Rileggere in parallelo i commenti pensati per il congresso del PD, che ha portato alla vittoria di Elly Schliein e per quello della CGIL, che ha incoronato segretario generale Maurizio Landini, ci propone uno scenario dove la cronaca suggerisce quesiti di fondo, soprattutto pone con forza e spietatezza il tema di un’attualità della sinistra nel XXI secolo.
Per certi verso l’affermazione di una personalità che certo non può essere annebbiata da tradizioni e sclerosi culturali, come la nuova leader dei democratici, e la stessa conferma al vertice del sindacato più rilevante del paese di un dirigente salutato solo 4 anni fa come il testimonial di un cambio generazionale ci dice che non è più questione di limiti culturali o retaggi anagrafici. La questione di una leggerezza, se non proprio irrilevanza della cultura sociale di una sinistra che tende ancora a considerarsi come motore di una consapevolezza critica di una riforma radicale del capitalismo è strettamente legato ad una base sociale che continua ad asserragliarsi negli intersizi garantiti del sistema e di pulsioni sociali tutte indotte dagli eccessi dei meccanismi socio economici del mercato, e non da aspetti costitutivi di una realtà che ancora in queste settimana ha mostrato l’incapacità di governare e orientare gli istinti pseculativi più oltranzisti. In particolare balza agli occhi il comune silenzio- di PD e CGIL- rispetto all’insorgere di nuove forme di un controllo tercnologico delle relazioni sociali che sta produzcendo una forma di supplenza, ormai sempre più palese, di ogni articolazione della nostra vita da parte dei proprietari di sistemi di calcolo che interferiscono molecolarmente nei nostri comportamenti. Come possia pensare di civilizzare il lavoro o le relazioni civili o ancora il dramma delle immigrazioni se non contestiamo questi fenomeni di stravolgimento e di omologazione di decisioni e del senso comune di interi paesi ?
Da queste domande prendiamo le mosse per un viaggio concentrato in una sinistra che non risponde alla domanda a che prò devi esistere ?
1. Un partito del lavoro? O piuttosto il dilemma “socialismo o barbarie”?[1]
Dalla disaffezione per il lavoro alla marxiana “liberazione dal lavoro”: qualcosa che fa a pugni con la sinistra laburista tipica del Novecento. Ma la proposta che agita il dibattito precongressuale del Pd ignora la questione
Nell’indovinata mostra sull’attività di Bob Dylan come scultore e pittore (allestita al Maxxi di Roma, con grande intelligenza), si legge come la sensibilità sociale del menestrello di Berkley abbia a che fare con la sua origine operaia, con l’essere nato e cresciuto nel cuore della zona mineraria e industriale del Minnesota. Il lavoro come terribile fatica, e soprattutto come relazione sociale, che divideva i subordinati dai privilegiati, gli ha permesso di cogliere meglio di altri – a livello istintivo, prima ancora che di consapevolezza personale – cosa stesse agitandosi nel vento di quel primo movimento giovanile che, negli anni Sessanta, increspava le onde californiane. Il lavoro era ancora rivelatore della nostra vita, allora. Oggi Dylan dipinge città e scorci di America, dove individui si ritrovano nella propria solitudine, in un vento che non dà più risposte, per tornare alla sua canzone di quegli anni, Blowin’ in the wind.
Forse questo percorso, dalla metà degli anni Sessanta a oggi – che ritroviamo lucidamente rappresentato nel museo romano, appena espugnato dal governo di destra –, sarebbe un contesto utile in cui collocare la diatriba sul nome del nuovo Pd, che si è accesa nell’ultima assemblea nazionale. Come accade puntualmente a ogni tornante che gli eredi del Pci e della sinistra democristiana si sono trovati ad affrontare, entrando nel nuovo millennio, il cambio del nome è il jolly che viene giocato per esorcizzare una discussione più di fondo, che tocchi realmente identità e soprattutto base sociale del partito. La proposta di assumere la dizione di “Partito del lavoro” diventa così l’ennesimo artificio per mascherare l’estraneità di questa sinistra al Ventunesimo secolo. La proposta sembra sbagliata nel merito – e del tutto pretestuosa nel metodo.
In tutto il mondo il lavoro non è più la caratteristica che distingue i produttori dalla rendita, e nemmeno il terreno su cui innestare conflitti che contestino sia la distribuzione del reddito sia, soprattutto, del potere. Nei primi nove mesi del 2022, un milione e mezzo di persone ha deciso di lasciare il proprio posto di lavoro, una parte significativa di questi dimissionari aveva un contratto a tempo indeterminato. L’anno precedente si erano dimessi 1.330 mila.
Forse è la prima volta che si registra nel nostro Paese una tendenza per cui, nel pieno di una crisi economica, che è anche e soprattutto crisi di fiducia nel futuro, il numero delle persone che lasciano volontariamente il proprio lavoro è largamente superiore a quello dei licenziamenti: di circa tre volte. Ovviamente, in una tale massa di casi, vi sono infinite situazioni personali, in cui, per esempio, il lavoro risultava insopportabile o talmente mal retribuito da renderlo impraticabile. Ma certo anche l’osservazione dello scenario internazionale (clamoroso quello statunitense, dove in una situazione di piena occupazione più di sei milioni di persone abbandonano l’attività subordinata) ci fa considerare come un elemento trainante, che si sta riproducendo da vari anni, sia l’incompatibilità sociale con il lavoro subordinato tout court.
In particolare – spiegano le ricerche del settore –, i fattori che rendono incompatibile un lavoro subordinato sono la serialità, ossia che tutti i giorni per tutti i mesi di tutti gli anni si preveda di avere gli stessi vincoli e condizionamenti di orari e comportamenti, e la scarsa dinamica professionale e di reddito, quella che una volta era invece la sicurezza del posto fisso. Siamo in presenza, da tempo, di una ormai strutturata, matura e condivisa refrattarietà a un impiego tradizionale, in cui serialità e subordinazione diventano fattori di intolleranza da parte di strati sempre più larghi. Il lavoro non è più né un valore positivo né un obiettivo praticabile. Torna a essere solo fatica, pura coercizione, alla quale appena possibile ci si vuole sottrarre. Una maledizione da cui liberarsi, come peraltro intendeva chiaramente Marx, quando parlava del comunismo come abolizione del lavoro, e non certo di una sua perenne programmazione.
Può essere questo il riferimento di una sinistra che cerca la sua sintonia con il Ventunesimo secolo? Il dibattito che si propone potrebbe almeno darci l’opportunità di cominciare a fare chiarezza intorno a una gamma di analisi e approcci su un tema nodale per l’intera cultura progressista. Tanto più che, di rimbalzo, discutendo di lavoro, si potrebbe perfino trovare l’occasione e il tempo per dare un occhio a quanto sta accadendo nel campo dell’automatizzazione delle attività e delle relazioni sociali, che si combina con il lavoro nel definire il campo delle attività produttive in corso.
In sostanza, il vero tema da affrontare è cosa significhi oggi produzione e valore, nell’epoca della loro riproducibilità tecnica, come avrebbe detto Benjamin; e poi comprendere come collocarsi dinanzi alle nuove contraddizioni, tutte interne solo al perimetro digitale, che stanno ridisegnando profili e figure sociali, e da cui la sinistra non può prescindere. Un buon punto di partenza sarebbe chiedersi dove e come è iniziato lo tsunami che ha devastato il campo della sinistra.
Se dovessimo indicare una causa, uno spartiacque di questa storia, l’origine di quel “diluvio” (che Marx paventava, nella seconda metà dell’Ottocento, e in vista del quale, convulsamente, si apprestava a concludere le sue fatiche editoriali), per darci almeno una ragione di come sia stata spazzata via persino la memoria di due secoli di storia e civiltà del movimento del lavoro, non potremmo non far coincidere quella causa con l’avvento del mondo digitale. La data è sempre la stessa: 1989. Crollo del muro e avvio dello scioglimento dell’Urss. Le cause, però, non sono quelle su cui la maggioranza delle discussioni a sinistra si sono attardate: non un’indistinta domanda di libertà, o un semplice autonomo accartocciamento del sistema di comando del socialismo reale, ma una forte e originale ondata di protagonismo individuale.
È il floppy disk, come spiega esaurientemente Manuel Castells nella sua monumentale trilogia de La società in rete[2] Bocconi editore) a sbriciolare le economie di piano. È stato quel dischetto la vera talpa moderna. Fu quel sistema di portabilità individuale delle informazioni che, passando di mano in mano, collegava, punto a punto, le ambizioni e i desideri di milioni di individui, e veicolava la voglia di differenza e di successo dei singoli, rendendo così insopportabile il sistema sovietico di pianificazione egualitaria, e la stessa dimensione di massa del vecchio capitalismo verticale. Non è differenza da poco. Non la libertà, ma l’ambizione individualistica ha sconfitto la sinistra del lavoro. A Est e a Ovest.
Paradossalmente, per una vendicativa legge del contrappasso, il movimento operaio viene spiazzato e schiantato proprio sul suo terreno dell’analisi sociale. Incapace di percepire e misurare l’insorgere di fattori di squilibrio, quale è la riclassificazione delle relazioni sociali sulla base di una nuova forma di produzione e distribuzione della ricchezza, che è appunto la società in rete del pensiero computazionale. Uno smacco che non era scritto né nel destino né nella memoria culturale di quell’esperienza. Filo ce n’era per tessere anche una tela digitale. Come constata infatti, nel suo Postcapitalismo[3], Paul Mason, uno dei più innovativi e combattivi economisti della sinistra inglese, l’evoluzione del capitalismo non ha scartato o rovesciato quanto era nel novero delle previsioni della cultura delle esperienze socialiste e comuniste: piuttosto ha seguito, quasi pedissequamente, le forme indicate dalla bussola marxiana, in particolare nel suo decisivo passaggio da pura macchina del plusvalore operaio a sistema che “trasforma attività non di mercato in attività di mercato”.
Paradossalmente, proprio il declino della fabbrica come simbolo di sviluppo e efficacia di profitto, la crisi di quel meccanismo di oppressione contro cui è nato il socialismo scientifico, un modello basato sull’omologazione della società alla catena di montaggio fordista, con le sue gerarchie ed egemonie, insite nel processo di sfruttamento della fatica umana, e tutto organizzato verticalmente dall’alto verso il basso, ha spiazzato e sguarnito innanzitutto la stessa sinistra, più che i proprietari delle stesse fabbriche. Non ci siamo accorti di una vittoria che abbiamo lasciato gestire dalla controparte.
Per ritrovare una bussola, basterebbe rivolgersi a quello scaffale meno frequentato delle librerie di sinistra, dove solitamente, si mettono a impolverarsi un paio di tomi di Carl Marx, poco diffusi, con un’aura ancora esoterica, dalla struttura narrativa eccentrica e confusa, un’opera che sembra scritta con link ipermediali, con i copia e incolla di word, oggi si avvicinerebbe all’algida e lucida erudizione di un chatbot complesso ma perfettamente consequenziale: i Grundrisse (ovvero “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”). Un libro che lo stesso Engels non aveva mai letto, e che appare sulla scena della sinistra solo nel 1939, in russo; e in Occidente arriva alla fine degli anni Sessanta. Nel famosissimo “Frammento sulle macchine”, Marx – siamo nel 1858 – sembra quasi voler correggere, preventivamente, ogni eventuale sbandamento fabbrichista che dovesse essere autorizzato dal suo successivo testo più diffuso, Il capitale, che sta progettando contemporaneamente alla stesura dei Grundrisse.
Proprio mentre sta scrivendo intorno alla teoria del plusvalore, così descrive l’evoluzione successiva del processo produttivo:
“[l’operaio] inserisce il processo naturale che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo tra sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al processo produttivo, invece di esserne l’agente principale” – e continua, non lasciando spazio a dubbi o ambiguità sul modo in cui le macchine verranno usate dal capitalismo cognitivo – “la potenza delle macchine non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione”.
Siamo a quasi 170 anni fa. Un passaggio, questo di Marx, che Mason così sintetizza:
“Alla luce di ciò che il marxismo sarebbe diventato – una teoria dello sfruttamento basato sul furto del tempo di lavoro –, si tratta di un’affermazione rivoluzionaria, che suggerisce come, nel momento in cui la conoscenza diventa una forza produttiva a sé stante, enormemente più importante del lavoro impiegato per creare una macchina, la grande questione non sia più salari contro profitti, ma chi controlla la ‘potenza del sapere’.
Una interpretazione che spiega anche l’apparente brutalità con cui proprio Marx ha voluto esplicitamente impedire di essere usato a sostegno di ogni visione meccanicamente operaista, quando scriveva che ‘lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza’”. Lo sfruttamento basato sul furto del tempo, che potremmo definire con il linguaggio attuale, l’algoritmo dell’industrializzazione, non è più, da tempo, il luogo del conflitto che può intaccare le basi materiali e ideologiche del capitalismo cognitivo. Lo spettro che sta disegnando quella che Paul Virilio, già nel 1995, definì “la democrazia automatica”, in cui la decisione diventa preventiva rispetto al consenso, e che si realizza solo mediante forme di rilevamento a campione, come i sondaggi di opinione o l’audience televisiva, tutto ciò che è la potenza di calcolo, lo ritroviamo all’opera nella valorizzazione sociale delle merci e dei servizi.
Oggi, che sappiamo com’è andata quella lunga storia del movimento operaio, e ne conosciamo effetti e conseguenze, responsabilità e vittime, potremmo laicamente ragionare sul buco nero di una visione unilaterale e monoculturale, quale quella che ha tenuto tutte le esperienze marxiste lontano dalle elaborazioni immateriali del capitale, e chiederci se una sinistra dei Grundrisse sarebbe sopravvissuta meglio di quanto le sinistre del Capitale siano riuscite a fare, e se non sia quello un punto di ripartenza, la domanda che Mason fa rimbalzare: chi controlla oggi il sapere e come?
Un lucido saggio di Moisés Naim, già direttore per quindici anni di “Foreign Policy”, significativamente intitolato La fine del Potere[4] riporta, nel 2010, un documento altamente indicativo del trend socio-politico che stiamo vivendo. È la testimonianza dell’ex segretario generale della Nato negli anni Novanta, lo spagnolo Javier Solana, che così si esprime:
“Negli ultimi venticinque anni – un periodo segnato dalla guerra nei Balcani e in Iraq, dai negoziati con l’Ira, dal conflitto israelo-palestinese, e da infinite altre crisi – ho visto un gran numero di nuove forze e nuovi fattori ostacolare persino le potenze più ricche e tecnologicamente avanzate. Esse, e con questo intendo dire noi, raramente riuscivano ancora a fare quello che volevano”[5] .
Ovviamente non siamo alla dissoluzione del potere, ma a una sua trasformazione ed evoluzione, discontinua della sua microfisica – avrebbe detto Michel Foucault, in altri contesti.
Una riflessione, questa, sulle nuove asimmetrie geopolitiche, che dà finalmente ragione di quelle limitazioni e inefficienze del sistema militare occidentale, che in questi anni hanno ridisegnato radicalmente la mappa dei poteri reali. Ricordiamo cos’è accaduto in Iraq e in Afghanistan, e cosa sta accadendo in Ucraina in questi mesi: Davide tiene in ostaggio Golia.
Questa nuova geometria bellica viene approfondita dal direttore del Brooking Institute, P. W. Singer, già nel 2007, con una ricerca svolta per conto del team dell’allora debuttante candidato alle presidenziali Obama. Nel report si legge:
“Siamo in una situazione dove gruppi privati possono disporre di grandi saperi e poteri tecnologici prima riservati agli Stati. E oggi non abbiamo risposte adeguate a questo tipo di nuovo conflitto”[6].
È questa diffidenza dei custodi della gerarchia capitalista, che si vedono accerchiati e insidiati da torme di nani, che fa dire al già citato Mason che “ci sono sempre più prove che le tecnologie informatiche, invece di creare una forma di capitalismo nuova e stabile, stanno dissolvendo il capitalismo: corrodono i meccanismi di mercato, erodono i diritti di proprietà e distruggono la vecchia relazione fra salari, lavoro, profitto”. E Mason così conclude: “Non appena gli economisti hanno provato come funziona questo terzo tipo di capitalismo, sono incappati in un problema: non funziona”.
Proprio Barack Obama fu una risposta che, dal cuore del capitalismo americano, veniva alla nuova domanda di confronto simmetrico che montava dalle periferie dell’impero. Il presidente nero fu il network che si voleva contrapporre ai network che stavano sollevando i sobborghi del mondo, con l’esito che oggi sappiamo. La rete, la sua potenza di raccogliere e ritrasmettere il protagonismo sociale, pur nella tenaglia dei condizionamenti dei monopoli cognitivi, sta disalberando le piramidi del potere, così come si sono storicamente strutturate; e rende meno stabile ogni posizione di rendita dei nuovi tycoon digitali. “In questo ambiente sociale – dice ancora Mason –, a differenza che nella fabbrica fordista, i padroni di casa siamo noi e gli ospiti, per quanto ancora invadenti, sono loro”.
Questi due fenomeni – la smaterializzazione del lavoro mediante sapere informatizzato, e il decentramento della partecipazione attiva fino al singolo individuo – sono i nodi che sembrano antitetici a un’idea di sinistra laburista. È questo il gorgo da cui uscire per entrare nel nuovo secolo.
Su questo il Pd è muto da sempre, e con lui la sinistra del lavoro in tutto il mondo. Siamo ormai alla quinta generazione tutta digitale; vediamo attorno a noi un’antropologia dell’algoritmo, in cui si vive mediati dai sistemi di calcolo. Da almeno due decenni, l’intera geopolitica del pianeta è disegnata dalla capacità di orchestrare e finalizzare un sistema di comunicazione pulviscolare che individua milioni di bersagli individualmente, sbriciolando ogni dimensione collettiva dell’opinione pubblica. Abbiamo visto elezioni di presidenti americani, consultazioni in Inghilterra, Francia e Italia, in cui venivano spostate masse di voti lavorando sui singoli assetti cognitivi medianti sistemi come Cambridge Analytica, e tutto tace, nessuno prova nemmeno a difendersi.
Abbiamo ormai alle spalle la fase del movimentismo digitale, dove, come spiegava Manuel Castells nel suo saggio, studiatissimo negli apparati di sicurezza, Reti di indignazione e di speranza [7](, che analizzava i fenomeni di insorgenza reticolare dalle primavere arabe alle sollevazioni nell’Est europeo –, “il potere era esercitato tramite la costituzione di significati nell’immaginario collettivo”. Significati che sono diffusi e condivisi proprio mediante i social network, e fanno dire a Castells che “i sistemi di relazione digitali non sono il quarto potere, sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere in un gioco di relazioni fra soggetti politici e attori sociali in competizione fra loro”[8]. Questo spazio di competizione si sta dilatando sempre più, e sta riclassificando le forme della politica e della governance dello Stato. In questo spazio troviamo milioni di figure professionali, ceti medi produttivi, interi popoli di giovani formatori: qui troviamo il dualismo fra calcolanti e calcolati che ha sostituito radicalmente la contraddizione capitale/lavoro. Uno scenario che Marx aveva intuito e il capitale ha programmato.
L’atto di nascita della rete non è il mitico primo messaggio del luglio del 1969, fra i calcolatori di due università californiane; lo è piuttosto il fondamentale saggio di Vannevar Bush, nel luglio del 1945, As We May Think[9], che, rispondendo al quesito del Dipartimento di Stato su come si potesse battere il futuro avversario sovietico, individuò la risposta nel superamento del lavoro di fabbrica come motore del valore e la sua sostituzione con il sapere. Si innestò allora quel processo di ingegneria sociale, che gradualmente trasformò gli sfruttati in consumatori, e poi in competitori.
Una lunga marcia che, in questi decenni, ha neutralizzato il potere negoziale del lavoro, spostando prima le fabbriche e poi automatizzandole, anche sulla base di una pretesa democratica, ossia di servire efficacemente non più solo ottocento milioni di persone, com’era organizzato il sistema industriale fordista, ma una platea almeno di cinque miliardi, se non di tutti gli otto miliardi, degli abitanti del pianeta, che oggi hanno merci e linguaggi per reclamare il loro posto a tavola. Per questo si stressano i sistemi produttivi, si articolano gli apparati logistici, si automatizza l’insieme del funzionamento industriale. Siamo alla tappa dell’intelligenza artificiale che tende a sostituire non più la manovalanza, ma l’intellettualità professionale. Come si governa questa potenza? Chi la governa e per il beneficio di chi? In gioco è la stessa riproduzione della specie, altro che il lavoro.
Potenza di calcolo, riprogrammazione della vita umana e nuovo dualismo: Socialismo o barbarie?
Come ci ricorda Craig Venter,
“la potenza di calcolo non serve per far giocare i giornalisti con i social, ma è lo strumento per riprogrammare la vita umana”.
In particolare, per insidiare la nostra autonomia cerebrale. La posta in gioco è ormai proprio il nostro cervello, e la possibilità di aprire una backdoor che permetta ai nostri centri di comando un accesso automatico e inconsapevole alle nuove forme di intelligenza artificiale. Le ricerche sull’Alzheimer, abbondantemente finanziate dai grandi monopoli digitali, sono oggi il grande pretesto per indagare le forme di agibilità del nostro sistema neurologico.
Sotto la spinta dell’invasività computazionale, si rovescia così la grande marcia dell’evoluzione umana. L’avvento dell’homo sapiens, così come lo descrive Yuval Harari nel suo Sapiens [10]è stato contraddistinto da una separazione fra la storia e la biologia.
Sono state le grandi narrazioni sociali a plasmare le condizioni e gli approdi della lunga evoluzione dal Neanderthal al “sapiens sapiens”.
La capacità di usare suggestioni e mitologie come collanti sociali, per aggregare e governare grandi comunità, è il motore che distingue la nostra specie dall’intero regno animale.
Oggi, invece, nell’assoluta indifferenza della politica, la potenza di calcolo sta ritornando a influire direttamente sulle variabili genetiche e chimico-fisiche della struttura umana.
Un’invadenza che ha suscitato la reazione dei poteri totalitari, che hanno percepito la minaccia al loro controllo sugli individui che governano; cosicché si assiste a un nuovo gioco geo-tecno-politico, in cui le maggiori potenze nazionali si contrappongono alle dinamiche del mercato tecnologico: il potere di usare il proprio sapere per interferire con l’evoluzione della specie, e determinare nuove e inedite condizioni di controllo e subalternità.
Oppure per montare sistemi decisionali che affidano ad algoritmi volontà strategiche, come le criptomonete, o i sistemi sanitari e formativi, sempre più diretti da automatismi del blockchaine, sistemi di decentramento delle informazioni, comunque guidati da volontà prorprietarie centralizzate
Questa è la release del nuovo mulino digitale: il calcolo come potere automatico, che direttamente ordina e guida le persone.
Questa potenza come viene regolata, temperata, governata?
Da chi e in nome di quali valori e obiettivi?
Quali sono i soggetti negoziali e gli interessi che possono dare corpo a una nuova politica esterna e alternativa a queste logiche di “democrazia automatica”?
L’algoritmo-nazione è l’unico antidoto?
È la mancanza di risposte condivise e ragionate a questi quesiti che spiega l’assenza della sinistra in questo tempo. Il ring esiste, e anche i contendenti sono a bordo campo. Manca però un pensiero e un interesse che spinga nuovi gruppi sociali a porsi l’obiettivo di un nuovo patto sociale del calcolo, di un’etica del software.
Per questo, la domanda da porre è: basta un partito che miri, nel migliore dei casi, a condizionare la distribuzione dei redditi, o diventa necessario – come già paventava Carl Marx nei Grundrisse –un nuovo soggetto politico cognitivo: un’organizzazione politica che individui il sapere come terreno conflittuale per contestare compatibilità e rendite di posizione? una teoria, una visione, che riprogrammi il potere stesso di ristrette elite tecnocratiche di pianificare in autonomia il futuro dell’umanità?
Per dirla come una volta, solo con un apparato che metta al centro la potenza di calcolo torna centrale il dualismo “socialismo o barbarie?”.
2. Elly Schlein una promessa più che una speranza. La nuova segretaria del Pd di fronte alle domande del Ventunesimo secolo[11]
L’invasione del Partito democratico da parte di una società civile metropolitana, abbiente e ambiziosa, che ha soverchiato gli apparati amministrativi raccolti attorno al richiamo del presidente regionale emiliano Stefano Bonaccini, ci dice che si è ormai del tutto esaurita la spinta propulsiva della governabilità per la governabilità, che aveva guidato la convergenza dei ceti gestionali dell’ex Pci e della vecchia sinistra democristiana, inchiodando il partito nelle anticamere del governo fin dalla sua nascita.
L’affermazione di Elly Schlein non autorizza di per sé a un’aspettativa di svolta strategica, ma sicuramente butta fuori dal ring le ombre di quel piccolo mondo antico che continuava a tenere in ostaggio memorie e rimpianti del glorioso passato, usandole come giustificazione per le proprie acrobazie governiste. Potremmo dire che il sorprendente sorpasso subìto dal presidente dell’Emilia-Romagna completa, con almeno dieci anni di ritardo, le suggestioni liberal del Veltroni del Lingotto, nel momento dell’atto fondativo del Pd, quando si proclamava la piena discontinuità dalla tradizione della lotta sociale della sinistra, ma non si riuscì a definire il perimetro di un nuovo campo sociale che non coincidesse con la permanente presenza a Palazzo Chigi o nei suoi pressi.
Al di là delle sue esplicite dichiarazioni, la biografia politica e culturale della nuova segretaria parla da sola: abbiamo dinanzi la traduzione in italiano di una delle migliori esperienze di radicalismo dei diritti e di progressismo dei sentimenti.
Elly Schlein – questo è innegabile – porterà la sinistra italiana nel Ventunesimo secolo, facendolo entrare dalla porta di una globalizzazione delle ambizioni di una neo-borghesia globale, che si basa su un’alleanza universale fra i primi e gli ultimi, lasciando ai propri competitori reazionari i ceti intermedi di questa gigantesca forbice sociale.
Milano, quartiere di quella metropoli universale dove risiedono i primi ma sono assistiti gli ultimi, è la capitale di questo nuovo pensiero, che già sta logorando l’egemonia leghista delle province assediate dalle grandi aree urbane. Per diventare speranza di una sinistra del nostro tempo, la nuova leader dovrà dare due risposte e compiere una scelta.
Le risposte riguardano due temi fondamentali, che rendano la sinistra un contendente e non un complice del capitalismo finanziario e tecnologico. Il primo dei due quesiti riguarda proprio la sfida al teleologismo dei poteri di calcolo. Per teleologismo intendiamo quella visione che attribuisce dall’esterno un fine a ogni oggetto: il martello batte i chiodi, le auto ci trasportano.
Oggi questa concezione sta investendo la stragrande maggioranza dell’umanità, i cosiddetti calcolati, a cui i calcolanti, l’aristocrazia delle nuove intelligenze artificiali, attribuiscono comportamenti e obiettivi. Come pensa di impegnare le forze che si sono espresse a suo favore in questo scontro sociale che si profila?
Il secondo tema riguarda l’integrazione dei mondi del lavoro in una mobilitazione che rivendichi il primato del capitale umano già nella fase di progettazione dei nuovi sistemi automatici, riportando il lavoro al centro della scena.
Infine, il nodo del partito: come ridare forma a una macchina politica che, in totale discontinuità con le esperienze del secolo scorso, connetta impegno e decisione, promuovendo forme di democrazia della mobilitazione e del conflitto? In sostanza, Elly Schlein quante altre Elly Schlein è disposta a tollerare nella propria gestione politica?
3. Un partito in cerca d’autore, una comunità senza arte né parte priva di un progetto
Una comunità liberal e radicale testimone di un capitalismo “dolce”: questa la prospettiva intravista nell’assemblea che ha ratificato l’elezione della nuova segretaria, Elly Schlein. L’assenza di una proposta di ridistribuzione del potere
Nuovo vertice del Pd: una borraccia ancora vuota[12]
La borraccia che le viene passata quando inizia a parlare, al posto del solito bicchiere d’acqua, è il simbolo dello stile da determinata attivista sociale che la segretaria del Pd, Elly Schlein, si trova a proporre. Una disinvolta millennial, con pratiche di attivismo sociale, all’assalto del mausoleo della sinistra italiana. Emblematico lo sguardo alla platea: in prima fila le icone del passato, con gli sfidanti sconfitti e il vecchio gruppo dirigente, da Enrico Letta a Zingaretti; alle spalle, frotte di ragazzi venuti alla ribalta con le Sardine emiliane. Tutti raggruppati nella pletorica direzione. Ma il discorso d’insediamento conferma la cesura antropologica, prima che politica, che si sta consumando rispetto al continuismo degli eredi del Pci e della sinistra cattolica. Il Partito democratico è da oggi una comunità liberal e radicale con la borraccia.
In sostanza, il manifesto della leadership del nuovo Pd sembra tradurre in italiano le suggestioni della mobilitazione obamiana, a cui partecipò, all’inizio della sua esperienza politica, la segretaria democratica. Il programma è segnato da un vigoroso ed entusiastico impegno contro gli eccessi del capitalismo – sfruttamento illegale, ingiustizie palesi, sperequazioni ingiustificate –, e inoltre da un recupero del welfare come fattore di riequilibrio, innanzitutto sanità e scuola pubblica. Al centro delle preoccupazioni, la correzione – non certo la trasformazione – delle deviazioni del lavoro, soprattutto quelle del precariato. Il Pd sarà il partito dell’ispettorato del lavoro.
Una tematica, questa delle correzioni delle distorsioni più macroscopiche dell’economia, a cui il neopresidente Bonaccini ha aggiunto la tradizione del partito emiliano, concreto e governista, con un uso delle politiche sociali per rompere il sodalizio fra destra e ceto medio. Una versione amministrativista di ceti medi ed Emilia rossa. Del tutto assenti, invece, i temi strutturali. Il lavoro non si rappresenta per condizionare la proprietà, e dunque negoziare le soluzioni politiche, ma solo per bonificare le forme più indecenti di sfruttamento, come appunto il precariato.
Mai citata la politica industriale, nessun riferimento ai modelli di sviluppo, e tanto meno alla collocazione del Paese nella divisione internazionale del lavoro. L’Europa rimane uno sfondo inevitabile ma non problematico. Nell’economia si predica ma non si interferisce. Lo scontro con la destra è innanzitutto una contrapposizione di sensibilità e di stili di vita: inclusione e attenzione agli ultimi rispetto alla radicalizzazione sovranista e localista dei secondi e dei penultimi.
Il digitale, e qui cominciano anche le delusioni rispetto alle aspettative, non è apparso mai in tutto il dibattito: né come aggettivo, il mondo che diventa digitale, né come sostantivo, la transizione verso un nuovo mondo. Silenzio assoluto circa il dominio dei monopoli digitali sulle relazioni sociali e sui rapporti di produzione; e nessuna critica alla deriva individualistica. La comunità, che sembra avere in mente Schlein, è un mosaico di individui, non certo una concatenazione di soggetti negoziali.
La segretaria ha molto insistito su una linea di “corpo a corpo” con la sua dirimpettaia di Palazzo Chigi: non cederemo niente alla Meloni, dice, prendendo come bandiera la mobilitazione antifascista di Firenze.
Dopo il tentativo del Lingotto di Veltroni, e l’incursione del guastatore Renzi, questa volta la trasformazione del partito del centrosinistra sembra più strutturale e definitiva, anche perché – è la vera novità – è vissuta come una conseguenza dell’evoluzione della base sociale e non come una rivoluzione dall’alto del suo gruppo dirigente. Come diceva nel film di Luigi Magni In nome del papa re Nino Manfredi, che interpretava un abate che raccoglieva le confidenze di un cardinale in Vaticano alla viglia di Porta Pia: “Eminenza qui non finisce tutto perché arrivano i bersaglieri, ma arrivano i bersaglieri perché è già finito tutto”.
Guardatevi attorno, dice la vincitrice delle primarie, non vedete che siamo già un’altra cosa? E l’assemblea è infatti un’altra cosa. La vecchia narrazione del Novecento è completamente esaurita. Questa comunità, per rimanere alla definizione della segretaria, è un altro sogno, o meglio è un salto di stile: un soggetto che contende la forma del capitalismo e ne riduce gli eccessi. Rivendicando reddito, non potere. Non a caso, il terreno di scontro che oggi appare più irriducibile – la strage di Cutro e la legge Bossi-Fini – viene vissuto dal nuovo Pd come una rivendicazione di umanità, non come quella di un riassetto strutturale delle relazioni di scambio nel Mediterraneo.
La sinistra soccorre, non trasforma: appare questo lo slogan di un partito di ceto alto, che scambia attenzione per gli ultimi con una supremazia culturale, che vuole poi trasformare in diritto a governare quello che c’è. Sarà così un partito molto simile alla Comunità di Sant’Egidio, ma senza il suo respiro globale. La rivendicazione di avere uno sguardo lungo sul mondo per tornare a essere forza internazionale si riduce, al momento, alla conferma del sostegno dell’Ucraina; su tutto il resto silenzio distratto, dal Medio Oriente alla questione africana, al tema della Cina, neanche una volta citata.
Il vero buco nero, però, quello che trasforma la leggerezza irridente di una nuova generazione che si scaglia contro la pesantezza della politica in una frivolezza irritante, è il totale silenzio sullo scontro aperto intorno alle nuove forme di interferenza digitale. Siamo nel pieno di una spirale che vede forme di intelligenza artificiale affiancare, per poi sostituire, funzioni e abilità; siamo nella programmazione ferrea di lavori e di professioni da parte di centri di controllo sovranazionali. Ogni svincolamento dalle vecchie politiche industrialiste diventa visione moderna, e non furbizia radicaloide, se viene compensato da una chiara cultura antagonistica ai grandi proprietari dei nostri dati e delle nostre discrezionalità. È la voragine che rischia di ingoiare anche questo ennesimo tentativo di dare corpo a una sinistra che affronti la modernità, per convivere con un sistema che sta restringendo ogni spazio di autonomia politica e sociale.
Tanto è vero che, mancando una missione di contestazione delle tendenze deterministe del presente, manca anche una proposta organizzativa. Il gioco semantico di sostituire il termine “partito” con “comunità” avrebbe senso se si organizzasse concretamente la modalità di partecipazione alle decisioni. Aprite le porte dei circoli e mandate a casa i cacicchi – ha gridato la segretaria, facendo intendere che questa volta non si convive con i gattopardi, ma poi? Dietro a quelle porte che succede?
La nomina di una direzione larga, di 175 componenti, con dentro tutti, quelli di ieri e quelli di domani, non fa intendere cosa accadrà: sicuramente si restringeranno le sedi di deliberazione, come sempre accade quando si allargano incontrollabilmente i luoghi di rappresentanza. Il balletto dei volti nuovi che in questi giorni ha caratterizzato il debutto mediatico del “nuovo corso” non rassicura: al momento si sostituisce ruolo per ruolo, come si dice nel calcio quando l’allenatore cambia i titolari con i panchinari, senza però mutare lo schema della squadra. Nella società “a rete” l’organizzazione invece è sostanza: la condivisione delle fasi decisionali deve essere la conseguenza della condivisione delle fasi promozionali, oppure si cambia tutto per non cambiare niente. E il vero nodo riguarda la natura dell’adesione e della vita di un partito. Il superamento della narrazione del Novecento non è inevitabilmente pacificazione e neutralizzazione della politica: piuttosto – la destra lo ha mostrato – capacità di contestare equilibri e titolarità dei poteri.
Un partito diventa un sistema di connessione fra interessi e deliberazioni se organizza conflitti e attiva protagonismi nel negoziato sociale. Se non si collegano movimenti sociali con l’elaborazione strategica, abbiamo appunto una comunità che testimonia ma non dirige, e tanto meno trasforma. La declamata priorità ambientale, come recitava un cartello in una delle ultime manifestazioni, se non prevede un cambio dei modi di produrre e consumare diventa solo giardinaggio. E un partito giardino non serve a nessuno.
4. Il sindacato presidenzialista
Con quasi il 95 per cento Maurizio Landini è stato rieletto dall’assemblea leader indiscusso e totale della Cgil. Dopo una lunga tirata contro il presidenzialismo il segretario generale uscente è stato rieletto presidenziale te direttamente dai delegati che affidano il sindacato più grande del paese ad un solo uomo al comando che nella sua relazione e nel suo intervento conclusivo non ha proposto concretamente nessuna misura organizzativa che rendesse la confederazione più adeguata e coerente con l’obbiettivo di allargare la propria rappresentanza sociale e di incentivare forme dirette di Orte opzione alle decisioni sindacale .
Unico bersaglio la riforma fiscale del governo Meloni. Silenzio totale sulla riorganizzazione e digitale della società e sulle forme di automatizzazione del lavoro lo sciopero generale contro il governo di destra sarà l’unico emblema di una stagione che rischia di lasciare il sindacato isolato nei processi di digitalizzazione della vita lasciati al controllo dei Monopoli multinazionali.
Congresso Cgil: un sindacato che non contratta il cambiamento[13]
Dice il Corano che non a caso Allah ci ha dato una sola bocca e due orecchie. Il segretario generale della Cgil, nella sua relazione, interpreta l’indicazione di Maometto come la ratifica della sua filosofia organizzativa: moltiplicare i centri di ascolto e comunicazione con l’esterno, centralizzando quelli di decisione e comunicazione interna.
Nella sua relazione Maurizio Landini, che si è presentato al congresso dopo quattro anni di forte concentrazione decisionale e di totale monopolio comunicativo, usa le difficoltà della sua organizzazione per accentuare questa tendenza: se mi rieleggerete – dice – sarò implacabile per imporre le riorganizzazioni decise un anno fa.
Ma dietro a questa visione di sindacato personale – verrebbe da dire, richiamando il concetto di “partito personale” di Mauro Calise – c’è una visione dei processi sociali che non convince, anziché una bulimia di potere che non accreditiamo all’ex leader della sinistra della Cgil. La matrice di questa visione è rintracciabile proprio nell’armamentario tecnologico che il congresso esibisce con grande vanto: effetti speciali, connessioni multimediali, social ovunque.
L’esperienza di “Collettiva”, la piattaforma allestita in questi anni dai consulenti del segretario, insieme a “Futura”, il centro di discussione digitale, fanno trasparire una logica da addestramento professionale più che da riprogrammazione delle intelligenze.
La Cgil vuole usare il mondo digitale per ottimizzare le sue relazioni, non per sperimentare modelli organizzativi e sociali alternativi a quelli imposti dalle grandi piattaforme: vuole essere più brava dei padroni, si potrebbe dire.
Siamo a un adattamento del noto slogan di Giuseppe Di Vittorio: dobbiamo sapere una parola più dei nostri avversari. Maurizio Landini ci dice che bisogna maneggiare un byte in più. Ma senza ripensarlo.
In questo la relazione che ha aperto il congresso della CGIL, ci sembra paradossalmente parallela e affine al manifesto politico esposto dalla nuova segretaria del Pd, Elly Schlein. Il capitalismo va ripulito dei suoi aspetti più indecenti, ma senza contestarne logiche e direzione. In particolare, il digitale è ridotto alla perversione del fenomeno di super-sfruttamento dei rider, e si sorvola completamente sui processi di condizionamento e dominio che le nuove forme di intelligenza artificiale prêt à porter stanno ampliando nelle relazioni molecolari della società.
Maurizio Landini non ha mai citato, in termini negoziali e tanto meno conflittuali, l’insieme del nuovo mercato delle intelligenze: big data e algoritmi sono rimasti confinati nella vetrina delle meraviglie che il congresso ha allestito: ma non sono materia di una contesa sindacale, segno di una singolare neutralità che la comunità di “Futura” esprime verso le grandi piattaforme.
La politica industriale, che il capo della principale confederazione italiana ha inevitabilmente citato, è ancora una volta intesa come forma di sostegno assistenziale dell’occupazione, non come ricollocazione del Paese sulla scena internazionale del lavoro, oggi tutto giocato dalle modalità di automatizzazione che vengono gradualmente introdotte.
Si sollecitano interventi e investimenti nell’intera area 4.0, ma non se ne individuano le direzioni e le discriminanti. Sarebbe stata utile una riflessione sulle prime esperienze di fabbrica a 5g, in cui il controllo numerico è diventato pianificazione diretta delle attività produttive da parte di un unico centro di comando, che riduce gli addetti a protesi delle macchine.
Un sindacato che non affronta di petto, oggi, le forme del moderno dominio capitalista, quale la potenza di calcolo, e che non individua nella ricerca un campo in cui impegnare il sindacato a organizzare le forme e i contenuti di quel mondo di esperti e ricercatori, che ormai rappresentano la spina dorsale della produzione manifatturiera, sta abdicando al suo ruolo di rappresentanza di una tensione permanente con il sistema capitalista, adattandosi a essere soccorritore degli aspetti più intollerabili.
Quali sono oggi i “mondi vitali” che richiamava Riccardo Terzi, lucidissimo dirigente prima del Pci e poi della Cgil, citato da Landini, se non questi?
Come attualizzare l’eredità di Bruno Trentin – altra icona richiamata nella relazione – se non condividendo il suo brusco richiamo all’intera cultura di sinistra a emanciparsi da ogni legame con il mondo della produzione lineare? Proprio in uno dei suoi saggi più preveggenti (La città del lavoro: sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, 1997) l’ex segretario della Flm scriveva:
“Se riuscirà a prendere pienamente coscienza di questa sua lunga subalternità culturale al taylorismo e al fordismo, la sinistra potrà coraggiosamente elaborarne il lutto”.
Un lutto che ancora spinge la Cgil a esorcizzare la più intima trasformazione per interferire con il nuovo mondo dell’innovazione. Penso proprio a quei cambiamenti che un sindacato – che ancora riflette fedelmente la vecchia geografia organizzativa, figlia di un tessuto produttivo incardinato su categorie verticali separate e distinte – dovrebbe da tempo praticare. Come possiamo oggi rappresentare luoghi di lavoro e centri di servizi frantumati da mille discipline contrattuali diverse e soprattutto caratterizzate da figure occasionali e momentanee, non riducibili ad alcuna di esse? Come possiamo contrastare l’impatto di piattaforme che si rivolgono trasversalmente a territori o a comunità sociali, senza assumere questa trasversalità come motore di una nuova rappresentanza?
Il silenzio sul digitale, come frontiera di una nuova stagione di conflittualità organizzata, diventa così solo la conseguenza di un’autoconservazione che l’apparato burocratico più grande del Paese, quale è ancora la Cgil, sceglie di far prevalere su ogni altra necessità. Ignorando un altro versetto del Corano, che dice che ogni figlio assomiglia più al suo tempo che a suo padre. Quanti figli ci sono nella Cgil?
5. Meloni alla Cgil: se il peluche diventa sindacato[14]
Un intervento abilmente ruffiano, favorito da un contesto fragile ed evanescente. L’irruzione della premier di destra nel congresso della Cgil segna un cambio di scena del tutto inedito. Il sindacato viene derubricato a grande patronato dei poveri, ai dipendenti viene assicurata la protezione contro la concorrenza internazionale alle loro aziende, a pensionati e ceto medio basso si assicura un fisco clemente. In cambio, si pretende la neutralità sulle strategie politiche del governo e sulle forme di privilegio della proprietà e soprattutto dell’impresa, la cui esclusiva nella gestione economica non si discute.
Sarebbe facile e anche provocatorio parlare di una platea intesa dalla Meloni come la Camera delle corporazioni dei deboli, ma non sarebbe sbagliato. Il sindacato diventa un soggetto politicamente neutrale, che compie periodicamente la sua questua dinanzi al governo, che trova modo di sostenere gli ultimi, di garantire i penultimi e di premiare i secondi; mentre i primi diventano controparti che si devono arrendere al potere dell’esecutivo o diventare una quinta colonna di un globalismo penalizzante della nazione.
In questo schema non si parla di diritti, tanto meno di conflitti, ma solo di redditi accessori, di servizi sociali compensativi. Il potere non è tema che riguardi il sindacato.
È sembrata sicura e disinvolta la presidente del Consiglio sulla tribuna rossa. I peluche all’inizio l’hanno solo intenerita per lo sguardo compassionevole dedicato alla sparuta pattuglia di irriducibili contestatori.
Una volta sul podio, Giorgia Meloni non ha avuto imbarazzi o incertezze: tutto in discesa. Si è permessa di usare il ricordo dell’omicidio dell’economista del lavoro Marco Biagi per ricordare le ambiguità di qualche spezzone sindacale; ma subito ha compensato con il tributo reso alla Cgil bersaglio dei fascisti e dei “no vax”, che le è valso anche l’unico, per quanto incerto, applauso dei delegati apparsi più spiazzati che freddi.
Ogni buco che Maurizio Landini ha lasciato nel suo percorso congressuale è diventato una voragine in cui spietatamente la Meloni si è precipitata, offrendo al sindacato il ruolo di consultato permanente ma non decisivo.
Simmetrico alla relazione del segretario generale anche il totale silenzio della premier italiana sull’intero intrigo tecnologico: banda larga, rete nazionale, cloud della pubblica amministrazione, telemedicina, digitalizzazione dell’amministrazione pubblica – sono rimasti nel cassetto, come peraltro anche nell’esposizione di Maurizio Landini.
Rimosso, soprattutto, il buco nero del dominio digitale: come si colloca l’Italia nella battaglia europea per autonomia e consapevolezza critica nella gestione delle nuove intelligenze? Domanda non fatta dal sindacato, risposta nemmeno sfiorata dal governo. Fra parentesi la questione Ucraina, segnale che proprio non si voleva increspare minimamente l’acqua.
Ora tocca alla Cgil. O si accetta l’offerta e si chiede dove sedersi al tavolino delle consultazioni, o si inizia un nuovo congresso in cui la Cgil decide di non fare come la Cisl e di ritrovare un’identità di soggetto politico globale, che rappresenta una visione del mondo da parte del lavoro.
Una scelta ostica, che lascia poco spazio, e soprattutto richiederebbe un cambio radicale di punti di vista. Ma forse anche di occhi, per non farsi trasformare in un innocuo patronato sociale.
In questo schematico itinerario che abbiamo ricavato dalla successione dei commenti alle massime assise di PD e CGIL rintracciamo i nodi di una crisi che riguarda la base sociale più che i vertici delle organizzazioni cardini della sinistra: tornano in prima linea gli interessi materiali, i valori condivisi e soprattutto l’ambizione a riconfigurare assetti di poteri strutturali quali la proprietà di dati e algoritmi , per dare alla sinistra la caspacità e la volontà di rispondere al quesito iniziale: A che prò ?
[1] Articolo scritto per terzogiornale.it, 23 gennaio 2023. Cf. https://www.terzogiornale.it/2023/01/23/un-partito-del-lavoro-o-piuttosto-il-dilemma-socialismo-o-barbarie/.
[3] Paul Mason, PostCapitalism. A Guide to Our Future, London Penguin, 2015, 301 p. Traduzione italiana di Fabio Galimberti: Postcapitalismo. Un guida al nostro futuro, Milano, Il Saggiatore, 2016, 382 p. Ora: Milano, Feltrinelli 2022, 384 p.
[4] Moisés Naím, The end of Power. From boardrooms to battlefields and churches to states, why being in charge isn’t what it used to be, New York, Basic Books, 2013, XIII-306 p. Traduzione italiana di Laura Santi: La fine del potere. Dai consigli di amministrazione ai campi di battaglia, dalle chiese agli stati, perché il potere non è più quello di un tempo, Milano, Mondadori, 2013, 394 p.
[5] Moisés Naím, La fine del Potere, op. cit. alla nota precedente, p. 75.
[6] vedi citazione da Obama.net, a cura di Michele Mezza, Morlacchi editore, Perugia 2009.
[7] Bocconi editore, 2012)
[8] Comunicazione e potere, Bocconi editore, 2008).
[9] https://cdn.theatlantic.com/media/archives/1945/07/176-1/132407932.pdf
[10] (Bompiani editore),
[11] Articolo scritto per terzogiornale.it, 27 febbraio 2023. Cf. https://www.terzogiornale.it/2023/02/27/elly-una-promessa-piu-che-una-speranza/.
[12]Articolo scritto per terzogiornale.it, 13 marzo 2023. Cf. https://www.terzogiornale.it/2023/03/13/nuovo-vertice-del-pd-una-borraccia-ancora-vuota/
[13] Articolo scritto per terzogiornale.it, 16 marzo 2023. Cf. https://www.terzogiornale.it/2023/03/16/congresso-cgil-un-sindacato-che-non-contratta-il-cambiamento/.
[14] Articolo scritto per terzogiornale.it, 17 marzo 2023. Cf. https://www.terzogiornale.it/2023/03/17/meloni-alla-cgil-se-il-peluche-diventa-sindacato/.