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Democrazia Futura. La mia educazione sentimentale fra la classe operaia a Milano a difesa della democrazia e delle istituzioni

Paolo Luigi de Cesare

Paolo Luigi de Cesare nel quaranticinquesimo anniversario dell’omicidio dello statista democristiano perpetrato dalle Brigate Rosse nel suo articolo “La mia educazione sentimentale fra la classe operaia a Milano a difesa della democrazia e delle istituzioni” propone come recita l’occhiello il “Ricordo di un Dandy in tuta blu operaio all’Alfa Romeo di Arese nei mesi del Rapimento di Aldo Moro”.

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Era un giovedì mattina, e facevo il primo turno al reparto assemblaggio dell’Alfa Romeo di Arese. Avevo 24 anni, ero stato assunto a metà giugno del 1977. Ero uno dei tanti giovani dei piccoli paesini del Sud, emigrato al Nord non per bisogno economico; ma semplicemente per avere più libertà di essere sé stessi. Fare politica senza censure familiari, avere più opportunità culturali e di realizzazione artistica.

Negli anni scoprì che questo era un piccolo fenomeno antropologico. L’emigrazione intellettuale, la chiamavano così. Erano gli anni Settanta. L’assunzione all’Alfa Romeo era arrivata al termine di vari esperimenti di fuga. La prima tappa era stata la stessa Milano, nel 1972, quando non avevo ancora 18 anni, Ero ospite dei miei zii a Quarto Oggiaro, dove sentivo qualcosa di leggermente familiare. Certo, perché Rocco e i suoi fratelli lo avevo visto, non ancora adolescente, in televisione, spinto da mio padre che ne era entusiasta. Ero troppo acerbo per poterne interpretare tutta la complessità.

Riuscii ad entrare in una micro-fabbrichetta, uno scantinato di Via Salvatore Pianell, a qualche centinaio di metri dalla gloriosa sede, e tipografia, de L’Unità di Viale Fulvio Testi. Mi licenziarono appena raggiunti i 18 anni, perché a loro conveniva far lavorare solo gli apprendisti.

Poi tornai in Puglia, e quindi ripartii per fare il Servizio Civile (il primo obiettore di Puglia) in una vecchia istituzione psichiatrico-geriatrica a Casale Monferrato. Dal 5 maggio 1975, al 7 gennaio 1977. Una lunga e intensa esperienza. Praticamente convivevamo con gli ospiti. Conobbi Franco Basaglia dal vivo e Roland Laing e David Cooper nelle letture. E, come “collettivo obiettori” facemmo i supporter di Psichiatria Democratica. E proiettammo Matti da slegare davanti a 400 persone con Silvano Agosti e Basaglia che rispondevano alle domande. Tornai ancora in Puglia, e a Pasqua del 1977 mi fidanzai con una ragazza amica di comuni amici, scesa da Milano per le vacanze.

Volevo assolutamente vivere o a Torino, o a Milano, e fare politica, in un luogo dove farlo ti faceva sentire utile. Ero molto indeciso, ma alla fine, la sponda affettiva mi fece di nuovo scegliere Milano.

Anche se di Torino mi ero innamorato, Sentivo il fascino per la tormentata storia delle lotte alla Fiat, e del sedersi nelle vecchie piole (e osterie) dove si era seduto anche Antonio Gramsci. Sui tram che attraversavano il centro noi meridionali eravamo noi stessi. Vestivano da meridionali eravamo tutti distinguibili. I meridionali di Torino non volevano “essere alla moda”, come già succedeva a Milano.

E a Milano mi iscrissi all’ufficio di collocamento e, botta di fortuna, vi era una richiesta numerica per 20 operai del reparto assemblaggio, a metà giugno, quando il collocamento non era molto frequentato. Il primo giorno di fabbrica noi 20, tutti giovani, capitammo in una mattinata di scioperi per il contratto. Io non vedevo l’ora di fare il sindacalista. Ero cresciuto nella Cna, la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della piccola e media impresa. Ad appena 16 anni sostituivo mio padre nelle riunioni, lui ne era il tesoriere.

Per la sistemazione abitativa, anche fui fortunato, Via Solferino 56, Un vecchio condominio, ancora popolare all’estremo nord della famosa via che ospitava il Corriere della Sera. Era una posizione talmente strategica che a pensarci oggi vengono i brividi. Nel raggio di 300 metri potevo raggiungere, a piedi l’Obraz Cinestudio, la libreria Utopia degli anarchici, la Cineteca italiana vicino al Liceo Parini, il Cinema Anteo, il Teatro Out-Of, la sede di Radio Popolare nei suoi primi anni e, soprattutto, il famoso, fiabesco, epico, pacifico e fugace “Macondo”, sul quale più che un articolo occorrerebbe scriverci un libro. Chiuso dalla Polizia 21 giorni prima del Rapimento Moro.

Questa estrema vicinanza a questi luoghi non fece che rafforzare i miei, già instradati, indirizzi esistenziali. Ebbene si, ero tendenzialmente un “Dandy in tuta blu”, culturalmente ma anche fisicamente lontano dal centro sociale Leoncavallo…

Certo a 24 anni, nel 1978, facevo parte della sinistra extraparlamentare come è ovvio. Ma tra tutte le possibilità di scelta, mi ero collocato all’interno del trozkismo, ma un trozkismo legalitario e riformista, tutto sommato moderato, razionale, non violento e gradualista, E molto molto pasoliniano, vista la mia formazione cattolica.

Praticamente ero un giovane operaio dell’Alfa Romeo sindacalizzato e politicizzato che però la sera frequentava la sinistra snob e intellettuale, a nord del bar Giamaica e della Zona Brera. Portando dal Sud un enorme credito di “mondanità”, che cercava compensazione dalle 7 del mattino con gli operai del reparto, in mensa, in Consiglio di Fabbrica, nelle riunioni politiche, nei Cinema d’Essai e nei Teatri Alternativi, nelle birrerie, e nelle discussioni sul femminile e il femminismo, quando il femminile entrava nella mia vita.

Ma siccome a Milano ci ero venuto anche per il Milan, qualche volta mi davo da fare per recuperare i biglietti di qualche partita a San Siro. E capitai proprio di andare a vedere il derby della domenica precedente al rapimento Moro. Una partita bruttissima, finita 0 a 0, con un gioco scialbo, con un rigore sbagliato del Milan, e con Giacinto Facchetti e Gianni Rivera capitani al loro ultimo derby, come lo fu anche per me. Una specie di presagio dei giorni successivi. Ad un certo punto la partita era talmente brutta che la tifoseria se n’era accorta, e per non annoiarsi. ogni tanto partivano piccole spedizioni di ultras adolescenti, da una parte all’altra del secondo anello, dove non c’erano cancelletti di separazione tra le due curve. Poteva essere una pista di pattini a rotelle. Quindi vidi partire una spedizione di ragazzini con tra le mani, come se fossero pugnali, pezzi di oggetti di ceramica o vetro, spaccati, taglienti e appuntiti.

Io ero lì, al secondo anello, In “missione sociologica”. Per godermi e studiare il grande drappo di Che Guevara, che copriva l’intera curva, con i cori, e lo striscione “Brigate Rossonere”. Volevo capire se si trattava di una provocazione simbolica, che rasentasse l’arte contemporanea, tesa solo a intimidire gli avversari e spaventare i benpensanti. Sullo stesso percorso della “Merda d’artista”. Oppure, scoprire se c’era qualcosa di sociologicamente più problematico. Ma la violenza tra pattuglie di adolescenti delle opposte tifoserie mi indispose molto, soprattutto perché avevo paura di mettermi in mezzo a fare il paciere, e il fratello maggiore.

I drammatici mesi del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro visti dall’interno dell’Alfa Romeo di Arese

Dopo tre giorni la mattina di giovedì 16 marzo 1978 fu il capo officina a chiedere di fermarci, e spegnere le catene. Erano circa le 10. Aveva ricevuto una telefonata dal Consiglio di Fabbrica, per dire a tutti che bisognava fermarsi perché avevano rapito Aldo Moro.

La prima reazione fu di incredulità, qualcuno si mise anche a ridere, inizialmente quasi nessuno voleva scioperare. L’80 per cento della mia officina composto da meridionali collegavano un rapimento a qualcosa non immediatamente riconducibile “all’attacco alla Democrazia”. E per quelli come me, fino ad allora, le azioni delle Brigate Rosse erano state idioti e pericolosi tentativi di “scorciatoismo militarista” da parte di “compagni che sbagliavano moltissimo”.

Mi capitò di fare il turno di mattina sia il 16 marzo sia il 9 maggio. Quando il corpo senza vita dell’onorevole Aldo Moro fu ritrovato alle 13:15 rannicchiato nel portabagagli di una R4 amaranto. 

Quel 9 maggio dopo la fine del primo turno rimasi in Consiglio di Fabbrica, dove arrivavano le notizie, gli aggiornamenti e si valutavano le decisioni da prendere. Si doveva fare uno sciopero, o una assemblea straordinaria? Un manifesto luttuoso e un minuto di raccoglimento?

Ovviamente il confronto tra i partiti che c’era stato in quei 55 giorni entrava anche in fabbrica. Non erano in pochi che si ponevano la domanda; “Dobbiamo scioperare perché le BR hanno ucciso Moro, o perché qualcuno ha lasciato che le BR uccidessero Moro?”

Guardavi alcuni negli occhi e capivi che in silenzio si stavano facendo questa domanda. Molti operai membri del Partito Comunista la buttavano sull’antifascismo, non ammettevano che ci potessero essere spezzoni del proletariato che per ragioni di ignoranza, di disagio, e anche di disturbo della personalità, potessero intraprendere percorsi estremisti, autolesivi, violenti, militaristi, “scorciatoisti” e di fatto pericolosi, suicidi, idioti ed eversivi della democrazia. Oppure averne solo simpatia.

Io per una specie di deformazione quasi professionale, avendo durante il servizio civile seguito con intensità le problematiche della psichiatria, tendevo a ricondurre tutto alla sfera mentale. Per i militanti del PCI più tradizionali si trattava di fascisti “mascherati”. Eppure nella prima metà del 1978, erano all’ordine del giorno attentati indipendentisti in Irlanda e in Spagna. Questo creava un “feticismo della lotta armata” fine a sé stesso se decontestualizzato.

Quella mattina del 16 marzo non fu facile far fermare tutti; per lo sciopero immediato in difesa della Democrazia e delle Istituzioni. La notizia dell’eccidio della scorta non arrivò in officina insieme a quella del rapimento, questo creò un divario di percezione. Capii meglio dopo che le Brigate Rosse da parte loro, si aspettavano reazioni entusiastiche degli operai delle grandi fabbriche del Nord, alla notizia del rapimento.

Lo spettro del Colpo di Stato e il vero valore del nostro sciopero a difesa della democrazia

E smentire le speranze delle BR era dunque il primo obiettivo vero del mobilitarsi. Ma non ne avevamo piena consapevolezza. Secondo alcuni operai più anziani bisognava mobilitarsi per evitare che con la scusa del rapimento non scattasse un Colpo di Stato. Questo era uno schema più prossimo alla “Strategia delle Tensione”, ma la sensazione era che ci trovavamo davanti a qualcosa di diverso, e non paragonabile. Toccava solo a noi, ad alcune migliaia di singoli delegati e di operai coscienti, la responsabilità di far fallire totalmente la previsione delle BR e costringerli alla prima sconfitta nell’ambito della loro “Operazione Moro”.

Eravamo essere umani normali, non necessariamente degli Eroi. Anche se in fabbrica c’erano ancora degli operai del Nord che da adolescenti o giovanotti avevano partecipato alla Resistenza. Io mi mobilitai energicamente per fare riuscire lo sciopero, anche litigando con quelli che non volevano fermarsi, fino ad arrivare anche alle mani. E tutto questo sotto gli occhi dei brigatisti, presenti nel reparto “assemblaggio” (carrozzeria) nascosti sotto mentire spoglie, E che furono scoperti qualche anno dopo.

In alcuni ambienti della Sinistra Extraparlamentare l’assassinio di Fausto e Iaio[1] e di Peppino Impastato furono vissuti come un via di uscita dalla difficoltà di tutti coloro che si richiamavano al Comunismo, anche se di “Nuova Sinistra”. Infatti i tre compagni assassinati erano tre militanti della “Nuova Sinistra” impegnati a combattere due fenomeni che doveva essere invece lo Stato a combattere; lo spaccio di eroina a Milano e la Mafia in Sicilia. E alla fine della fiera andavano considerate vittime colpevoli di volere una Italia più giusta, senza spacciatori, senza Mafia, e con una Democrazia più compiuta.

I 55 giorni che cambiarono la mia vita

Non avevo immaginato che a soli 24 anni avrei avuto nelle mie mani le sorti della Democrazia e della Repubblica.

Mi aiutò probabilmente il fatto di aver conosciuto di persona Aldo Moro, e di avergli stretto la piccola mano, in una sua visita all’Istituto Statale d’Arte di Monopoli (in provincia di Bari) sei anni prima, nel 1972. Avevo maturato negli anni una discreta e contraddittoria simpatia per lui. Un po’ per orgoglio pugliese, e un po’ perché un mio zio paterno, fervido sostenitore del MSI, ai vari pranzi e cene di famiglia, ispirato dalla lettura de Il Borghese, ne parlava come di un “comunista mascherato”, sempre con sarcasmo e disprezzo Nonostante la mia collocazione extraparlamentare ero comunque “attento a quei 3”. Al pugliese Aldo Moro, come ad un certo superamento dello stalinismo che Enrico Berlinguer incorporava, e Paolo VI, per la scelta di campo di celebrare la messa di Natale, tra gli operai dell’Italsider a Taranto nel 1968. Operai che poi incontravo per le strade di Cisternino. Mi sentivo vicino a quelle tre persone, che bene o male cercavano delle convergenze, anche se parallele.

Il vero valore civile della mia scelta lo razionalizzai solo dopo, così come i rischi di essere messo nella “lista nera” dei Brigatisti della Brigata Walter Alasia, presente in fabbrica e nel reparto. Ci sono dei momenti in cui anche se hai paura “è vietato avere paura”. La Storia e le future generazioni ti guardano. Un gesto o lo fai tu o non lo fa nessun’altro.

Penso che tutti gli operai che scioperarono quella mattina, meriterebbero un riconoscimento, una “targa”, una “pergamena”, “un fiore” in quanto “Difensori della Democrazia”. All’Alfa Romeo, a Mirafiori, alla Pirelli o a Porto Marghera, all’Italsider di Taranto come a Bagnoli. Negli anni successivi, a poco a poco, dalla narrazione mediatica di quei giorni scomparve il dato che CGIL, CISL e UIL indissero uno sciopero generale neanche 40 minuti dopo Il rapimento. Perché la riscrittura degli anni Settanta doveva andare in una sola direzione: la demonizzazione de “Gli Anni di Piombo”. E far passare quindi un immaginario dove le lotte dei sindacati non erano avversarie degli “Anni di Piombo”, ma invece erano un grande movimento pacifico di Democrazia, pur costituendo in realtà “Parte del Problema” posto a partire dall’autunno caldo del 1969 e rimasto irrisolto. La questione del miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia.

In quegli anni non c’era una percezione della complessità di quella che poi fu chiamata “eterodirezione”, con tutto l’ampio ventaglio di ipotesi che le varie “Commissioni Moro” hanno espresso circa i mandanti del rapimento. Ma in ogni caso, qualunque fosse il progetto o l’intento del sequestro del leader democristiano, gli operai si mobilitarono per bloccarlo. E l’impegno non venne solo dallo Stato e dalle Istituzioni.

Ci fu un decennio in cui l’attenzione sulla classe operaia e il suo simbolico erano generalizzate, perché la classe operaia era la vera protagonista della vita sociale e politica. Essa occupava pesantemente la cronaca quotidiana con i suoi atti concreti, gli scioperi, le lotte, le occupazioni di fabbrica, le manifestazioni. Il Cinema italiano, che aveva visto con Luchino Visconti una anticipazione di attenzione in Rocco e i suoi fratelli nei primi anni Sessanta, proseguì quel filone con La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri, creò persino un nuovo genere con opere quali Il sindacalista di Luciano Salce con Lando Buzzanca, e soprattutto Mimì Metallurgico, ferito nell’onore di Lina Wertmueller, fino a Romanzo Popolare di Mario Monicelli.

Ma anche nella canzone con “Chi non lavora non fa l’amore” di Adriano Celentano, E  persino con rubriche televisive realizzate dalla Rai come “Turno C”” e “Cronache”.

O per paura politica, o per gioia, o per dovere l’attenzione c’era.

Ma ci furono anche film che in misura diversa, e loro malgrado, resero finzione narrativa il Terrorismo. Penso ad opere come L’Amerikano (in francese Etat de siège) di Costa Gavras del 1972 o Mordi e fuggi di Dino Risi del 1973.

Una lunga lista che le nuove generazioni dovrebbero visionare criticamente. Oggi invece sui motori di ricerca digitando “Caso Moro” la prima dozzina di siti che appare è dedicata alle Fiction di Marco Bellocchio. Bene! Bravo Marco! Ma forse va riannodato il vero senso drammatico dei fatti.

Io per 45 anni, tutti gli anni, dal 16 marzo al 9 maggio, mi sforzo di confermare quelle immagini, quei sentimenti, quel coraggio nella mia memoria.

Vorrei andare a cercare e ritrovare tutti quelli che scioperarono con me. E vorrei tanto che ci sia un minuto di silenzio anche negli Stadi, il 16 marzo e il 9 maggio. A cominciare dai prossimi derby della Champions League Milan-Inter…


[1] due militanti di sinistra frequentatori del centro sociale “Leoncavallo”, i diciottenni Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci vennero uccisi il 18 marzo 1978, vittime di un delitto rimasto irrisolto

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