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Democrazia Futura. La Rai e le Italie da raccontare

Stefano Rolando

Stefano Rolando nel suo pezzo “La Rai e le Italie da raccontare[1]” torna sulle recenti polemiche giornalistiche che hanno investito il servizio pubblico. Molti i dibattiti in parallelo sul destino della Rai. La governance, le risorse finanziarie (il canone, a chi, come?), professionisti che vanno e vengono, la trasformazione digitale, il rapporto pubblico-privato. Prove e controprove di nuova riforma ovvero di nessuna riforma. Ma – con un giro di opinioni di questa prima infuocata metà di luglio – anche una discussione sui contenuti. Il nuovo direttore generale della Rai (Giampaolo Rossi) e alcuni giornalisti che la Rai la conoscono (Aldo Grasso e Corrado Augias). Un’occasione per qualche commento sulle Italie da raccontare.

Molti i dibattiti in parallelo sul destino della Rai. La governance, le risorse finanziarie (il canone, a chi, come?), professionisti che vanno e vengono, la trasformazione digitale, il rapporto pubblico-privato. Prove e controprove di nuova riforma ovvero di nessuna riforma. Ma – con un giro di opinioni di questa prima infuocata metà di luglio – anche una discussione sui contenuti. Il nuovo direttore generale della Rai (Giampaolo Rossi) e alcuni giornalisti che la Rai la conoscono (Aldo Grasso e Corrado Augias). Un’occasione per qualche commento sulle Italie da raccontare.

CI sono molti e diversi dibattiti che da decenni riguardano il ruolo della Rai nella vita sociale, culturale e politica del nostro Paese.

  1. Quello più complicato, più duro e meno chiaro al pubblico riguarda la governance. Chi è il padrone, chi comanda, chi arruola, chi decide.

Anche il palinsesto finisce alla fine per essere un problema di governance. Non solo tecnica ma anche politica. Decidere come competere, contro chi competere e su cosa competere (attenzione, non ci sono solo le tv concorrenti che competono, ma anche il mondo intero dei sistemi di rappresentazione: le vacanze, la vita sociale, gli eventi, la vita religiosa, gli atti di consumo, eccetera, eccetera, tutto compreso).

Ne nasce che il palinsesto è una tecnica se si tratta di predisporre un’ipotesi di incontro con pubblici immaginati. Ma è anche una politica quando si decide di essere o non essere conformisti con il mondo che ci sta attorno.

Ricordandoci che per sua natura la televisione è tendenzialmente un po’ conformista, cioè famigliare, collocata nelle case, più capace di integrare che di contrapporsi. Ma ciò non succede sempre, non ad ogni ora, non per tutte le cose che fa e che pensa di potere e saper fare.

Palinsesti e strategie narrative. Studiosi e decisori

Resta allora vivo, palpitante, interessante, ma non tanto sviluppato con spirito critico popolare, il dibattito sui contenuti comunicativi.

Insomma, le strategie narrative, i linguaggi perseguiti e inventati, il rapporto con cui collocare un’ipotesi produttiva a una visione politica e sociale del ruolo moderno di quel mezzo.

Certo è questo l’approccio più noto nel mondo degli studiosi di queste materie. Ci si laureano molti studenti. Si scrivono libri a volte interessanti altre volte noiosi (essendo che anche i libri che studiano la creatività possono essere creativi oppure noiosamente descrittivi).

Ma ci sono momenti in cui attorno a questo argomento gli studiosi entrano in ombra.

Ed entrano in campo i decisori. Quelli politici, quelli piazzati dalla politica per fare e pensare, quelli che rispondono a interessi connessi alle dinamiche (di opzione, d’acquisto, di libertà o di dipendenza) dell’opinione pubblica.

Abbiamo assistito nei giorni scorsi ad un frammento di questo dibattito. Proprio su questo punto.

Ricordiamo qualche voce in campo e poi proviamo a fare qualche commento.

Il contesto, ovviamente, è quello del cambio il governo e – more solito – del cambio della governance della Rai.

Le nuove linee editoriali degli editori televisivi commerciali con una diversa logica concorrenziale

Viene anche da aggiungere una cosa in evidente agenda: esce di scena Silvio Berlusconi e il nuovo editore (anche se figlio, però con una trentina di anni di meno, argomento che conta molto da sempre nel pensare e nel fare televisione) cambia linee editoriali.

I due piani naturalmente si incrociano perché la Rai deve costantemente dimostrare le ragioni per cui definirsi giuridicamente “servizio pubblico” e così conquistarsi una grande fetta di risorse finanziarie solo per il fatto di esistere.

E perché Mediaset può decidere – come ha spesso deciso – di scegliere una programmazione puramente commerciale e puntare di più su certi target sociali (tra cui i giovani) ma può anche decidere – come ora sembra di voler decidere – di tentare alcune vie di pubblica utilità, si vedrà meglio in seguito per quali fini, ma intanto costruendo una diversa logica concorrenziale.

È nell’aria comunque (Mediaset ma anche cenni di Urbano Cairo per La 7) che si potrebbe aprire una inedita partita spartitoria sul canone. E comunque il tema finanziario è all’ordine del giorno del governo e mai come oggi tirano venti contrari al tacito prolungamento del canone.

L’influenza governativa sulle nomine Rai e le carte in mano al Direttore Generale

Parliamo comunque di Rai.

Il governo influenza molte nomine e molte scelte diciamo così artistiche.

Perno della strategia di questo dibattito (cioè, quello sui contenuti) da sempre è il Direttore Generale la figura di maggior ruolo, rispetto al Consiglio di Amministrazione o all’Amministratore Delegato.

E mentre circolano nomi di varia qualità per il ricambio di tasselli professionali e artistici – in qualche caso davvero di dubbia qualità – la voce del Direttore Generale sembra appartenere a qualcuno che conosce il mezzo e l’azienda, appartiene con certezza al filone culturale della destra italiana, pare abbia gli strumenti per mediare volontà politiche con la compatibilità di trattamenti, che se – proprio a causa di incompatibilità – rasentando il terreno della propaganda scatenano il finimondo.

Dunque, la domanda che viene spontanea è capire se una simile figura sa e può mettere in campo con l’intelligenza dovuta smarcamenti e novità in forme diciamo equilibrate e sostenibili rispetto alla convivenza della complessità della rappresentazione televisiva.

Questo è un frammento del dialogo tra Giampaolo Rossi e Antonella Baccaro del Corriere della Sera (6 luglio):

I nuovi palinsesti che avete dovuto preparare in tutta fretta in che modo rappresentano la nuova Rai?

«Valorizzano le risorse interne, sono plurali e organizzano finalmente le reti secondo criteri di genere, uscendo da una visione ideologica».

Avete destrutturato Ra13TeleKabul?

«Rai3, come ogni rete, racconterà l’Italia com’è realmente, non come qualcuno la vorrebbe».

Qualcuno chi?

«Spesso la Rai è stata fuori sincrono rispetto alla realtà: è stata l’espressione di un gruppo ristretto che la dominava».

Chiosano Aldo Grasso sul Corriere della Sera (10 luglio) e Corrado Augias su La Repubblica (11 luglio). Aldo Grasso scrive:

“Rossi sembra dire: “prima Rai3 era una rete di sinistra e dava della realtà un’interpretazione ideologica, ora non sarà più così”. Già le premesse mi sembrano azzardate (l’ultima Rai3 era di sinistra? Ho forti dubbi), ma non penso che il dg Rossi voglia credere alla favola dell’obiettività. Un giornalista, un conduttore, un programma che dicono la «verità», raccontano l’Italia «com’è realmente», sono attendibili solo quando ammettono di aver tratto i fatti secondo le proprie opinioni. La credibilità di un giornalista o di un conduttore dipende unicamente dalla sua capacità di seguire un metodo riconoscibile, dichiarato e applicato con coerenza. Potendo, anche uno stile”.

Corrado Augias commenta entrambi e dice:

“Ma com’è realmente l’Italia? Qualcuno si sente di dire quali caratteri etnici, linguistici, politici, di costume, identifichino un ethos comune a sessanta milioni di italiani? O anche solo alla loro maggioranza? Se c’è un popolo la cui immagine nel mondo è drammaticamente ambigua, spesso indecifrabile, quelli siamo noi. Siamo il Paese di eccellenze uniche e di diseguaglianze abissali, abbiamo territori e imprese all’avanguardia nel continente e altre che figurano in coda ad ogni possibile classifica, scienziati e ricercatori che si fanno largo nelle istituzioni più prestigiose e un abbandono scolastico drammaticamente alto, un analfabetismo funzionale di proporzioni scandalose. Gli italiani sono questo magma ribollente per il quale non è possibile un racconto che tutto sommi in una sola “realtà”.

Giampaolo Rossi torna con una nota sul Corriere della Sera (13 luglio) per ampliare la riflessione su Rai3, all’origine smilza e icastica.

Sottolinea la tipicità di Rai3 rispetto al modello più “plurale” delle altre reti): “La Rai3 di questi ultimi decenni non ha rappresentato questa complessità narrativa”

(mettendo in capo allo stesso Angelo Guglielmi questo assunto). E si fa paladino – per tutte le piattaforme del Servizio Pubblico – del principio di “complessità”: “si costruisce per somma e non per sottrazione, aggiungendo non togliendo”.

L’ultima chiosa è di Aldo Grasso che conferma che la verità non esiste e serve solo dichiarare onestamente l’angolatura visuale. Per chiudere con ironia circa il “miracolo atteso da anni: sparisce la lottizzazione attraverso la nuova organizzazione per generi”.

Un commento al dibattito aperto dal Corriere della Sera e da La Repubblica

Vorrei brevemente commentare questi frammenti.

È fin troppo ovvio che la soglia minima della abilità dirigenziale permette di dire cose rassicuranti e poi magari di fare cose senza ritegno (il dossier dei direttori generali della Rai presenta storicamente una casistica bilaterale piuttosto nutrita).

Per cui non è l’annuncio del rientro di un giornalista reputato per le sue rumorose battaglie di sinistra che potrà evitare critiche per assunzioni sbagliate o inquietanti.

Questo tentativo di riprodurre la bipolarità anche un po’ estremistica della politica italiana non è affatto rassicurante circa propositi di perseguimento di un interessante e moderno ruolo di servizio pubblico.

Dunque, anche la pur giusta osservazione di Corrado Augias circa la necessità di tenere a mente le tante Italie da narrare non garantisce molto rispetto a ciò che terrebbe in carreggiata l’azienda e le sue articolazioni interne circa l’assolvere a un ruolo di servizio agli italiani e non di organizzatore del consenso lottizzato. E questo quid si chiama da sempre linea editoriale, cioè ridefinizione non burocratica o generica della mission, individuando gli obiettivi circa le fragilità sistemiche del nostro Paese ed in particolare circa quelle aree di debolezza sociale che rendono più debole l’Italia e il suo dinamismo internazionale.

La battaglia per ridurre l’analfabetismo funzionale in Italia e altri temi vitali

Penso che porsi alla testa d’una grande battaglia per la riduzione drastica dell’analfabetismo funzionale che Tullio De Mauro stimò a oltre il 45 per cento oltre venti anni fa e che l’OCSE – togliendo alcuni paradigmi – ha un po’ retrocesso ad un terzo degli italiani (cifra pur sempre spropositata) riprodurrebbe lo stesso senso epocale di battaglia culturale e sociale che ebbe la Rai quando partendo dai duri anni Cinquanta diede l’assalto all’analfabetismo tout court. C’è un beve accenno di ciò anche nell’articolo di Augias.

Oggi è tuttavia necessario aprire ai grandi temi del terzo millennio: la comunicazione scientifica, la sostenibilità, le forme di apprendimento, i divari cognitivi, la salute, eccetera.

Nelle priorità della linea editoriale io in questa fase storica collocherei anche il tema di una forte impronta euro-mediterranea della programmazione (per temi, linguaggi, connessioni valoriali, economiche e identitarie) a sostegno dell’unica prospettiva importante per la geopolitica italiana.

Questo comporta un ruolo al tempo stesso popolare ma anche critico dell’informazione e dell’intrattenimento. Il cui obiettivo maiuscolo diventa più importante – perché misuratore del lavoro di tutti e di tutta l’azienda – di questo o quel giornalista autocelebrativo o socialmente inerte o persino provocatore, così da riallineare l’idea del management pubblico ad obiettivi per l’appunto pubblici e non rivelatori di una cultura da “suk”.

Per non essere frainteso voglio dire che sulla parte di rilancio della competitività della Rai – di cui parla Giampaolo Rossi nell’intervista – sono d’accordo in via di principio, ma penso che questa espressione debba contenere non solo il tema dei compensi artistici e professionali ma soprattutto i temi di cercare nuovi pubblici oggi estranei al servizio, costruendo questo rapporto su grandi presupposti di innovatività.

Giampaolo Sodano, promuove un seminario su questo e altri argomenti, rispetto a cui ho provato a fare qualche piccola anticipazione. Tra gli spunti del documento di avvio, che Sodano ha scritto in collaborazione con Marco Mele, va sottolineato anche il rilevante punto di immaginare la Rai al centro di un grande progetto di valorizzazione del patrimonio culturale italiano (aggiungo io non solo quello “materiale” ma anche quello “immateriale”).


[1] Pubblicazione come podcast sul magazine online Il Mondo Nuovo.Club – Rubrica “Il biglietto da visita“, 16 luglio 2023.

Cf. https://www.ilmondonuovo.club/la-rai-e-le-italie-da-raccontare/.

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