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Democrazia Futura. La politica come progetto per programmare il nostro futuro

Stefano Rolando

A dodici giorni dalla scomparsa a 96 anni, Democrazia futura ha chiesto a Stefano Rolando di ricordare la figura di Giorgio Ruffolo ripubblicando una sua intervista del 2010 per Mondoperaio alla vigilia delle celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Sono passati tredici anni da quell’intervista che possiamo considerare come una sorta di testamento politico di quello che a lungo è stato l’animatore del Centro Europa Ricerche e sembra un’eternità. “La politica come progetto per programmare il nostro futuro[1]“. In Italia e in Europa.

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Nel 2008, in un articolo su La Repubblica,Giorgio Ruffolo scrisse: “Io per me ho deciso di morire socialista. Data l’età, non si tratta di un impegno di lunga lena”.

Due anni dopo, nel 2010, gli chiesi di tornare su questo pensiero, ma nel quadro di una ampia riflessione sul 150° dell’unità d’Italia.

Era un ciclo di colloqui che con Gigi Covatta avevamo immaginato per Mondoperaio. Per i comunisti Luciano Barca, per i cattolici Giuseppe De Rita e Piero Bassetti, per i socialisti Giorgio Ruffolo, per i repubblicani Antonio Maccanico, per i liberal-radicali Marco Pannella.

I testi sono nell’archivio di Mondoperaio e dodici giorni della sua scomparsa a 96 anni – a differenza di quel che pensava Giorgio, è stata “una lunga lena” – accogliendo l’invito di Bruno Somalvico – ripropongo a quel dialogo di quasi tredici anni fa’, dove ci sono molte cose di lui e del suo impegno civile, intellettuale e politico.

Siamo ancora in molti a ricordarlo, elegante, flemmatico, con quella voce meravigliosa, parte di una classe dirigente, di un sistema di competenze, capace di leggere la storia e di ingaggiare sfide con l’economia. Il suo Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo (Torino, Einaudi, 2009, 150 p.), tra una ventina di testi che hanno accompagnato la sua vita di economista (laureato in giurisprudenza), di parlamentare, europarlamentare, ministro, è stato al tempo stesso un aggiornamento del meridionalismo classico e una profezia sullo strappo nord-sud di quest’ultimo ventennio.

Il suo Il capitalismo ha i secoli contati (Torino, Einaudi, 2008, 295 p.) era una moral suasion per quella sinistra che leggeva il fenomeno in forma troppo recente e prossimo alla autodistruzione. Un confronto ingaggiato fin dagli anni Cinquanta.

Conversazione con Giorgio Ruffolo (2010)[2]

Stimolo a questo approfondimento è stato l‘ultimo libro di Ruffolo Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, edito da Einaudi nel 2009 in previsione del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia e di cui Mondoperaio aveva pubblicato un brano. E rivolgendo lo sguardo naturalmente anche alla lunga attività di riflessione e di scrittura di cui nell’intervista vi è traccia.

Giorgio Ruffolo, scomparso il 16 febbraio u.s., era nato a Roma nel 1926, laureato in giurisprudenza, esperto economico alla Banca Nazionale del Lavoro, passa poi all’OCSE e dal 1956 all’Eni di Enrico Mattei.

Nel 1962 viene incaricato dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa di riorganizzare gli uffici della Programmazione presso quel Ministero, assumendo l’incarico di segretario generale per la Programmazione economica, che svolgerà fino al 1975.

Particolare rilievo hanno gli anni della responsabilità di Antonio Giolitti al Ministero del Bilancio e della Programmazione nel primo centro-sinistra.

Dirà:

“Anni di grandi riforme, lo si può dire oggi che di riformismo non si fa che parlare, allora non se ne poteva neppure parlare, a sinistra, perché il riformismo era considerato poco meno di un cedimento al nemico, si doveva dire, per carità: riformatori, non riformisti. Però le riforme, in quella stagione di centro sinistra, si fecero davvero”. 

Dal 1975 al 1979 ha presieduto la FIME (Finanziaria Meridionale) per lo sviluppo di nuove iniziative industriali nel Mezzogiorno. È stato ministro dell’Ambiente dal 1987 al 1992 (per quasi sei anni consecutivi) e deputato socialista a Montecitorio e al Parlamento europeo, fondando nel 1981 il Centro Europa Ricerche di cui è tuttora presidente.

Socialista dal 1944, giovanissimo dirigente della Federazione Giovanile Socialista, entra in seguito a fare parte della direzione nazionale del PSI. In gioventù è stato anche uno dei fondatori della sezione italiana della Quarta Internazionale, insieme a Livio Maitan e Franco Archibugi.

Insieme a Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti Pasquale Saraceno è stato uno dei principali promotori di una politica di programmazione economica strumento per affrontare squilibri territoriali e diseguaglianze sociali.

Più volte deputatosenatore e parlamentare europeo, ha aderito successivamente ai Democratici di Sinistra. Ha scritto per Bompiani la prefazione del celebre rapporto della commissione Bruntland Our common future (Il futuro di noi tutti), che ha contribuito allo sviluppo del concetto di sviluppo sostenibile. Ha partecipato nel 2007 alla redazione del manifesto programmatico del Partito Democratico, alla cui evoluzione non risparmia critiche.

Per Einaudi ha pubblicato La grande impresa nella società moderna (1967), Cuori e denari (1999), Quando l’Italia era una superpotenza (2004), Lo specchio del diavolo, una storia dell’economia dal paradiso terrestre all’inferno della finanza (2006), Il capitalismo ha i secoli contati (2008 e 2009) e il già citato Un paese troppo lungo (2009).  

Negli ultimi anni ha scritto su La Repubblica e L’Espresso.  

In suo onore, a cura di Luciano Cafagna, il libro Riformismo italiano. Saggi per Giorgio Ruffolo, con interventi di Giorgio NapolitanoWalter VeltroniJacques DelorsCorrado AugiasGino Giugni, Franco Archibugi, Federico Coen, Mario Pirani e altri (Donzelli2007).

Ha scritto, per ricapitolazione e, dice lui, un po’ per esorcismo:

”Io per me ho deciso di morire socialista. Data l’età, non si tratta di un impegno di lunga lena”. 

Nel n. 5 datato maggio 2009 di Mondoperaio era uscito lo scritto di Giorgio Ruffolo “Quale socialismo? Quattro idee per una nuova Bad Godesberg” che sviluppava riflessioni sulla governance mondiale, sulla sostenibilità ambientale, sulla lotta contro le disuguaglianze, sul senso della stessa governance e dello sviluppo del capitalismo.

Un anno dopo nel n. 5 datato maggio 2010 della rivista era uscito il suo articolo “Veritas in caritate” nel dossier dedicato alla crisi e all’ultima enciclica papale e, al cuore, al controverso tema della demografia.

Quanto al saggio Un paese troppo lungo esso sostiene che l’unità nazionale del nostro paese è sempre stata malsicura, minacciata, mai veramente attuata.

“Non si può certo dire – annota Ruffolo – che in questi anni, cosi vicini al 150° anniversario dell’Unità, il problema si stia risolvendo; anzi, sono sempre più forti quelle spinte che, in forme storiche sempre diverse, hanno puntato a una dissoluzione dello stato unitario. Se ci fu un momento in cui avrebbe potuto essere il Sud, unificato dai Normanni e dagli Svevi, a costituire il nucleo e il motore dell’unità italiana, quell’occasione sfumò e ciò che non riuscì a Federico II dovette aspettare l’Ottocento per essere compiuto.

Da subito il grande movimento del Risorgimento rischiò di invischiarsi nella palude dell’anti-risorgimento, ma se i pericoli per l’unità italiana furono nei secoli scorsi il nazionalismo violento e oppressivo del fascismo, o il potere temporale della Chiesa cattolica, non si può dire che oggi manchino le minacce, da una forma di populismo privatistico antagonista del sentimento patriottico, a una decomposizione del tessuto nazionale, presente al Nord in forme provocatorie ma tutto sommato pacifiche, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie”.  

Eppure, secondo Giorgio Ruffolo, una speranza c’è.

Realizzare attorno a un progetto nuovo di unità nazionale una vasta rete di solidarietà sarebbe il segno che la “gente”, oggi abbandonata all’autoritratto sterile dei sondaggi, può ancora trasformarsi, impegnandosi nella costruzione del suo futuro, in popolo”.

Il centocinquantenario del “paese troppo lungo

Nel libro Un paese troppo lungo si paventa la disunità nazionale, la fine dei valori costituzionali condivisi. Lo consideri un problema prevalentemente culturale o un problema soprattutto politico e con prospettive prevedibili?

Penso che sia entrambe le cose. Nella sostanza nel mio libro lo considero come una minaccia. E all’interno della storia di questo paese “troppo lungo” distinguo tre momenti: quello dell’unità mancata, quando essa fu possibile e non fu realizzata, nel corso del medioevo, con al centro la figura di Federico II; quello dell’unità incompiuta, nel corso del Risorgimento; e infine quello dell’unità minacciata, che considero il tempo che stiamo vivendo. In cui il “centocinquantenario” si profila non come la celebrazione di una conferma ma come la conferma che le sorti delle due parti del paese si siano divise. Il divario quantitativo (cioè economico) e quello qualitativo (cioè sociale) mai è apparso come ora. Da qui la minaccia di una vera e propria decomposizione territoriale. Una condizione nella quale il nord è raccontabile con la definizione di un grande storico italiano dell’Ottocento, Adolfo Omodeo, cioè “un grande Belgio grasso”; e il sud segnala il rischio di precipitare in una sorta di colonia mafiosa. In un suo recente e importante discorso all’Accademia dei Lincei Giorgio Napolitano ha denunciato l’attacco alla unità, come concezione e come realtà storica, e ha messo in guardia da interpretazioni fuorvianti che circolano.

Chi dovrebbe essere più imputato in questo contesto: la destra o la sinistra? O è un problema di trasformazione complessiva del sentimento istituzionale interpretato dal grosso della politica italiana?

La questione “destra e sinistra” è per l’appunto quella delle necessità di una ricomposizione al riguardo. Diciamoci la verità, la lettura storica non è mai stata “unitaria”. Presentare ora il tema della “disunità d’Italia” potrebbe permettere di parlare, oggi, di destra e sinistra in una chiave più realistica. La sinistra dovrebbe trovare nel tema dell’identità nazionale un suo problema di identità smarrita. E anche la destra dovrebbe trovare giustificazioni attorno ad una nuova analisi sui fondamenti della Repubblica, così come la Fondazione che fa capo a Gianfranco Fini sta tentando di fare.

Poche righe alla fine del tuo libro auspicano che vi sia un’opinione pubblica che sappia oggi affrontare e rivivere la storia della nazione? Chi? Una maggioranza? Un’élite? Una nuova opposizione?

Sempre si tratta di élite quando la questione è ricomporre una certa visione della storia. Non è dato che vi siano “maggioranze creative”. La creatività è connessa al lavoro di una élite. Si tratta di ricomporre oggi una élite attorno ad uno snodo appunto creativo. L’idea centrale mi sembra essere quella del federalismo. Su cui oggi gravano però interpretazioni che non aiutano un processo innovativo.

Come andrebbe affrontato il problema di misurare il sentimento storico del paese? Chi può meglio interpretare quella governance che assicuri una valutazione “corretta”? La politica o gli intellettuali? Le istituzioni culturali o quelle elettive?

Naturalmente tutto ciò, nella misura in cui vi sia disponibilità a riconoscersi nella storia del paese e a riproporsi il problema di ripensare il paese, cioè di ripensare alla storia d’Italia come tema a cui assegnare una priorità. Filippo Turati intitolò un suo poi famoso discorso, pronunciato nel 1926, “Rifare l’Italia”. Penso che proprio questo sia il punto: ricominciare il ragionamento collettivo e interpretativo non dagli antichi romani ma proprio dal 1861. Allo stato, non vedo una grande movimento attorno all’idea di compiere questa rilettura per cogliere la tendenza del destino italiano.

A cosa dovrebbe servire oggi – con le regole comunitarie molto incidenti e lo sviluppo di una economia glocal che sfugge spesso al tema dei “confini” – l’unità nazionale?

Ti rispondo con una parola: Europa. Ma soprattutto l’Europa da costruire ancora. Nel mio libro c’è spazio per alcune critiche anche ad autori importanti e prestigiosi come Aldo Schiavone, che dicono “l’unità d’Italia non serve più, il problema è altro”. Ove anche l’altro fosse l’Europa – o la globalizzazione – considero sbagliato l’approccio al tema della costruzione del cambiamento per l’Europa se non partendo da un concreto esame delle nazionalità. Certe posizioni mi fanno pensare al tempo in cui gli analisti politici italiani erano ricercati da tutti – dai francesi ai russi – ma non avevano alcuna influenza sull’Italia. Pensare che gli italiani possano essere gli antesignani di una nuova Europa senza avere una personalità nazionale è andare a caccia del niente. Se non recuperiamo un’identità nazionale e un’entità nazionale siamo fuori dalla logica con cui l’Europa è costruita.

Cosa vuol dire nel titolo del tuo libro l’aggettivo “troppo”?

Beh, significa quel che dice la parola: troppo lungo, cioè che minaccia di strapparsi e di strapparsi lungo la linea gotica.

In questa cornice – dopo la scintilla lanciata da Ernesto Galli della Loggia nel luglio 2009 – si è aperto un dibattito. Qualche intervento filo-risorgimentale (sostenuto dai presidenti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano) molti interventi critici (leghisti al nord, papalini al centro, neo-borbonici o antipiemontesi al sud). Ma non è tanto lì la resistenza. La resistenza parte venire piuttosto da un quadro politico poco interessato a mettere mano agli aspetti delicati della questione memoria-identità. Come leggi questo dibattito?

Il mio giudizio collima esattamente con quello del già citato discorso di Giorgio Napolitano. Lo cito testualmente perché lo tengo sott’occhio in questo periodo: “Si vedono emergere giudizi sommari e pregiudizi volgari su quel che fu nell’Ottocento il formarsi dell’Italia come stato unitario; e bilanci approssimativi e tendenziosi di stampo liquidatorio del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861”.

E ancora Napolitano dice:

“Bisogna reagire all’eco che suscitano in sfere lontane da quella degli studi più seri numerosi detrattori dell’unità italiana”.

Sono d’accordo parola per parola su questa linea. I ‘numerosi detrattori’ non hanno ricostituito il senso della storia italiana, ma si sono fatti carico di una controstoria che non ha mai partorito una interpretazione reale. Tutti gli approcci a cui hai fatto cenno, tutte le contestazioni delle fonti dell’unificazione, sono rimaste critiche sterili. Il borbonismo? Ma che senso ha rivalutare la figura di re Ferdinando? Che senso ha rivalutare i briganti?  Quando il problema è – come ho tentato di fare nel mio libro – leggere il brigantaggio come una vera guerra di secessione tra sud e nord, ma nello spirito di ricomposizione dell’unità nazionale che non è certo quello del “borbonismo di ritorno”.

Le tre erre – Risorgimento Resistenza Repubblica – sono tre parole che interpretano bene e compiutamente l’architettura tematica del 150°? Ne manca qualcuna?

Sì, sono queste le tre parole attorno a cui ho cercato di svolgere qualche analisi nel mio libro. Tuttavia qualcosa manca. E manca l’idea centrale di quale dovrebbe essere la ricostruzione della storia d’Italia nel senso del federalismo. Riprendo un accenno fatto prima. Al federalismo viene data un’interpretazione tendenzialmente separatista che considero fuorviante. Oppure chiusa all’interno della questione dell’autonomia fiscale. E’ una questione importante, ben inteso. Ma non è certo la sua essenza. Essenza che riscontro piuttosto in un ‘grande patto’, un ‘patto di unità e di azione’, verrebbe da dire, tra sud e nord. E’ questo che manca alle “tre R” in un contesto che abbia oggi un significato storico.

Federalismo è possibile e necessario se si recupera la sua originaria impostazione, così come fu espressa nel quadro del Risorgimento dai suoi principali propugnatori, come Carlo Cattaneo, come Guido Dorso, come Gaetano Salvemini. Insomma come espressione di un progetto e non come una identità storica, perché in essa non c’è il federalismo.

Un progetto di che cosa? Ciò che ha mosso la mia utopistica proposta di un federalismo ispirato da tre elementi:

Leggi qualche segno nella politica italiana di accoglibilità di una simile proposta?

E’ un disegno utopistico, ma non è forse venuto il momento di sentire qualche bisogno di questo genere?

Più nord chiede il nord, libertà di sud chiede il sud. Nella cultura del riformismo fondato sull’equilibrio tra le culture degli stati nazione e lo sviluppo delle autonomie quali sono i contenuti sostenibili – e quindi politicamente indossabili – del federalismo oggi? Quello che io chiamo il ‘federalismo separatista’, cioè il falso federalismo, ha al centro delle sue argomentazioni la denuncia del peso che il nord subisce a causa di trasferimenti di risorse al sud. Trasferimenti che sono effettivamente ingenti e malamente gestiti. Il cosiddetto “sacco del nord”. La malagestione di queste risorse è un fatto inoppugnabile. Ma sarebbe grave che da questa constatazione derivasse l’idea di ridurre anzi di azzerare i trasferimenti stessi. Mancherebbe così lo stimolo che regolava tutto il progetto meridionalistico di sviluppo del paese, che non era concepito come un progetto di assistenza al sud, ma come promozione di uno sviluppo nazionale con al sud una parte attiva e non passiva. Non era un sogno, ma un impegno che ha avuto un caposaldo nella politica della Cassa per il Mezzogiorno che io più passa il tempo più rivaluto per avere aperto per la prima volta il sud al nord con strade, autostrade e infrastrutture. Oggi occorre una lotta contro le mafie realizzata come lotta nazionale e non solo come azione di contrasto territoriale di ordine pubblico (che pure è decisiva e portata avanti con impegno visibile). La politica dovrebbe guardare ad un federalismo unitario realizzabile attraverso un grande patto tra entità che stanno invece perdendo i contatti.

Hai parlato molto del sud e poco del nord. Per esempio Milano. Ti sembra la capitale di un Belgio grasso?

Purtroppo vedo Milano come una capitale mafiosa. Voglio dire un terreno di cultura di una mafia che dal sud si trasferisce al nord e ne fa il suo quartier generale. Milano è una città profondamente decaduta rispetto alla sua potenzialità di interpretare la cultura e le sollecitazioni della borghesia imprenditoriale del nord. Ha mancato a questa sua aspirazione nazionale e ha scelto una prospettiva provincializzata, influenzata dal leghismo che considero un’espressione di provincialismo non di federalismo.

Ma il Paese ha oggi una “capitale interpretativa”?

Con i suoi limiti Roma lo è. Come diceva Giuseppe Mazzininon c’è Italia senza Roma”. E Roma è anche l’unica città italiana che può contenere quel patto strategico tra nord e sud radicandovi un nuovo presidenzialismo di garanzia.

Nel tuo precedente libro Quando l’Italia era una superpotenza ricordi i primati di Roma e del Rinascimento. Non sempre paesi e popoli hanno diritto pieno di vantare le proprie antiche eredità. L’Italia ha responsabilità attuali grazie a questo lascito?

L’Italia ha la possibilità di riconoscersi in questa storia. Si tratta di avere avuto per due volte nella storia la leadership. Non è il “diritto” a questo destino. Sarebbe assurdo e si configurerebbe come un disegno fascistico quello di recuperare questa visione. Ma avere i titoli per riconoscersi come elemento attivo della storia, questa è una questione legittima che consente di concorrere meglio alla storia futura.

Hai cominciato l’attività politica nel 1944. E la parola “resistenza” è parte del lessico che racconta la storia nazionale. Ti chiedessero di parlare al pubblico – forse sparuto, forse invecchiato, forse incredulo, di un borgo italiano, magari di un Mezzogiorno che fatica a ritrovarsi nelle date delle celebrazioni – in un 25 aprile ormai di difficile celebrazione, come cominceresti il discorso?

Comincerei rievocando alcuni momenti della nostra storia. Quelli che sono stati descritti retoricamente e non nella loro verità. Un solo esempio: Calatafimi. Sono stato invitato, insieme a Lucio Villari, autore di Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, a rievocare l’episodio. Tutti ricordano: Nino Bixio avvicina il generale e chiede che cosa si deve fare. Giuseppe Garibaldi, secondo Giuseppe Cesare Abba, risponde ‘ Qui si fa l’Italia o si muore’. Invece chi riferisce il fatto come fu dice che Bixio pose effettivamente la domanda a cui Garibaldi rispose: ‘Qui non si va né avanti né indietro’. Insomma, è nella realtà delle cose non nella loro retorica che si sono svolti i fatti della nostra storia. Dure lotte che hanno reso possibile miracoli. Nel Risorgimento e nella Resistenza. Realtà, ricordiamocelo, minoritarie. Il moderatismo italiano si è snervato nello svalutare queste grandi ispirazioni minoritarie nella coscienza italiana ma tali da poter nutrire oggi un progetto nuovo.

Per concludere sul 150°: celebrazione attraverso eventi, questo si sta perseguendo, con risorse limitate e programmi ancora incerti. Con appuntamenti al marzo 2011 e forse qualche anticipazione. Ma intanto quali media, quale Rai, quale scuola, quale tessuto associativo civile, quale dialogo istituzioni-società su questa materia?

Innanzi tutto penso che non si dovrebbe fare una ‘celebrazione’. L’unità dovrebbe essere evocata come un progetto a cui concorrere, non come una celebrazione che porta con sé inevitabili retoriche. Abbiamo bisogno di sollecitare negli italiani l’interpretazione della nostra storia. E la migliore interpretazione è quella di proseguirla. Cioè di inventare un nuovo modo di darle un futuro.

I libri dei sogni

Dall’ultimo tuo libro ai tuoi libri. I titoli riletti in fila sono rivendicazione di percorso e predica civile a sinistra. Nella vicenda e nella trasformazione della cultura della sinistra italiana cosa è davvero materia per libri dei sogni (a suo tempo un titolo per rispondere ad una battuta di Amintore Fanfani) e cosa sopravvive come fondamento di una politica che possa governare oggi l’Italia?

Il tema fondamentale che sopravvive è proprio il punto di incontro di queste due realtà di cui tu fai cenno. Un cinefilo direbbe che è ‘lo specifico filmico’. Insomma la specificità italiana è la sua diversità che ha il suo centro focale nella contrapposizione tra nord e sud. E’, insomma, il paese troppo lungo che si deve ricomporre. E’ anche un monito all’Europa che fatica a ricomporre le sue diverse nazionalità nel quadro generale. Quando parliamo dell’unificazione italiana parliamo di qualcosa di molto simile a quella europea. Possiamo parlare anche in nome dell’Europa.

Circa la “predica a sinistra”, a proposito di questa ricomposizione tra nord e sud che cosa pensi che sia oggi giusto “predicare”, cioè rimproverare?

E’ in gran parte superata la concezione gramsciana, che ha dominato a lungo, del divario nord e sud come blocco storico tra capitalismo del nord e latifondismo del sud. Non è più questo il tema. Da questo punto di vista la sinistra deve ripercorrere una sua storia diversa dalla lezione gramsciana. Ripartirei dal pensiero di Gaetano Salvemini che parlava del federalismo come “risorgimento”, ovvero di una autonomia del sud – del “grande sud” (quello che io intendo come macro-regione) – nel processo di sviluppo generale. E partirei anche da Guido Dorso e da Carlo Cattaneo.

Ripartendo da Gaetano Salvemini arriviamo presto anche a una critica della borghesia italiana e della sua mancata missione…

…sì, ma la borghesia del sud non c’è, quindi è della borghesia del nord che dobbiamo parlare. Tra masse contadine ed espressione burocratica, il sud presenta storicamente un vuoto. Al nord c’è una borghesia che ha dimostrato miopia quando non ha voluto vedere il suo destino proiettato anche al sud, ovvero su ciò che, marxisticamente, si sarebbe chiamato ‘il mercato unico nazionale’.

Non è mancata anche nella borghesia italiana – e dunque del nord – l’idea di portare nell’amministrazione dello Stato la propria cultura economica così da fare lì le mediazioni necessarie per un progetto di mercato nazionale?

Sì, isolandosi appunto nel ‘Belgio grasso’. Una vicenda limitante. Non ha capito che doveva gestire lo Stato. In un certo senso si è posta all’esterno dello Stato. Qui sta la differenza fondamentale con la Francia, in cui la borghesia si è insediata nello Stato, lo ha gestito e egemonizzato. In Italia è rimasta borghesia del nord e quindi non borghesia nazionale. Da qui anche l‘incapacità di egemonizzare il movimento contadino che è processo riuscito alla borghesia francese. In Italia – come dimostra la guerra del brigantaggio – la borghesia ha contrastato il movimento contadino.

Per citare un altro titolo brillante (questa volta di un tuo articolo), chi erano e chi sono le cicale della sinistra italiana?

Sai che non ricordo il contesto a cui mi riferivo! A buoni conti di cicale ne abbiamo ancora parecchie. Così la domanda diventa imbarazzante. Ma quel titolo mi piace.

Nella crisi nord e sud della Repubblica attribuisci la maggiore responsabilità al berlusconismo. Silvio Berlusconi avrà molti difetti ma è certo che per mestiere è abituato a leggere i cambiamenti della gente, la trasformazione degli stili di vita. E, come insegna il marketing, ad assecondare. Quali sono le colpe della sinistra (più colta e strumentata) e della tua generazione (più sperimentata per irrisolti) nell’ambito di quella sinistra?

La sinistra ha mancato totalmente l’obiettivo di realizzare l’idea nazionale e ha lasciato alla destra la leadership del tema. Quando parlo di Berlusconi non parlo mai di ‘fascismo’. Ma di ‘populismo privatistico’….

…una sorta di peronismo all’italiana…

…esattamente, il fascismo era un blocco, una ideologia statalistica e totalitaria. Il berlusconismo non è affatto un blocco granitico, ma un mucchio di sabbia esposto ai venti mediatici. Un fenomeno di populismo e di demagogia.

 Ma perché questo fenomeno ha intercettato una effettiva maggioranza degli italiani?

Perché non si è capita in tempo la trasformazione della società italiana, il ruolo delle “partite IVA”, cioè la decomposizione della classe operaia in una serie di realtà piccolo-imprenditoriali che nascevano dal niente, dai sottoscala. Un processo che è stato interpretato a lungo come una degenerazione, mentre si stava realizzando il principio di un’ennesima rifondazione del capitalismo, che è una forza primigenia della società. Questa realtà di piccola e piccolissima impresa – che è una caratteristica italiana, molto poco sviluppata così nel resto d’Europa – è stata capita con grave ritardo soprattutto dalla sinistra che ha preso distanze da tutto ciò che si leggeva come cambiamento.

Ma non fu proprio questo il terreno su cui i socialisti tra gli anni Settanta e Ottanta costruirono il loro percorso di differenziazione nella sinistra?

Sì, Bettino Craxi aveva intuito questo processo. Ma poi ha declinato male questa interpretazione.

Alla recente [al momento dell’intervista ndr] scomparsa di Antonio Giolitti, quali sono stati i tuoi pensieri?

Un grande ricordo pieno di affetto. E una grande ammirazione per un personaggio che interpretava tutto ciò che avremmo voluto chiedere alla sinistra. Soprattutto la serietà. Parlavamo prima delle ‘cicale’ e ora ricordo che ne parlavo proprio come incapacità molto spesso della sinistra di essere ‘seria’, nel senso di sapere riconoscere la realtà delle cose. In Giolitti questo era un tratto caratteristico. E un’esigenza fondamentale a cui ha sacrificato tutta la sua vita. Vedere le cose come erano e non come si sognava che fossero. Ma per indirizzarle attraverso un progetto. La progettualità di Antonio Giolitti era la sua modernità. E’ stata capita poco anche nel Partito Socialista. Non parliamo dei comunisti.

Come era costruito il vostro personale sodalizio?

Era costruito su una solidarietà culturale. Magari più sulla comune passione per la musica. Nella divisione dei compiti io facevo il lavoro di costruzione dei paradigmi e lui tesseva le implicazioni politiche. L’ispirazione era sua, ma il lavoro – che considero duro e serio – era quello che negli anni Sessanta si svolgeva negli uffici della programmazione. Un lavoro che la classe dirigente italiana ha ben poco utilizzato.

La stessa parola ‘programmazione’ è un po’ caduta dal vocabolario politico, tra i suoi irrisolti e grazie a una deformazione di immagine subita dall’uso burocratico da parte del socialismo reale. E’ una parola “morta”?

Io penso ancora che sia la parola chiave. La politica attuale celebra la sua inconsistenza nella mancanza di programmazione. Avere tradito uno dei punti qualificanti del pensiero economico moderno, come ritengo sia stato John Maynard Keynes, non ha portato a buoni risultati. Cos’era in fondo la programmazione? La capacità di tradurre attorno a risultati di medio periodo la lezione keynesiana che, come si sa, era di brevissimo periodo. Pensavamo di tradurre questa lezione in un programma che cercava di individuare nuove forze nella società a cui dare un obiettivo misurabile. Perché tra i requisiti della cultura di programmazione vi era infatti quello di ‘contare’, di ‘valutare’, di ‘misurare’. Non tanto nei termini della contabilità del PIL, quanto in termini di indicatori economico-sociali. Sapere dove si vuole andare e darvi una cifra.

Anche in quegli anni Sessanta lo strumento era immaginato come flessibile e metodologico?

Assolutamente sì. La programmazione era metodologia. Un modo di riconsiderare la politica, come espressione di un disegno che doveva però avere le sue cifre.

Gigi Covatta – ripensando alle culture politiche di quel tempo – ha usato e scritto la parola “sconfitta”. Pensi questo o pensi che, malgrado tutto, vi sia stata disseminazione?

Sconfitta non direi, perché al fondo penso che le cose giuste non vengono mai sconfitte. Penso però che si sia mancata una grande possibilità. In quella mancanza sta buona parte della crisi della sinistra italiana, che ora non riesce a riconoscersi in un progetto. E’ un’occasione perduta.

Agli anni del primo centro-sinistra hai dedicato anni fa un incontro in televisione con gli studenti. Parlando di un “partito socialista” di frontiera, hai rivendicato quell’esperienza come fondante la cultura della modernizzazione dell’Italia repubblicana. Con gli occhi di oggi come riproporresti il giudizio sull’epoca e soprattutto sulle tre maggiori forze politiche dell’epoca, socialisti, democristiani e comunisti?

Il giudizio complessivo è che quei partiti sono poco riusciti a riconoscersi fino in fondo in una realtà europea. Hanno pensato di rifugiarsi nella cosiddetta ‘identità italiana’, al tempo immaginata nell’incontro tra cattolici e socialisti e poi, più in generale, tra cattolici e sinistra. Qualcosa che non c’era sostanzialmente nel resto d’Europa. I comunisti così non facevano il passo europeo di riconoscersi nel riformismo – come faceva la sinistra europea – ma si rifugiavano nella proiezione di una cosa confusa, ideale, con una scarsa base, che è tuttora la ragione equivoca del Partito Democratico. Rispetto a cui meglio l’Ulivo, cioè una alleanza.

Ma anche qui, i socialisti erano parte protagonista della trasformazione politica in Europa…

Bettino Craxi aveva complessivamente percepito trasformazioni e argomenti che Enrico Berlinguer non vedeva. Come Walter Veltroni ha ammesso di recente. In questo contava anche l’ottica europea. Però Craxi rappresentava questa intuizione in una forma che era subalterna ad un disegno di brevissimo periodo. Così da mortificare alcune di quelle intuizioni. Insomma non riusciva a trarre, gramscianamente, dalle sue stesse intuizioni una teoria.

Ma il contingente spingeva anche a qualche ragione tattica, l’epoca dell’ago della bilancia…

Sì, ma restando però ago, senza bilancia.

Morire da socialista

Tra l’Europa che non vuole leader ma gestori di procedure e il Mediterraneo che appare scenario in declino nella geopolitica internazionale quale ruolo vedi per la potenzialità negoziale dell’Italia?

Penso invece che il Mediterraneo rappresenti una prospettiva futura ancora importante. Intanto per una ragione che ho già detto e cioè che vi è qui una cornice ampia che giustificherebbe il patto tra nord e sud in Italia, dando ad esso una forza propulsiva. Il punto veramente dirimente è quello del conflitto arabo-israeliano. Un punto davvero focale della nostra storia. Se si riuscisse a comporre questo nodo sarebbe una svolta per tutti. Il conflitto è il portato di tutte le loro divisioni interne, arabe e israeliane, e serve a confermare quelle divisioni. Credo non si faccia abbastanza in Europa per venire a capo di una questione che non può essere considerata politicamente irrisolvibile.

Rispetto alla stagione di prima istituzionalizzazione della politica ambientale in Italia – che hai interpretato per quasi sei anni – cosa avevate visto giusto e cosa non avete visto per nulla rispetto all’evoluzione della centralità ecologica attuale?

Avevamo visto giusto una cosa che chiamavamo in modo diverso. Parlavamo di ‘problema del territorio’ nel Progetto ’80, prima ancora di parlare di ambiente. Ma la sostanza era la prospettiva di una grande politica ambientale. Non chiamavamo neppure quella politica, come poi si è fatto, della “sostenibilità”. Ma era quella la finalità. Rileggendo il Progetto ’80 – come mi è capitato di fare di recente – ho ritrovato una grande attualità su questo tema. Ho avuto il grato destino di fare a lungo, come hai detto, il ministro dell’Ambiente, misurandomi con questioni che avevo già in parte affrontato e forse anche per questo trovando soluzioni che credo siano state incidenti. Per esempio a proposito delle cosiddette ‘aree libere’ su cui si è impiantata la politica dei parchi in Italia che ha avuto enormi progressi. Ho tentato di affrontare anche un altro grande corno del problema, quello della difesa del suolo, con minore successo. Terremoti e disastri ambientali ci pongono ogni volta di fronte agli irrisolti in questo campo. Avevamo lanciato al tempo un ‘piano decennale dell’Ambiente’ per concentrare azioni e risorse attorno alla questione. Ma non siamo riuscito a farlo. Anche qui per ritardi culturali che sono stati propri di una sinistra disposta al tempo a vedere il tema ambientale in forma più retorica che realistica.

Un altro tuo libro con un titolo brillante Il capitalismo ha i secoli contati. Puoi fare una postilla, dopo il biennio della crisi, dopo Barack Obama e la critica ai mercati, persino dopo gli smarcamenti di Giulio Tremonti?

Beh, un cambiamento del titolo potrebbe essere: Il capitalismo ha i secoli contati. Ma una volta contati anche i secoli finiscono. Dipende anche da quando si cominciano a contare. Una minaccia sta certamente di fronte al capitalismo ed è la sua finanziarizzazione. Fernand Braudel dice che ogni ciclo capitalistico ha il suo momento di decadenza nella finanziarizzazione. Io penso che abbiamo raggiunto questo momento. La globalizzazione si realizza non soltanto come mercatizzazione dello spazio, ma anche come mercatizzazione del tempo. Quando il futuro è già mercatizzato, è come quando le onde si susseguono una sull’altra, infrangendosi alla fine sulla riva. Un effetto di crisi. Fuori di metafora la crisi è un indebitamento enorme con una crescita proiettata nel futuro e che ci fa dipendere tutto dai posteri. Ma come diceva Woody Allen, “che cosa hanno mai fatto i posteri per noi?”

Hai scritto su Repubblica nel 2008 che hai deciso di “morire socialista”. Cosa vuol dire esattamente?

Prima di tutto non vorrei morire. Questa è l’ispirazione fondamentale. Quindi una battuta con il senso dell’antidoto. Ma penso soprattutto che ho tentato – e tento tuttora – di vivere da socialista. Non mi sono mai riconosciuto fino in fondo però nel partito nel quale stavo e militavo, il Partito Socialista, che pur tuttavia mi era molto simpatico ma che qualche volta mi pareva avvilente.


[1] Dal blog dell’autore https://stefanorolando.it/?p=7318.

[2] Cf. http://archivio.stefanorolando.it/150-a-prova-di-unita-2-colloquio-con-giorgio-ruffolo-mondoperaio-11-122010/.

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