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Democrazia Futura. La forza di un saggio vent’anni dopo, “Capire il potere” di Noam Chomsky

Per la rubrica di Democrazia futura ‘Riletture’, una riflessione di Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico: “La forza di un saggio vent’anni dopo”, ‘Capire il potere’, pubblicato nel 2002 da Noam Chomsky.

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Se mi chiedete qual è il miglior libro che ho letto negli ultimi anni – non il più bello, ma il più importante per acquisire una conoscenza del mondo – non ho dubbi: è “Capire il potere”, di Noam Chomsky. Voglio tentare di rispettare la regola minima che mi ero imposto: “Ogni dieci romanzi, almeno un saggio”, così ho iniziato con questo, dal taglio non classico. Si tratta infatti della trascrizione di conferenze, interviste, dibattiti tenuti dall’autore nel decennio 1989-1999. Domande e risposte in diretta, davanti a un pubblico non specialistico. Cittadini qualsiasi.

Finito questo libro, sono una persona diversa. Più pessimista e più pronta al peggio, per quanto si possa essere pronti a una probabile catastrofe. Più disillusa e più conscia della realtà, quantomeno di una realtà: da ragazzo vivevo nella convinzione che gli Stati Uniti d’America fossero la più grande democrazia del mondo. Col tempo e con questo libro mi sono convinto che forse sono la più grande, ma non sono certamente quella che funziona meglio. Per fare una “grande democrazia”, non basta un parlamento, una giustizia, delle regolari elezioni. È necessario che i valori costituzionali vengano rispettati (e questa è la ragione per cui, se l’America non è una grande democrazia, l’Italia è una piccola non-democrazia).

Non sto a introdurre l’autore, se non per osservare che, al di là di ciò che abbondantemente si dice di lui, in questo volume non traspare né il linguista, né il filosofo, ma piuttosto lo storico, uno che ricostruisce dei fatti, spiega dei comportamenti. Lo spirito con cui testimonia i fatti e porge le proprie opinioni può essere esemplificato con le seguenti domanda e risposta.

 – Noam, spesso la attaccano come commentatore politico perché indirizza le sue critiche soprattutto contro gli Stati Uniti e non contro l’Unione Sovietica, il Vietnam o Cuba, ovvero i nostri nemici ufficiali. Mi piacerebbe sapere che ne pensa di questa critica.

 – Mi concentro sul terrore e sulla violenza esercitati dal mio Paese per due ragioni principali. In primo luogo, le sue azioni rappresentano la componente più rilevante della violenza internazionale nel mondo. Ma quel che più conta, è che posso fare qualcosa nel mio Paese. Quindi, anche se gli Stati Uniti fossero la causa di una minuscola frazione della repressione e della violenza esercitate nel mondo (…) ne sarei comunque responsabile e su questo obiettivo dovrei concentrare i miei sforzi.

Cominciamo bene, mi sono detto. Tutto il libro è incentrato sulla condotta della classe dirigente, politica e militare statunitense, condotta criminale nel senso tecnico-giuridico del termine. Secondo l’autore, gli Usa, nel dopoguerra – direttamente o attraverso il sostegno di milizie locali – hanno ucciso milioni di persone. In tutto il mondo. Grecia, Filippine, Corea del Sud, Iran, Guatemala, Indonesia, Vietnam, Cambogia, Repubblica Dominicana, Cuba, Cile, Timor Est, Nicaragua, Libia, Panama, Iraq, Afghanistan, El Salvador, Haiti, Libia, Cisgiordania. Probabilmente, più dei nazisti, e certamente con maggiore determinazione, perizia, dissimulazione. “Noi parliamo di “genocidio” solo quando gli assassini sono gli altri”, dice Chomsky e “Alcuni paesi assoldano terroristi, noi assoldiamo paesi terroristi, perché noi siamo un paese grande e potente.”

Sulla guerra nel Golfo, l’autore sostiene che, una settimana prima dell’invasione, alti funzionari statunitensi avevano rifiutato un’offerta dell’Iraq che proponeva di ritirarsi dal Kuwait esattamente nei termini richiesti dagli Usa. Se è così, si è trattato solo di un deliberato massacro.

Chomsky parla anche dell’informazione del suo paese. Spiega, anche con testimonianze dirette basate su casi di sua personale conoscenza, che i media statunitensi sono totalmente asserviti al potere economico-finanziario. Che non sono affidabili. Racconta come un brillante studioso che ha spiegato in un ottimo libro dei fatti – non delle opinioni – sulla politica dello stato di Israele, sia finito a fare l’insegnante in una piccola scuola di provincia, anziché essere pubblicato da grossi editori o scrivere sui giornali.

Un altro esempio: “Una volta ho parlato con un (…) redattore che conosco al Boston Globe, domandandogli perché il loro modo di trattare il conflitto israeliano-palestinese fosse così orrendo; e di fatto lo era. Si è messo a ridere e mi ha chiesto: «Quanti inserzionisti arabi credi che abbiamo?». E lì è finita la conversazione.”

Non solo di guerra, giornalismo e politica internazionale si occupa il libro. Parla anche di questioni sociali: “La discriminazione sessuale è talmente istituzionalizzata, nella nostra cultura, che la gente accetta l’idea secondo la quale crescere i figli non è “lavoro”; per “lavoro” si intendono cose come speculare sui mercati finanziari. La cura dei figli viene data per scontata: si suppone che sia gratuita perché chi la presta non ottiene uno stipendio.”

Ci viene proposto anche un punto di vista autocritico sull’intellettualismo, con parole che possono anche apparire indigeribili e che quindi hanno richiesto coraggio per essere pronunciate da un intellettuale: “Certo, queste sono parole singolari. Voglio dire che, nell’uso corrente, essere un “intellettuale” non ha praticamente nulla a che vedere con il lavoro della mente: sono due cose diverse. Ho il sospetto che molte persone nelle loro botteghe artigiane, nelle loro officine di autoriparazioni e così via facciano altrettanto — se non più – lavoro intellettuale di molta gente che sta all’università. Nel mondo universitario esistono vaste aree in cui il lavoro definito “erudito” non è altro che lavoro impiegatizio; e non credo che il lavoro impiegatizio sia intellettualmente molto più impegnativo che riparare il motore di un’automobile. A dire il vero penso il contrario: io sono in grado di fare un lavoro impiegatizio, ma non saprei mai riparare un motore d’automobile. Perciò, se con “intellettuale” ci riferiamo a chi usa la sua mente, allora si tratta dell’intera società. Se con “intellettuale” ci riferiamo a chi appartiene a quella particolare classe che si occupa di imporre i pensieri, di preparare le idee per chi ha il potere, di dire a tutti che cosa devono credere e così via, be’, allora il discorso cambia. Queste persone sono chiamate “intellettuali”, ma in realtà somigliano di più a una sorta di sacerdoti laici, il cui compito è preservare le verità dottrinarie della società. Da questo punto di vista, la popolazione deve essere anti-intellettuale: credo che sia una reazione sana.”

Mi dispiace: non vi sto parlando adeguatamente di questo libro. Esso non andrebbe né raccontato, né recensito, soprattutto non così. Andrebbe semplicemente letto. Da tutti. Non solo per lo svergognamento immediato degli Stati Uniti, ma anche perché ci racconta il secolo scorso come i media e i saggisti più noti non hanno il coraggio di fare. E ricordatevi che il secolo in cui ci troviamo, è in tutti i sensi, il prolungamento di quello da poco trascorso.

So anche che il testo, tradotto in italiano, è disponibile gratuitamente sul web, nel formato e-book. Provate a leggerlo, perché già le prime cinquanta pagine sono un buon assaggio di orrore. Dopo la lettura, credo di poter concludere che, ormai, le guerre non verranno mai più dichiarate. Cominceranno a combattersi senza che la vittima lo sappia. Si combatteranno con le borse, con l’informazione, con mezzi non convenzionali. Le armi arriveranno solo alla fine, quando sarà l’ora della fine. E, inoltre, che siamo assolutamente indifesi di fronte al potere: se gli serve, ci schiaccia, ci lascia morire o ci uccide. Quando ci difende, è solo perché, facendo finta di difendere noi, può distruggere qualcun altro.

Vi lascio con una citazione che è forse la più allarmante di tutto il libro, perché, pur risalente a vent’anni fa, riguarda un futuro che potrebbe essere già cominciato: “Il prevedibile riscaldamento del pianeta come risultato dell’effetto serra innalzerà il livello dei mari e, se continuerà, potrebbe cancellare la civiltà umana. Molte delle terre coltivate, per esempio, sono di origine alluvionale e si trovano vicino al mare. Centri industriali come New York potrebbero essere inondati. Il clima cambierà e vaste zone agricole degli Stati Uniti potrebbero trasformarsi in lande polverose. Quando si comincerà a prendere coscienza di questi cambiamenti, potrebbero scatenarsi conflitti sociali inimmaginabili. Se le aree agricole americane diventassero inutilizzabili e la Siberia si trasformasse nel grande produttore agricolo del mondo, pensate che gli strateghi americani permetterebbero alla Russia di utilizzarla? Cercheremmo di conquistarla anche a costo di distruggere il mondo con una guerra nucleare. Questo è il nostro usuale modo di pensare.” (N. Chomsky, Capire il potere, 2002)

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