Senza negare in toto l’analisi di Michele Mezza, per Roberto Amen rimane un rimedio all’informazione piattaformizzata: quello che nell’articolo odierno per Democrazia futura chiama “la presenza fisica del giornalista per respirare l’aria che tira e smascherare dal vivo le distorsioni dei fatti reali e le congetture che alimentano le bufale”.
La verità ovvero la ricerca della credibilità e della fiducia
Per favorire uno scambio sincero e simmetrico tra il giornalista e il lettore
Cerchiamo notizie e informazioni per costruirci un’opinione, il più possibile vicino alla verità, o la conferma di quel che pensiamo, e spesso si tratta di pregiudizi? La prima cosa che deve fare un giornalista è sciogliere, con estrema sincerità, questo nodo, per determinare, come condizione preliminare, il proprio atteggiamento etico di testimone della realtà. Specularmente però questo atteggiamento deve averlo fatto proprio anche il destinatario delle news: il lettore, spettatore, fruitore di quelle notizie. Senza questa simmetrica, indispensabile precondizione, lo scambio tra i due poli del circuito non funziona come dovrebbe. L’unico elemento catalizzante di questa alchimia si chiama fiducia, credibilità o, per usare un termine anglofono, dal significato forse un poco più largo, reputation.
Post verità rassicuranti e sindrome del pregiudizio
Il recente caso dei negazionisti
La reputation tuttavia non riesce del tutto ad arginare la sindrome del pregiudizio. “Non mi fido di nessuno, men che meno dei media mainstream e di un mondo scientifico, che penso sia portatore di interessi inconfessabili, però credo senza riserve ai tastieristi che sostengono ciò in cui credo, o in cui mi piace credere”.
Questo il ragionamento che sta alla base di molti atteggiamenti negazionisti: dagli antivax ai complottisti ai primatisti, giù giù fino ai terrapiattisti e oltre. Tutti pronti a negare consolidate verità scientifiche con argomenti inconsistenti e fantasiosi.
Come si crede in una post verità rassicurante, proprio perché ritenuta lontana dal pensiero dato in pasto alla massa. Tutto rifiutando quegli spazi di contradditorio, o di cambiamento di opinione tipici della democrazia.
Un filone, quello di coloro che si rifugiano nelle post verità (o, addirittura, continuano a credere che la terra sia piatta), su cui ha attecchito “l’uno vale uno” che tanti guai si è portato dietro.
Lo scenario descritto nel bel saggio di Michele Mezza che compare nelle pagine di questo numero di Democrazia Futura, contiene citazioni dell’opera della professoressa di Harvard Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” al quale la nostra rivista aveva dedicato un intero dossier di approfondimento nel suo numero zero.
Ciononostante consentitemi di ritornare su quest’opera utile non solo per interpretare il nostro tempo e prendere le opportune distanze critiche da scenari davvero inquietanti determinati dalla cosiddetta “dittatura delle piattaforme”.
Secondo Zuboff, il capitalismo della sorveglianza è “un nuovo ordine economico che rivendica l’esperienza umana come materia prima gratuita” e “una logica economica parassitaria in cui la produzione di beni e servizi diventa subordinata ad una nuova architettura globale di modificazione comportamentale”.
Non possiamo dunque che prendere atto di questo processo senza demonizzarlo né pretendere di combatterlo negandolo o ignorandolo o peggio invitando giornalisti e lettori a nuove rivolte inutili quanto fuorvianti. Le conseguenze di una forma di luddismo sarebbero devastanti per la nostra categoria.
Produzione di dati a mezzo di dati
Verso una datificazione, ovvero la mercificazione/disumanizzazione dei comportamenti della vita umana. La vera essenza del capitalismo della sorveglianza
Le nostre esperienze più intime vengono disumanizzate e diventano una merce qualsiasi a cui noi stessi paradossalmente forniamo gratuitamente la materia prima. “L’essenza di questo tipo di sfruttamento è la rappresentazione delle nostre vite come un aggregato di dati comportamentali, in modo da permettere un migliore controllo di noi da parte degli altri”.
Diventa ancora più inquietante la considerazione che, volgendo alla fine l’era digitale e aprendosi quella quantistica, a proposito di capacità computazionale, le prospettive si affacciano ben oltre l’orizzonte e l’apocalittico.
La controprova di CoronaCheck
Ci inocula un po’ di ottimismo, peraltro in dose omeopatica, la semplice considerazione che si possono utilizzare, in maniera preventiva, gli stessi strumenti di mercificazione dell’informazione, per risalire la filiera della loro origine e difendersene. Ci sono molte iniziative di siti che cercano di contrastare le fake e ci auguriamo che si moltiplichino e che possano disporre di tecnologie adeguate, considerando che i produttori di falso di risorse ne hanno in abbondanza.
Tra i primi lanciati, il sito CoronaCheck è interamente dedicato alla verifica statistica dei numeri legati al coronavirus. Realizzato da un team di ricercatori del dipartimento di data science di Eurecom, della Cornell University con la collaborazione della Johns Hopkins University, permette di verificare le notizie sulla base dei dati ufficiali provenienti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dei governi e dei ministeri della salute di Italia, Australia, Taiwan, China, Canada. Per ogni verifica o domanda posta, il sito mostra un’etichetta vero/falso e una spiegazione di come il sistema di intelligenza artificiale sia giunto a quella conclusione.
Il rimedio all’informazione “piattaformizzata”
La presenza fisica del giornalista per respirare l’aria che tira e smascherare dal vivo le distorsioni dei fatti reali e le congetture che alimentano le bufale
Stando così le cose a questo punto, per non farsi travolgere dalle prospettive più tetre, è buona regola riprendere saldamente in mano il senso delle cose e per farlo con il giornalismo, non occorre tornare troppo indietro nel tempo. Perché il metodo di coniugare i capisaldi che reggono l’essenza di ogni cosa, con gli strumenti migliori del presente, rimane il processo più saggio e sicuro.
“Se non ci fossi andato non avrei capito niente”. Quante volte lo abbiamo pensato dopo aver scritto un pezzo, magari di cronaca, che avrebbe invece preso l’avvio da una notizia completamente fuorviante se fossimo rimasti in redazione, come magari preferirebbe l’editore.
La presenza fisica in una data situazione offre una enorme quantità di strumenti per chi li sa fiutare e poi decifrare. L’aria che si respira, gli sguardi, il contesto umano e ambientale, ti fanno immergere quasi totalmente nella realtà, più di qualsiasi altra cosa.
Le fake news non sono una novità del nostro tempo se non nella definizione linguistica. Ci sono sempre state anche se in misura più trascurabile. Una quota di esse aveva un’origine casuale: una distorsione, talvolta involontaria, del passaparola che parte dalla fonte in un modo, e si distorce nel suo percorso, fino a diventare un’altra cosa, totalmente diversa, quando arriva al destinatario finale. Oltre ad arricchirsi di suggestioni individuali, di ipotesi e congetture che vengono fatti passare per fatti reali.
Distorsioni involontarie e volontarie
Il metodo del fishing usato da Trump per imbrogliare i suoi sostenitori. Il caso dei 134 siti che hanno pubblicato disinformazioni individuati da NewsGuard
Quando se ne è scoperta la valenza manipolatoria, la quota di distorsione volontaria e dolosa è aumentata a dismisura. Tanto da diventare uno strumento strategico non solo politico. Trump l’ha adottata come pratica corrente del suo agire, fiducioso del fatto che la stragrande maggioranza dei suoi sostenitori non avrebbe potuto, né voluto, verificarne la veridicità. Su questo si basa l’efficacia delle notizie false, sulla certezza che in molti ci cascheranno.
Mentre il metodo di truffa del fishing si basa su un dato statistico che prevede di imbrogliare solo i più sprovveduti (faccio mandare da un robot cento mila mail in cui chiedo di fornire alcuni dati sensibili e comunque prendo pochi pesci), l’uso scientifico della fake, garantisce un’inversione del rapporto, e promette che nella rete ci rimanga il grosso del pesce, non solo i più ingenui e sprovveduti.
E comunque la stessa capacità di automatizzare l’informazione in maniera talmente esasperata da escludere l’elemento umano, può essere usata per ripercorrere a ritroso la filiera produttiva, fino a svelarne le finalità manipolatorie e fuorvianti. Dei 134 siti (in italiano, inglese, francese e tedesco) individuati da NewsGuard per aver pubblicato disinformazione sulle elezioni in USA, 84, ovvero il 63 percento, hanno anche pubblicato informazioni false sulla pandemia di coronavirus. Alcuni siti hanno persino trovato un modo per sovrapporre i due temi come un presunto complotto globale guidato dai media mainstream.
Un sito in lingua francese ha affermato che sia la pandemia che le elezioni statunitensi hanno dimostrato come i media mentano, perché censurano “le prove di un enorme broglio elettorale” e nascondono la presunta verità che la pandemia sia “uno strumento di ingegneria sociale”.
Un sito in lingua francese ha condiviso la foto di un uomo che trasportava un’urna elettorale sulla sua auto come prova di “brogli in atto”, quando in realtà si trattava della foto di una persona che trasportava regolarmente le schede elettorali. Un altro sito web in lingua francese ispirato dal governo russo, ha affermato che in Michigan sono state conteggiate anche schede di elettori morti.
La ricerca dell’informazione pulita a tutela del consumatore contro l’esplosione di prodotti indigeribili
Come combattere l’Infodemia indigesta certificando le notizie e difendendo i diritti/sistemi democratici
Insomma, tutto fa pensare che l’informazione possa seguire la parabola del cibo. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’agricoltura drogata dalla chimica era la nuova frontiera dell’alimentazione di popoli che avevano conosciuto la fame. Nel corso dei decenni successivi ci si è resi conto che la chimica inquinava il cibo e che era meglio essere prudenti. Adesso, almeno i consumatori più consapevoli, cercano cibi puliti, biologici provenienti da coltivazioni controllate e che siano certificati da organismi di controllo severi che le garantiscano. Così faremo per le notizie, pretenderemo di consumare solo quelle certificate, quelle garantite dal controllo attento della filiera. O, in altre parole, le bionotizie.
Tuttavia, il modo migliore per smarcarsi dagli effetti liberticidi del Capitalismo della sorveglianza, declinato nell’informazione della sorveglianza, sta nella difesa sempre più stretta del sistema democratico, nella determinazione dei cittadini a lottare per la loro libertà.
La storia ci ha insegnato che i decenni di ingiustizie oppressive del capitalismo finirono contro il muro della mobilitazione democratica dei popoli per la difesa dei loro diritti e per l’introduzione nei sistemi politici, di concetti solidaristici e dei loro presidi. La Costituzione italiana ne è uno degli esempi più edificanti contiene gli anticorpi necessari. Sta a noi avere la consapevolezza che bisogna coltivarli con cura e non darli mai per scontati.