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Democrazia Futura. La crisi del mercato digitale: la vecchia talpa scava negli algoritmi

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

Cosa c’è dietro alla decisione di consentire a Donald Trump di riattivare il proprio account su Twitter? L'approfondimento di Michele Mezza.

Michele Mezza
Michele Mezza

Michele Mezza nell’articolo per Democrazia futura “La crisi del mercato digitale: la vecchia talpa scava negli algoritmi” cerca di chiarire fra tante cose “Cosa c’è dietro alla decisione di consentire a Donald Trump di riattivare il proprio account su Twitter”. Una crisi delle piattaforme come testimoniato dall’andamento di alcuni titoli in borsa. Per Mezza “Google, Amazon, Apple non sono più aziende che producono oggetti o servizi ma sono brand che assicurano profitto, tramite la commercializzazione dei propri prodotti. La produzione è un pretesto, un mezzo occasionale per raccogliere denaro. Ma ancora di più potremmo dire che la rivoluzione dei nostri costumi delle nostre abitudini, delle nostre culture, come ad esempio la trasformazione di funzioni essenziali, come la lettura, la scrittura, la connessione e la diffusione di contenuti, sono volgari e occasionali funzioni che permettono di massimizzare il marketing”.

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Vox Populi,Vox dei.

Cosi Elon Musk, con uno dei suoi ormai martellanti tweet con cui allaga la piattaforma di casa, ha celebrato il suo referendum domestico sulla riammissibilità di Donald Trump a Twitter che a grande maggioranza si è espressa favorevolmente.

Sulla scia, il nuovo padrone dell’uccellino ha anche annunciato un’amnistia degli account più compromessi, facendo intendere che tutti gli esclusi potranno tornare spararle grosse su Twitter

Certo il segno di una disinvolta arroganza con cui il magnate sudafricano fa intendere in quale direzione vuole muoversi e con quali metodi.

Ma anche il riconoscimento che nel nuovo capitalismo dell’immaterialità, dove si produce valore mediante informazione, come ci ha spiegato fin dai primi anni del nuovo secolo Manuel Castells nella sua trilogia La Società in rete (Bocconi editore), la relazione con i propri utenti rimane un fattore essenziale del mercato. Tanto più che questi utenti gli stanno mostrando di quale pasta siano fatti. Sono più di due milioni, si calcola quelli che hanno abbandonato la piattaforma acquistata subito dopo l’acquisto da parte di Musk. E la grande maggioranza si è diretta verso un nuovo spazio, Mastodon, dove non si profilano gli account, anche perché il modello di business non è ancorato alla massimizzazione della pubblicità ma solo a un coinvolgente crowdfunding degli iscritti, e si procede, nella gestione del flusso dei contenuti, per auto regolamentazione delle proprie cerchie, in un clima di reciproco controllo.

La sintonia fra piattaforma e utenti si conferma un fattore che costituisce un elemento insopprimibile della catena del valore nell’economia della conoscenza.

Lo vediamo proprio in questo scorcio di anno in cui tutti gli indicatori, per la prima volta con tale ampiezza e diffusione stanno penalizzando quegli invincibili samurai della borsa che sembravano essere i grandi brand della Silicon Valley.

Anche i ricchi piangono, verrebbe da dire leggendo i dati del mercato digitale.

Dalla ripresa dopo l’estate, le grandi piattaforme digitali sono in affanno.

Stiamo certo sempre parlando di dati relativi e comunque di tendenze più che di crisi assoluta, come la misuriamo nel mondo materiale. Si tratta di quotazioni sulla carta, anche se, come vedremo le ripercussioni sull’occupazione sono quanto mai materiali e concrete come possono testimoniare le decine di migliaia di licenziati.

Vedere, comunque, i titoli di Google, Facebook, Amazon ballare sull’orlo del rosso, con scivolate che in certe giornate, proprio nel fatidico quarto trimestre del 2022, sono arrivate a segnare un meno 4/5/6 per cento fa scalpore.

Stiamo parlando, infatti, di realtà economiche, come i campioni della di questa inarrestabile nuova marca di capitalismo basata sul sapere e sulla personalizzazione di servizi e relazioni, che da almeno tre lustri segnano un incremento inesauribile, trimestre dopo trimestre.

Proprio il business model su cui si basa l’intera economia digitale, e più ancora di quella finanziaria, è proprio basata su quel perverso gioco di aspettative e promesse che spinge poi, al minimo segno recessivo, o comunque di delusione rispetto alle attese, ad amplificare i ribassi esponenzialmente. Una bulimia di performance che si autoalimenta ma che soprattutto si auto distrugge.

Forse troppo poco abbiamo riflettuto sul fatto che il mercato tecnologico si sviluppa in base ad un inedito e esclusivo meccanismo di auto realizzazione, in cui le stesse tecnologie digitali che sono oggetto del sistema economico sono poi le stesse che organizzano e cadenzano lo stesso mercato.

Abbiamo ormai da tempo superato la soglia del 90 per cento del totale delle transazioni finanziarie che si compiono nel mondo che sono gestite e programmate esclusivamente attraverso gli stessi algoritmi e sistemi esperti che costituiscono l’architrave poi degli stessi prodotti e servizi   che animano l’interscambio commerciale. Di conseguenza una crisi che colpisce, come in queste settimane il mercato rimane comunque determinata e controllata dagli stessi sistemi e proprietà che dovrebbero essere depresse dalla congiuntura economica. Non è mai accaduto nella storia economica che un settore del mercato rappresenti poi il sistema nervoso dello stesso modello capitalista.

Questo ci deve rendere molto cauti nel considerare in termini distruttivi la contrazione che abbiamo dinanzi agli occhi. Gli apparati digitali che oggi denunciano un ridimensionamento in termini di fatturato continuano a rappresentare il linguaggio e la grammatica dei linguaggi che li possono criticare.

Con questa avvertenza   mettiamo bene a fuoco quel paradossale riflesso psicologico che ha oggi penalizzato i grandi brand del digitale, mentre li aveva cosi poderosamente valorizzati nei due decenni che abbiamo alle spalle.

Per capire cosa sta accadendo pensiamo, ad esempio, che il gruppo Alphabet, che comprende, fra l’altro, i giganti Google e YouTube, che oggi è il principale contenitore di pubblicità del mondo, ha registrato nell’ultimo trimestre, il terzo del 2022, un incremento di fatturato complessivo del 6 per cento, arrivando ad incassare circa 69,1 miliardi, cifre che farebbero la felicità dell’intero listino di borsa di Wall Street, dove sono quotate le principali imprese tradizionali del mondo. Eppure le azioni di Alphabet sono cadute del 7 per cento, raffreddando in maniera consistente la corsa del gigante tecnologico, perché in realtà gli investitori si attendevano, secondo quello spericolato meccanismo di calcolo e promesse innestato dalla combinazione di sistemi innovativi con infrastrutture finanziarie, un risultato record del +9 per cento.

Non aver registrato un record, ha portato ad una recessione complessiva. Una dinamica che nessun manuale di economia aziendale ancora oggi potrebbe razionalmente spiegare.

La stessa dinamica, segnata dalla delusione emotiva, ha colpito Amazon che, pur rimanendo nel novero dei titoli con il segno +, ha comunque denunciato un calo sostanziale dei valori di borsa.

Questo riflesso psicologico più che finanziario ci riporta esplicitamente alla natura della dinamica che sorregge in quota questi dirigibili dell’economia virtuale: il profitto a breve. Incredibilmente proprio i centri di ricerca e ingegnerizzazione di processi che mutano le consuetudini antropologiche, incidendo nella nostra intimità, vengono poi misurati con il metro del cotto e mangiato, del tutto e subito.

Google, Amazon, Apple non sono più aziende che producono oggetti o servizi ma sono brand che assicurano profitto, tramite la commercializzazione dei propri prodotti. La produzione è un pretesto, un mezzo occasionale per raccogliere denaro. Ma ancora di più potremmo dire che la rivoluzione dei nostri costumi delle nostre abitudini, delle nostre culture, come ad esempio la trasformazione di funzioni essenziali, come la lettura, la scrittura, la connessione e la diffusione di contenuti, sono volgari e occasionali funzioni che permettono di massimizzare il marketing.

Questa constatazione in realtà ci porta a rivedere l’intero percorso delle civiltà umane, dove le grandi svolter, i significativi progressi, i momenti in cui l’uomo conquista padronanza con saperi e abilità che mutano forma e contenuto della vita avvengono per i più cinici e occasionali interessi momentanei. Si cambia il mondo per guadagnare subito, si potrebbe dire. Ritornano ad alcune tappe di questa grande corsa della civiltà, dalla scoperta del fuoco, alla fusione dei metalli, dall’agricoltura che sostituisce il nomadismo, alla costruzione delle grandi arterie di comunicazione, dalla scrittura ai caratteri mobili della stampa, fino alle scoperte scientifiche e geografiche, potremmo cogliere, andando esattamente all’origine di queste maestose conquiste, quell’istinto individuale e quella domanda sociale che , combinandosi in un dato luogo e in un dato momento, hanno fatto scoccare la scintilla.

Al di là delle suggestioni sulla filosofia della storia, focalizzare questo processo ci aiuta oggi a cogliere le molecolari ragioni dei fenomeni di trasformazione che ci stanno attraversando e anche di inquadrare le modalità e le esperienze per governare questi processi che sono, nella loro gestazione, meno imponenti e incontrollabili di quanto si pensi.

Soprattutto, per tornare alla nostra crisi economica del digitale, mi sembra utile mettere in rilievo proprio il ruolo delle comunità degli utenti e degli operatori, sia tecnologici che finanziari. Stiamo parlando di masse consistenti, di entità che ammontano a miliardi di individui e non poche centinaia di gnomi o di proprietari, come fino al secolo scorso si riduceva il reale potere economico. Nella relazione fra mercato, innovazione e popolo attivo si gioca anche la partita di cui stiamo discutendo.

Motore e strumento di questa relazione fra utenti e prodotti è quel delicato ma non completamento condizionabile meccanismo dell’aspettativa o comunque dell’attesa dei risultati, che si combina con la valutazione della coerenza e funzionalità dei servizi ai bisogni o richieste sociali.

Abbiamo attorno a noi un cosi detto capitalismo delle aspettative che mette proprio a profitto le emotività del mercato e che al momento appare funzionale prevalentemente alla concentrazione in pochi gruppi globali della ricchezza.

Questa è la contraddizione che rimane sottesa ma non è certo risolta nell’economia del sapere. Paradossalmente proprio il segmento dell’intraprendenza che nasceva dalla più sfrenata e assillante competizione, quale era quello delle start up digitali, immerse in un ambiente tutto attraversato dal liberismo più sfrenato, si è poi accartocciato attorno a pichi monopoli che hanno ibernato la spinta innovativa.

Come era pure accaduto in altre circostanze, pensiamo al mercato delle ferrovie negli Stati Uniti d’America, o a quello del petrolio e successivamente, della comunicazione, l’iniziale arrembaggio alle nuove risorse o idee si è poi risolto in una mera routine di gestione della rendita di posizione chi arrivava prima ad accumulare volumi di utenti e di fatturato occupava tutto il mercato e bloccava l’accesso ai nuovi entranti. Gli incumbent prevalevano sui nuovi innovatori.

Questo fenomeno ha rallentato considerevolmente il processo tecnologico, sia nella fase ideativa che in quella applicativa, spingendo i grandi centri tecnologici ad occuparsi più della gestione delle proprie immense plus valenze finanziarie piuttosto che del turn over tecnologico.

Si calcola che il top management di Google e Facebook occupino circa il 70 per cento del proprio tempo a seguire gli spostamenti dei capitali accumulati all’estero per trovare la più vantaggiosa posizione ai fini fiscali e della resa finanziaria piuttosto che di tutto il resto.

Una visione finanziaria che ha, inesorabilmente inaridito la stessa struttura organizzativa delle imprese, emarginando i portatori di visione e di trasgressione tecnologica a favore degli amministratori e degli ottimizzatori del presente.

Questo arroccarsi nella propria rendita spiega i completi fallimenti che gli stessi grandi marchi hanno conseguito ogni volta che hanno provato a cimentarsi con progetti o strategie che si discostavano dal proprio business model: Facebook non è riuscita a realizzare un motore di ricerca, Google non ha avuto fortuna con i social, Amazon si sta ancora chiedendo come diventare leader nei sistemi di pagamento.

Si procede invece per up grading, ossia per aggiornamenti del proprio sistema, per blindatura del proprio segmento di mercato, escludendo ogni interferenza o irruzione esterna.

Una spirale che ha inesorabilmente imborghesito, potremmo dire, le arie alternative e libertarie di questi padroni delle ferriere digitali.

La stagnazione indotta dalla frenata delle quotazioni borsistiche ha infatti spinto i leader digitali a comportarsi come i più tradizionali proprietari di imprese del secolo scorso: licenziando.

 In poche settimane il complesso delle filiere delle imprese di Big tech ha licenziato circa 60 mila persone, più o meno il 10 per cento di quei sei milioni di addetti del sistema digitale che si contano negli Usa.

La crisi ha fatto anche affiorare gli istinti peggiori di quella leva di top manager che veniva decantata come i cavalieri senza macchia e senza paura di Camelot, regno dell’innocenza e del benessere. Mark Zuckerberg, alle prese con la sua confusa e ancora indefinita prospettiva di metaverso, ha distribuito nel suo gruppo una lettera in cui accusa i suoi collaboratori di bassa produttività e programma almeno 11 mila licenziamenti. Elon Musk, appena entrato nei suoi nuovi uffici di proprietario di Twitter ha cacciato, insieme all’intero vertice, almeno la metà dei 7 mila dipendenti, per annunciare poi un cambio di clima e di regime nell’azienda, con orari e cartellini sempre più fiscalmente gestiti dalla gerarchia interna. Almeno altri 500 fra dirigenti e quadri hanno abbandonato subito la barca che sembra alla deriva.

L’orizzonte del mercato si è poi fatto ancora più fosco con la caduta delle criptovalute.

 Solo la piattaforma FTX, una delle più diffuse, dove si commercializzavano tutte le principali divise virtuali, ha già contabilizzato una perdita complessiva dei suoi circa 1 milione e cento mila clienti di almeno 10 miliardi di dollari.

Anche in questo caso siamo dinanzi ad un battito d’ali di una farfalla a Hong Kong che provoca un uragano negli Usa. E’ bastato che uno dei concorrenti di FTX, come la piattaforma Binance cominciasse a vendere le azioni del suo avversario per far crollare l’intero settore.

La recessione delle piattaforme insieme al sistema della block change, cioè della frontiera estrema dell’attuale tecnologia digitale non può non interrogarci sulle prospettive, pur mantenendo le cautele di cui abbiamo detto all’inizio: stiamo parlando del sistema nervoso del pianeta.

Secondo gli analisti due sono le ragioni di questo avvitamento, innestato dalla delusione di massa: il calo della domanda di pubblicità, che rimane il vero motore dell’economia immateriale, basata sulle relazioni punto a punto, e la profilazione conseguente, di cui Big tech è oggi il principale protagonista, e, seconda ragione, la rottura proprio della rendita di posizione dei monopoli, con una riformulazione delle strategie economiche e finanziarie.

In entrambi i casi si tratta di una mutazione delle relazioni socio commerciali che caratterizzano l’intero sistema digitale.

La pubblicità nelle piattaforme tecnologiche non è un semplice mercato dove gli inserzionisti comprano l’attenzione di un ipotetico pubblico.

Nell’infosfera, per usare la terminologia di Luciano Floridi, la promozione commerciale è il risultato di una infinità di micro contratti di comunicazione in cui una fonte, nel caso pubblicitario appunto l’inserzionista, entra in possesso di informazioni e dati su una platea di utenti della piattaforma a cui invia un flusso di comunicazione che lo dovrebbero orientare verso un certo prodotto o servizio.

 In questa logica cade l’alea tipica della pubblicità – so che la metà del mio investimento è disperso ma non so quale delle due metà devo eliminare- e rimane un patrimonio di profilazione che permette all’inserzionista di giostrare a colpo sicuro individuando con estrema precisione il target dei suoi acquirenti.

In questo snodo- profilazione ed offerta- si colloca anche tutta una riflessione più politica, o ancora di più filosofica. La pratica di una profilazione che permette la raccolta di flussi inesauribili di dati su individui o problematiche, lo vediamo persino nella guerra in Ucraina, muta radicalmente la stessa attività di conoscenza e di analisi della realtà che ci circonda. Come sosteneva in uno storico saggio sulla rivista Wired, il fondatore Chris Andersoon[1] esattamente quindici anni fa, la potenza della profilazione riduce lo spazio per una speculazione scientifica. Più dettagliatamente scriveva Anderson

“l’enorme quantità di dati accessibili all’indagine scientifica avrà presto il risultato di rendere obsoleta la costruzione di modelli e l’interpretazione dei dati stessi. Basterà stabilire correlazioni e relazioni tra i dati attraverso l’uso di calcolatori sempre più potenti per avere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, senza dover sovrapporre ai dati uno schema costruito dalle nostre menti”.

In sostanza i dati sono il modello. Centrale in questa concezione è proprio l’inossidabile e totalitaria correlazione fra dati e realtà, che affermava il fondatore di Wired. In questo decennio certo non siamo arrivati alla cancellazione della ricerca scientifica e alla sostituzione della riflessione filosofica con una sequela di data set, certo è che, come proprio la vicenda del Covid ci ha mostrato, la base dei dati, la disponibilità della massa delle informazioni sta orientando e determinando tempi e modi delle acquisizioni scientifiche. Nel campo del marketing commerciale o sociale, pensiamo allo spettro di Cambridge Analytica, la profilazione di comunità sta sostituendo la comunicazione di massa. Siamo dunque in un tornante di passaggio, in una transizione in cui i linguaggi commerciali stanno mutuando dalle tecniche sociale digitale capacità di relazione e conquista delle nostre volontà. Superando e archiviando tutte le teorie dei persuasori occulti.

Se dunque oggi registriamo una contrazione dell’investimento pubblicitario, dobbiamo convenire che l’inserzionista dubiti della bontà dei dati della piattaforma in base non tanto all’incapacità della stessa di estrarli- ormai i software sono standardizzati e granularmente spietati – quanto della distorsione del rapporto fra utente e i sistemi editoriali che gestiscono le piattaforme per ricavare dal suo servizio le informazioni più sofisticate e individuali dei propri utenti.

Possiamo dire che si sia incrinato in molti casi il patto sociale che reggeva questa economia dei dati. Mi riferisco a quella mutua complicità che lega providers a utente, e che permette a Facebook o Google di profilare sfacciatamente i propri milioni di utilizzatori in cambio di un servizio relazionale e della condivisione di un’identità valoriale.

Ora se questo patto si allenta, o addirittura diventa conflittuale, salta l’economia digitale. Qui sta in nuce il senso e la natura di un modello relazionale che ha potuto dispiegarsi sull’intero pianeta, coinvolgendo almeno 5 miliardi di individui in virtù del riconoscimento di una reciproca convenienza ma anche di una considerevole coincidenza di principi e reputazione. Il capitalismo della sorveglianza, come ci spiega nel suo fortunato saggio Shoshanna Zuboff ha avuto la potenza di piegare le ambizioni di milioni di individui in uno scambio asimmetrico che comunque doveva concedere un ruolo di opinione agli utenti, largamente più di quanto il precedente capitalismo manifatturiero era costretto a riconoscere ai lavoratori che pure lottavano nelle fabbriche.

Lo stesso ragionamento, a me pare, vale per la perdita dello status di monopolista: se Tik Tok ruba mercato a Facebook, oppure le nuove piattaforme video sottraggono a YouTube quel flusso inarrestabile di centinaia di migliaia di video ogni giorno, vuol dire che salta proprio quella forma di identificazione che porta ognuno di noi a scegliere un ambiente digitale per affinità e non solo per convenienza.

L’istinto primordiale che caratterizza ormai ad ogni latitudine ogni individuo ad auto-documentare la propria vita, deve necessariamente basarsi su un’affinità che oggi diventa sempre più problematica e sempre più negoziabile.

Quanto sta accadendo nel mondo di Twitter, con i milioni di abbandoni, con le migliaia di dimissioni che seguono i licenziamenti, decisi dal nuovo padrone Elon Musk ci parla esattamente di questo patto sociale interrotto.

Questa è oggi la novità che si annuncia sulla scena.

Sarebbe una vigilia pre rivoluzionaria se fossimo ancora in una logica liberista, dominata dalla contraddizione capitale lavoro.

In quel caso, come ben ricordiamo, il mercato poggia su sistemi economici stabili, consolidati da tecniche e ragioni di scambio consolidate, e in cui la gerarchia fra offerta e domanda è guidata dalla proprietà, per cui il padrone della fabbrica è il titolare della linea di produzione e i lavoratori nel migliore dei casi sono la controparte a valle del procedimento manifatturiero. Una crisi segnata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, direbbero i maestri del 900, con una dispersione di valore e uno scompaginamento degli assetti produttivi ci porterebbe o a una caduta drammatica del mercato, come nel 29, o una svolta conflittuale come nella Germania di Weimar.

Oggi invece la turbolenza che allenta la tesaurizzazione degli algoritmi e moltiplica i soggetti che entrano in campo ci dice che si sta ponendo con forza il tema di una ridefinizione di un nuovo patto sociale ed economico, in cui proprio quell’apparato globale di condizionamento che ha documentato nel saggio che abbiamo citato sopra di Shoshanna Zuboff, perde più che il controllo proprio l’egemonia, diremmo con Antonio Gramsci. Più che il dominio quello che sta ridimensionandosi è la capacità di suggestione, di essere un modello e di voler catturare il sogno degli utenti.

Si apre così uno spazio in cui la politica potrebbe giocare un ruolo protagonista.

Si tratta infatti di reindirizzare la struttura verticale del sistema relazionale, che oggi i padroni delle piattaforme finalizzano all’estrazione di valore istantaneo, ad una nuova forma relazionale, in cui la rete non sia mercato delle singole attenzioni e dei dati che ognuno di noi deposita, ma motore di sistemi locali, in cui gli utenti abbiano l’accesso alla riprogrammazione degli algoritmi.

Si tratta di ripensare l’intero sistema economico, dai circuiti energetici, agli apparati sanitari ed assistenziali, dalla pubblica amministrazione alla formazione scolastica fino al decentramento dei sistemi di produzione, alla luce di una potenza di connessione punto a punto che potrebbe garantire efficienza e soddisfazione nello scambio mutualistico di ognuno di noi con il suo interlocutore. Questa era infatti l’ispirazione delle prime reti locali basate sul principio del greedy[2], ossia di piccole griglie relazionali in cui ci si scambia energia, informazione e istruzioni per alimentare forme cooperativistiche di lavoro e servizi.

Paradossalmente nel momento che sembra più disarmante per una sinistra critica riappare una vecchia talpa digitale. 


[1] Chris Anderson “The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete”, Wired, 23 giugno 2008

https://www.wired.com/2008/06/pb-theory/.

[2] Un algoritmo greedy è un paradigma algoritmico, dove l’algoritmo cerca una soluzione ammissibile da un punto di vista globale attraverso la scelta della soluzione più appetibile (definita in precedenza dal programmatore) per quel determinato programma a ogni passo locale. Quando applicabili, questi algoritmi consentono di trovare soluzioni ottimali per determinati problemi in un tempo polinomiale, mentre negli altri non è garantita la convergenza all’ottimo globale. In particolare questi algoritmi cercano di mantenere una proprietà di sottostruttura ottima, quindi cercano di risolvere i sotto problemi in maniera “avida” (da cui la traduzione letterale algoritmi avidi in italiano) considerando una parte definita migliore nell’input per risolvere tutti i problemi.

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