafo Morse, una standardizzazione delle tariffe nazionali e internazionali e dei materiali con cui erano costruite le linee.

La standardizzazione tecnologica, da allora, è stata un problema che si è ripresentato costantemente in Italia: si pensi alla divisione in varie zone telefoniche volute dal Fascismo, alla riunione finanziaria di varie compagnie sotto l’ala della SIP negli anni Sessanta (che lasciò però vari problemi di standardizzazione), agli sforzi e la lungimiranza di STET negli anni Settanta e Ottanta (che partecipò con altre aziende di telecomunicazioni europee alla creazione dello standard X.25, il maggior competitor del TCP/IP), al “miracolo burocratico europeo” dello standard GSM, alle difficoltà nel trovare uno standard unico per le prime reti internet a banda larga in Italia negli anni Novanta.

Un tratto comune a tutte queste iniziative di standardizzazione è, da un lato, l’intervento pubblico (cosa peraltro naturale in un settore come quello delle telecomunicazioni) e, dall’altro, la guida di organismi internazionali o la partecipazione di aziende italiane a consorzi almeno europei. La standardizzazione nazionale è insomma passata storicamente anche da rapporti e collegamenti internazionali.  

Servizio universale e perequazione nazionale: pubblico o privato? 

Una delle ragioni principali che guidano la costruzione della rete unica in Italia è di carattere socio-culturale. In un momento storico in cui la connessione internet si può paragonare alle forniture di acqua, gas ed elettricità – in cui cioè sembra essere un bene indispensabile –, occorre fornire ai cittadini un servizio universale: allacciare con uno standard minimo di banda larga anche chi vive nei territori orograficamente più svantaggiati e isolati è diventato insomma un dovere per lo Stato. Negli ultimi anni, Open Fiber ha sicuramente puntato più di Telecom Italia su queste zone del paese meno remunerative, dove cioè si trovano un numero minore di potenziali abbonati, e per questo Telecom Italia ha attirato su di sé alcune critiche.

La storia della perequazione (o della sperequazione) nazionale delle telecomunicazioni è lunga e politicamente orientata. Le origini della telefonia in Italia costituiscono forse l’esempio più interessante (2): tra il 1878 (anno di arrivo del telefono in Italia) e la Prima guerra mondiale si succedettero una decina di governi, spesso con orientamenti politici opposti. Questo ha determinato (e, ancora oggi, determina) repentini cambiamenti nelle politiche di telecomunicazione. Banalmente, governi che supportavano la gestione pubblica della telefonia vedevano nella perequazione un obiettivo essenziale, come si legge già in un dibattito parlamentare del 1890: lo Stato “avendo in mano tutta la rete nazionale, si compenserebbe in una parte di quel che perderebbe in un’altra: esso, che non ha a fine la speculazione, e che quando tratta di servizi pubblici, deve assicurarli alle popolazioni anco se non proficui economicamente, e anche se a perdita” (3). Mentre governi di orientamento opposto lasciavano lo sviluppo del telefono in mano a interessi privati, che investivano solo nelle zone più remunerative.

Anche qui, nelle discussioni sul riscatto telefonico del 1907, il ministro delle poste Carlo Schanzer disse che il telefono doveva ormai essere considerato un vero e proprio servizio pubblico e, quindi, lo Stato non poteva più tollerare che non «procedesse secondo le legittime esigenze del pubblico» e doveva porre rimedio alla «notevolissima sperequazione fra regione e regione, tanto che noi abbiamo regioni dove esistono già molte reti e linee telefoniche, mentre altre regioni, specialmente quelle del Mezzogiorno, ne sono quasi completamente prive!» (4).

Sono questi due problemi “prototipici” della via italiana alle telecomunicazioni (5). In primo luogo, l’oscillazione politica tra pubblico e privato che non permette di avere una visione strategica di lungo periodo. Storicamente, si è assistito a varie combinazioni: collaborazione (e a tratti collusione) tra pubblico e privato, argomentazioni a favore e contrarie all’ingresso di capitali privati stranieri, forme di convivenza (con il fascismo, il sistema telefonico venne spartito in cinque zone assegnate ai privati con, però, le reti a lunga distanza riservate al pubblico). Se il problema fondamentale della gestione privata è stata la sperequazione, lo stesso riscatto del 1907 citato dimostrò, ad esempio, che il ministero non riusciva a stare dietro a tutte le richieste di allacciamento telefonico, fattore che portò alla ri-privatizzazione del 1924. È il topos, sempre in voga, dell’inefficienza del pubblico. Oltretutto, questa difficoltà di soddisfare la domanda sembra di lungo periodo e la “sete italiana di telecomunicazioni” si placò, in sostanza, solo con la telefonia mobile e quindi con la concorrenza tra privati. È questa una seconda dimensione di lungo periodo interessante per la rete unica contemporanea: se a parole le telecomunicazioni sono state riconosciute spesso come strategiche, nei fatti si sono spesso realizzate delle sperequazioni tra zone del paese densamente popolate, in cui gli allacciamenti erano attivati, e zone meno popolose e più svantaggiate. La grande sfida della rete unica è un servizio universale su tutto il territorio nazionale.

Rete unica come unica rete? Il precedente del progetto Socrate

Un terzo dibattito che si è sviluppato negli ultimi mesi concerne il fatto che la cosiddetta rete unica debba coincidere con un’unica rete in fibra ottica di proprietà di una sola entità. Non sarà probabilmente questa la direzione e, pur nella necessità di una standardizzazione e interoperabilità, la nuova rete unica sarà costituita da tratti di fibra, di rame e verosimilmente anche da reti wireless in 5G posseduti da aziende diverse. Questa rete di reti potrebbe anche risolvere un paio di problemi emersi: da un lato, la concorrenza tra TIM e Open Fiber che potrebbe trasformarsi una collaborazione e, dall’altro, le difficoltà di impiantare una nuova rete. L’impianto di nuove reti di telecomunicazione è l’aspetto più complesso nello sviluppo di un nuovo sistema sia per i costi materiali degli scavi e degli appoggi, sia per le difficoltà burocratiche nell’ottenimento dei permessi. Per questo, dicono gli economisti delle telecomunicazioni, una rete tende ad essere “vischiosa”, ovvero ad essere difficilmente sostituita e sostituibile in un periodo di tempo limitato. La vischiosità è non solo di natura tecnologica, ma anche di pensiero: per esempio, il paradigma telegrafico in termini di investimenti effettuati ma anche di usi immaginati frenò il telefono alle origini e così, spesso, i “vecchi” sistemi di telecomunicazione limitano l’espansione dei nuovi.

Questa limitazione e freno, a mio avviso, si sta realizzando anche per la rete unica a banda larga e per il dibattitto attorno al 5G (si assiste, talvolta, a sovrapposizioni tra dibattiti tecnologici): gli usi immaginati per la rete unica sono perlopiù “potenziamenti” di normali attività umane come la guida autonoma, l’ehealth, l’internet delle cose. Si tratta di argomentazioni perlopiù “vecchie”: invito a rileggersi il noto documento dell’amministrazione Clinton The National Information Infrastructure: Agenda for Action (meglio conosciute come le «autostrade dell’informazione», pubblicato il 15 settembre 1993 (6). Molti di questi temi e topoi erano già presenti.

L’esempio italiano forse più interessante, e perlopiù dimenticato, di quanto ho appena discusso è però il progetto Socrate. Lanciato a un anno dalla creazione di Telecom Italia nel 1994, Socrate è di fatto il primo piano nazionale di rete unica a banda larga. Obiettivo di Ernesto Pascale, il manager che guidò questo progetto, era il seguente: «La nostra società operativa Telecom cablerà l’Italia, investirà diecimila miliardi di lire e darà al Paese l’autostrada digitale di cui ha bisogno» (7). Questa autostrada, poi anche definita strada ferrata della digitalizzazione, avrebbe dovuto traghettare il paese verso la cosiddetta società dell’informazione con alcune applicazioni come la telemedicina, la didattica a distanza, avrebbe dovuto semplificare l’accesso all’amministrazione pubblica e fornire altri servizi (inclusa quella che, alla fine, fu l’offerta più evidente di Socrate, nonché l’esca fondamentale che avrebbe dovuto far allacciare le famiglie alla rete, ovvero la televisione on demand per cui venne istituita la piattaforma Stream).

Il progetto fallì per tre ragioni principali: i costi di scavo per cablare le città che drenarono la maggior parte delle risorse disponibili, il fatto che venne scelta una tecnologia “vecchia” come HFC invece della ADSL (che aveva oltretutto il vantaggio di poter essere usata sulla rete in rame esistente), e infine il sostanziale disinteresse del mercato e anche delle forze politiche, più concentrate sulla rete via etere o satellite (8).

Socrate è di fatto l’antenato dell’attuale progetto di rete unica. Un fallimento spettacolare e costoso per Telecom Italia, ma anche un progetto spesso definito all’avanguardia rispetto al periodo in cui fu proposto, la metà degli anni Novanta del Novecento. Sarebbe però interessante, ristudiare il caso ed evitare di commettere nuovamente gli stessi errori, primo tra tutti quello di disinteressarsi delle esigenze del mercato e credere che la rete unica si imporrà da sola e i cittadini la adotteranno “naturalmente” una volta che sarà a disposizione.

Perché un approccio storico alla rete unica?

Ci sono molte altre questioni che si stanno dibattendo attorno alla realizzazione di una rete unica a banda larga. Ne ho isolate tre che, a mio avviso, spiccano sulle altre ben consapevole che in poche righe non si possa essere esaustivi.

Più che elencare altre possibili argomentazioni, vorrei però in conclusione riflettere sulle ragioni che inducono ad adottare una prospettiva storica alla rete unica e, più in generale, alle telecomunicazioni in Italia. In primo luogo, come già osservato, progetti molto simili in altri momenti storici sono falliti per alcune ragioni che vanno comprese a fondo prima di imbarcarsi in nuove avventure. Non sto dicendo che la storia aiuti ad evitare gli errori del passato (in genere, non è così), ma invece che grazie alla storia i decisori possano allargare le proprie capacità critiche. In secondo luogo, astrarsi dal presente permette di comprendere come alcune argomentazioni attuali siano ricorrenti: non è la prima volta che si parla di perequazione, di capitali stranieri e di golden share, di pubblico e privato, di concorrenza, di domanda da soddisfare o da stimolare, eccetera. Studiare il passato di queste argomentazioni aiuta a comprendere come il modo di “pensare” le telecomunicazioni oggi abbia inevitabilmente un retaggio storico e che ciascun stakeholder abbia una cultura e mentalità imprenditoriale che deriva da lontano. Ultima ragione che, secondo me, rende necessario un approccio storico è la persistenza e vischiosità del passato telecomunicativo, sia in termini tecnologici (si pensi al dibattito attorno alla rete in rame di Telecom), sia in termini di politiche economiche e modelli di business, sia infine nei modi in cui il futuro veniva immaginato (ad esempio gli usi della rete). Il passato delle telecomunicazioni è letteralmente tra noi. Pretendere che la rete unica non abbia legami con questo passato, che sia un’eccezione, che le sue argomentazioni siano totalmente inedite è non solo sbagliato, ma non permette di comprenderne molti aspetti strategici.

Note a fine testo

  • (1) Simone Fari, Una penisola in comunicazione. Il servizio telegrafico italiano dall’Unità alla Grande Guerra, Bari, Cacucci 2008, 535 p. [il passo citato è a p. 27].
  • (2) Gabriele Balbi, Le origini del telefono in Italia. Politica, economia, tecnologia e società. Milano, Bruno Mondadori, 2011, XII-226 p.
  • (3) Gabriele Balbi, Le origini del telefono in Italia…, op.cit., p. 59.
  • (4) Ibidem, p. 122.
  • (5) Sullo stile nazionale italiano cfr. Gabriele Balbi, Simone Fari, e Giuseppe Richeri, “Telecommunications Italian Style. The shaping of the constitutive choices (1850-1914)”, History of Technology, Volume 32, 2014, pp. 235-258. Il saggio si trova nel numero monografico della rivista:  Italian technology from the Renaissance to the twentieth century, edited by Anna Guagnini and Luca Molà, VIII-344 p.
  • (6) https://clintonwhitehouse6.archives.gov/1993/09/1993-09-15-the-national-information-infrastructure-agenda-for-action.html
  • (7) Paolo Bory, “La mancata disseminazione di Socrate”, in Paolo Magaudda e Gabriele Balbi (a cura di), Fallimenti digitali. Un’archeologia dei “nuovi media”, Milano, Unicopli, 2018, 186 p. [il saggio è alle pp. 93-107, Il passo citato a p. 96].
  • (8) Paolo Bory, The Internet Myth. From the Internet Imaginary to Network Ideologies. London, University of Westminster Press, 2020, 168 p. Si veda in particolare il terzo capitolo.

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