Più che la trappola di Tucidide – come i geopolitici definiscono l’inevitabile conflitto fra potenze declinanti e ascendenti- che spesso viene richiamata nelle analisi sulla guerra in Ucraina, sono forse Le Storie di Erodoto, per la parte dedicata alla battaglia di Salamina, del 480 a.c., che ci può aiutare a penetrare l’imprevedibile epilogo che sta avendo questo scontro così impari in corso fra Mosca e Kiev.
Proprio il grande storico greco ci spiega come una guerra non sia mai riassumibile con la sequenza dei combattimenti e con la contabilità delle forze in campo, ma invece la sua dinamica possa essere afferrata con la comprensione e la valutazione di interessi, identità sociali e motivazioni delle popolazioni che sono alle spalle degli eserciti. I contesti per le capacità sono essenziali, più delle armi.
A Salamina, come è noto, Temistocle vinse più che per lo stratagemma di attirare l’ingombrante armata navale di Serse in un angusto braccio di mare, dove le veloci e leggere triremi dell’alleanza ellenica potevano colpire impunemente, proprio per la strategia sociale che comportava la scelta di una battaglia navale e non terrestre. Quella strategia comportava uno spostamento del baricentro socio politico della città dai latifondisti, che pagavano le truppe terrestri, alla borghesia mercantile e artigiana che costruiva e gestiva le navi.
Centrali furono in questa contesa, ricorda ancora Erodoto, le diverse astuzie tecniche, quella che oggi chiamiamo tecnologia, che resero i rostri di quercia e ottone che armavano i vascelli ateniesi micidiali ordigni che sventrarono le fiancate delle navi persiani.
Una storia questa di Erodoto che evidentemente i generali russi non hanno letto, o se l’hanno letta, come è più probabile, non hanno avuto l’opportunità di rappresentarla al Kremlino.
Sicuramente se Putin avesse avuto l’opportunità di ragionare con i suoi collaboratori su questi snodi storici, forse qualche cautela l’avrebbe avuta, invece di lanciare 200 mila uomini nella fornace ucraina, richiamandosi alle gesta, per altro mai vincenti, degli Zar Romanov.
Tecnologia e struttura sociale dei combattenti oggi sono le due vere armi che stanno contenendo e persino respingendo l’avanzata delle divisioni putiniane.
Il collante e rivelatore di questi due fattori- le tecnologie di combattimento e le culture e organizzazioni della borghesia ucraina in armi- è la comunicazione, in senso lato. Come ci diceva Claude Shannon, informazione è spostare un contenuto da un punto all’altro nello spazio. A volte, aggiungeva il padre dell’informatica, persino con un senso.
L’Ucraina oggi è forse il laboratorio più terribile ed evidente di questa teoria, dove si combatte spostando conoscenza, in velocità. Ogni guerra si è combattuta grazie al controllo delle informazioni. La novità di quanto stiamo vedendo riguarda proprio la velocità e l’accessibilità della comunicazione.
Per questo la scienza dell’informazione, nella sua accezione attuale che integra capacità di calcolo e attitudini relazionali, si sta rivelando decisiva nello scontro militare.
In particolare, per comprendere la diversa padronanza ed affinità che i due eserciti mostrano su questo terreno ci aiuta un saggio di strategia militare e politica, che non è riassumibile con l’asettico termine geopolitica, che in queste settimane mi appare più consumato di quanto non risultasse la virologia al tempo della pandemia, di un generale cinese, Qiao Liang, del 2016, pubblicato in Italia con il titolo di L’arco dell’impero, da Leg Edizioni.
Nel testo l’autore, prestigioso teorico della confrontazione a tutto campo nella disfida fra Cina ed America, spiega come il fattore vincente in un conflitto geopolitico, e anche militare, sia più che la quantità di soluzioni tecniche, un processo ancora più intenso e creativo che lui definisce l’innovazione della tecnologia.
Si tratta della capacità di adeguare il proprio comportamento a quell’impatto implacabile che la rete, nelle sue dinamiche socio culturali introduce in termini di decentramento e condivisione di contenuti e di relazioni interattive.
E’ indispensabile, aggiunge Qiao Liang, riprogrammare l’intera gamma delle forme e dei contenuti dell’organizzazione di un paese, a partire dalla sua forza, a una logica che ha spostato irreversibilmente verso la periferia della rete la capacità di interferire e di inibire le elites centrali. Cambia la geometria del potere e mutano i soggetti in campo. Più che la potenza è la partecipazione che fa la differenza, più che la produzione la distribuzione delle informazioni.
La guerra in Ucraina sta dimostrando esattamente questa evoluzione.
La furia devastante dei bombardamenti, la minaccia di quelle lunghe colonne di carri armati, le scorrerie dei caccia sulle città, vengono contenute, frenate, addirittura respinte in alcuni casi, non con la solita strategia del mordi e fuggi, tipica della guerriglia che abbiamo conosciuto in diverse versioni.
Non siamo ne in Vietnam ne in Afghanistan, dove la guerra asimmetrica si conduceva grazie alla porosità del territorio – giungla o montagne-, ma siamo in uno scenario urbanizzato, in cui il terreno, questa è la novità, è scansionato dai sistemi di georeferenzazione, da Google maps, per indicarne il capostipite.
Eccola qui quella forma di decentramento sociale della potenza tecnologica di cui parla Qiao Liang.
Accedere a quella straordinaria visione molecolare del territorio che oggi è banalmente presente sugli schermi dei nostri telefonini, combinandolo con sistemi di indirizzamento dei droni, guidati mediante software residente sugli smartphone, rende la guerra un’app mobile, in cui le economie di scala si sovvertono: più sei piccolo più sei agile e maneggevole, come a Salamina.
In questo passaggio bisogna notare come si misuri in quel teatro di guerra anche una visione privata della guerra, dove potenze nazionali vengono contrastate da potentati proprietari.
E’ quello che vediamo con la flotta spaziale SpaceLink di Elon Musk, il miliardario proprietario della Tesla e della società che sta programmando viaggi su Marte, che con le sue connessioni spaziali sta assicurando il monitoraggio di tutti i movimenti a terra, rendendo le colonne blindate facile bersaglio, oltre che garantire la piena connettività nelle città e villaggi. Riprogrammare il controllo della mobilità, e confermare l’infrastruttura digitale di connessione sono state le due funzioni che ci dicono come i russi abbiano, almeno fin qui, sbagliato strategia.
La stessa tendenza ci appare con la decifrazione che Microsoft ha permesso del sistema Era che criptava le comunicazioni interne agli ufficiali russi, abbia esposto proprio i vertici dell’armata a quel cecchinaggio che oggi ha già fatto almeno 6 vittime fra i generali di primo livello.
Bellingcat subito ripresa e approfondita da Twitter per mano del suo direttore esecutivo Christo Grozev, più volte premiato negli anni scorsi per i suoi lavori di giornalismo investigativo.
Secondo quanto rivelato da Andrey Grozev, direttore esecutivo di Bellingcat, un’agenzia di giornalismo investigativo che sta operando da settimane nel pieno del teatro di guerra, la notizia delle uccisioni degli alti ufficiali russi sarebbe trapelata da conversazioni telefonica, su linee ordinarie, proprio sim card locali, da parte di ufficiali dell’Fsb (i servizi segreti russi) che chiamavano i loro comandi.
Nel corso di queste intercettazioni si è anche appreso, candidamente, che il sistema ERA, il preziosissimo apparato di codifica che rende non tracciabili le comunicazioni delle forze russe, non funziona più.
Sarebbe una circostanza da Scherzi a parte, se non fossimo nel più terribile degli scacchieri di guerra. Non è questa sequenza il bilancio trionfale di una possibile vittoria. Dietro a questi episodi ci sono migliaia di morti e feriti. C’è una popolazione martoriata. Nessuno può davvero pensare di vincere, anche se dovesse prevalere.
Queste storie ci fanno comprendere come non sia stato possibile, dopo più di un mese, lo sfondamento a ovest da parte delle forze moscovite.
Ma il punto che vorrei toccare per una discussione a caldo, dato che stiamo parlando sulla cresta di una cronaca che diventa subito storia, mutando senso e direzione in poco tempo, riguarda come, per la prima volta, una guerra reale sia concisa e contenuta dalla guerra virtuale della comunicazione.
Quella iniziata il 24 febbraio si annuncia come la prima guerra in cui virtuale e reale tendono a coincidere.
Come abbiamo visto infatti la base del sistema di combattimento e anche di consolidamento delle posizioni sia esattamente quella tecnica che raccoglie, sistema e distribuisce le informazioni. Quelle di carattere militare sono trattate, questa è la novità, con lo stesso criterio, le stesse modalità, le stesse infrastrutture di quelle destinate al mercato della comunicazione di massa.
In questa partita ovviamente l’attenzione dei media tende a concentrarsi sui due tenori: Putin e Zelensky. I due infatti sono inevitabilmente interpreti di una strategia che gli viene suggerita da ruoli e obbiettivi che si sono posti, assolutamente diversi e divergenti.
Putin, pur essendo un despota che ha azzerato ogni dialettica politica nel suo paese, si rivolge nei suoi interventi esclusivamente all’opinione pubblica russa. Un comportamento tipico di un autocrate che regna su un paese sempre in pericolo di rivolta. La Russia si conferma nelle sue articolazioni politiche, come diceva Wiston Churchill, un rebus avvolto in un enigma.
Il buco nero che ha sempre reso insondabile le reazioni del paese sta proprio nell’assenza di un’articolazione civile che leghi il vertice che governa ai diversi stadi della società governata. Fra lo zar e l’ultimo membro delle òbscine, le comunità rurali della siberia, non c’era niente. Ed oggi c’è davvero poco. Paradossalmente nei cinque secoli di storia più recente, solo i settant’anni della rivoluzione comunista hanno animato questo panorama sociale, almeno per la prima parte, diciamo prima delle stagioni più truci staliniane. Per il resto il profilo è rimasto piatto.
La kermesse dello stadio Luzniki è un vero catalogo di questa strategia rivolta ad una muta moltitudine interna. In quell’occasione Putin ci ha fatto sapere come in ogni caso abbia sempre una percezione di insicurezza, che debba colmare cercando un riconoscimento populista.
Il suo comizio a quella folla, per il tono e i contenuti, sono sembrati una versione rock del discorso del 3 luglio del 1941, dopo l’impetuosa invasione nazista dell’Urss, con cui Stalin si riprese il suo popolo, traumatizzato dall’ondata inarrestabile tedesca.
“Fratelli e sorelle”, è il famoso inizio del piccolo padre.
Un discorso in cui il capo sovietico si metteva al livello della sua gente, al di fuori da ogni ideologia o gerarchia: un russo fra russi per difendere la madre patria. Con quelle parole iniziava la cosiddetta grande Guerra Patriotica, come è denominato il secondo conflitto mondiale a Mosca.
Putin ha provato più o meno la stessa operazione: dinanzi all’impantanamento del corpo d’invasione, e ai primi scricchiolii della macchina propagandistica per i troppi cadaveri che tornano dal fronte, si cerca di mobilitare il senso della terra dei russi, più Tolstoi che Puskjin. La molla a cui si richiama Putin quando parla di “liberare i fratelli di Crimea e Donbass” è il morboso legame con un popolo che in Russia si identifica con la terra su cui cammina. Putin ha provato ad arruolare questo inconscio russo in cui la paura per l’accerchiamento del proprio paese si combina con la missione salvifica della guerra. Ancora Tolstoi che scriveva “togli il sangue dalle vene e versaci dell’acqua: allora si che non ci saranno più guerre”. E per stare in questo copione deve trasformare una guerra di conquista in una di difesa, cancellando l’identità geografica ed etnica degli Ucraini che si devono sciogliere nella grande madre Russia.
Una strategia che non deve avere occhi indiscreti: si realizza esclusivamente all’interno del paese.
Zelensky invece rovescia i ruoli, parla al mondo, e gioca fino all’ossessione il ruolo della vittima, che, inevitabilmente diventa, l’eroe sotto le bombe. Un ruolo difficilmente contestabile, anche se risulta fastidioso agli occhi e alle orecchie di un’imbarazzata opinione pubblica occidentale che si trova sbalzata a misurarsi per la prima volta per l’esperienza contemporanea con l’idea di una guerra vera e diretta. Per evitarla bisogna sacrificare qualcosa della posta in palio, e la resistenza degli ucraini, guidata da Zelenschy irrigidisce oggettivamente il tavolo di trattativa.
In questo scenario la politica comunicativa degli ucraini diventa ostica, stridente, acuminata.
Zelenscky ha modulato temi e linguaggi cercando, in maniera a volte troppo studiata, sintonie e connessioni con la pancia dei paesi con cui si collegava: Germania, USA, Francia, Italia, Israele. A volte ha preso in ostaggio la memoria di quei paesi, a volte ha semplicemente lusingato i loro rappresentanti.,
Non ha caso, il punto di massima tensione è stato proprio il confronto alla Knesset israeliana. Da ebreo, che non deve ne dimostrare ne chiedere autorizzazioni per entrare nel sacrario dell’Olocausto, il presidente Ucraino non ha resistito al richiamo della comparazione: Kiev come Auschwtiz. Per qualcuno è stato troppo. Speriamo solo che la storia non debba confermare l’iperbole.
La valutazione che oggi pare prevalente è che gli aggrediti stiano vincendo la battaglia della solidarietà rispetto agli aggressori. Forse proprio la contrapposizione etica fra i due ruoli – cattivi e buoni- dovrebbe rendere ancora più forte questa prevalenze. La notizia semmai è che ci sono forti resistenze che rimangono ad opporsi ad una visione che inevitabilmente va a tutto conforto per un rinnovato peso egemonico dell’alleanza atlantica con gli usa, come baluardo di una difesa contro le mire dei russi.
Per cui se la bilancia emotiva segna un ritorno di vecchi ed incongrui temi anti imperialisti, che non sono proprio pertinenti ne storicamente accettabili in questo contesto, quello che appare con più sottile rilevanza è la coerenza fra la cultura di una comunicazione giocata sull’abbondanza delle fonti e la trasparenza dei comportamenti rispetto ad una costretta ad una riservatezza delle informazioni ed una penuria delle notizie.
Se infatti colleghiamo le forme e le tecniche del conflitto militare che abbiamo prima richiamato con le strategie comunicative, vediamo come proprio il messaggio che abbiamo ricavato dal libro del cinese Qiao Liang, L’Arco dell’Impero, ossia innovare la tecnologia lungo le linee del decentramento e della condivisione.
Siamo in un nuovo scenario, che prelude ad un possibile dopo guerra, dove la linea di demarcazione sarà, come diceva Vittorio Foa, fra verticale e orizzontale. Una frontiera che ci costringerà a ripensare la stessa configurazione della rete e dei suoi protagonisti rendendo la comunicazione non più conseguenza ma causa ed essenza di qualsiasi confronto politico e sociale.
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