Nella Rassegna di varia umanità. Elzeviri, ricordi e altre amenità dello spirito, del pensiero e del gusto che completa la Terza parte del fascicolo troviamo un Elzeviro di Roberto Cresti su “La casa del futuro: il Bauhaus e oltre”- Come recita l’occhiello il testo vuole essere una “Breve storia di un’utopia realizzata durante la Repubblica di Weimar”, dalla fondazione della scuola nel 1919 a Weimar in Turingia da parte di Walter Gropius, al trasferimento nel 1925 a Dessau in Sassonia dove nominerà tre anni dopo come suo successore l’architetto svizzero Hannes Meyer, prima che quest’ultimo lasci a sua volta la guida della scuola nel 1930 all’architetto Ludwig Mies van der Rohe, che, sarà costretto, a sua volta, a chiudere su richiesta dei nazisti la scuola dal sindaco di Dessau, trasferendo il Bauhaus a Berlino dove chiuderà definitivamente con l’ascesa di Hitler al potere. ”.Il fondatore Gropius – scrive Crespi “Univa, pragmaticamente, realismo e utopia. Parlava d’una coscienza maturata nella esperienza della guerra e dei suddetti Consigli (aveva fatto parte dell’Arbeitsrat für Kunst, sorto dal Novembergruppe di Max Pechstein e César Klein) in base alla quale l’architettura avrebbe dovuto svolgere un ruolo sociale di sintesi e di progettazione, unificando tutte le forze nazionali, da quelle innovatrici a quelle conservatrici. La nuova Germania repubblicana avrebbe dovuto nascere e svilupparsi, a suo pensiero, per un concorso di opposti, che si sarebbero corretti reciprocamente senza annullarsi, riprendendo l’ideale etico-estetico di Friedrich Schiller, consistente nel rinnovare la società dall’interno, come se si trattasse di riparare un orologio senza fermarlo”. “Il Bauhaus (dipendente, agli inizi, dal Ministero dell’Educazione, e perciò denominato Staatliches Bauhaus) si basava sugli stessi principi della neonata Repubblica. Infatti, come nei 181 articoli della Costituzione si tendeva – continua Cresti – a un organico equilibrio fra poteri tradizionali e forze democratiche; unità del Reich e autonomia dei Länder; poteri del parlamento, dell’esecutivo e del Presidente della Repubblica; diritti-doveri individuali e collettivi; libertà d’impresa e tutela dei lavoratori; educazione pubblica e formazione della persona; uguaglianza giuridica fra i sessi; nella scuola ideata da Gropius (aperta a studenti e studentesse, e, per la prima volta in Germania, anche a insegnanti donne), si sarebbe sviluppata una comunità, governata da un consiglio di docenti e da uno di studenti, che avrebbe riunito la Hochschule für bildende Kunst (l’‘Accademia di belle arti’) e la Kunstgewerbeschule, (la ‘Scuola di arti applicate’)”.
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… mundi mediumque redibit
rursum illuc mecum …
Giordano Bruno
Che cosa Walter Gropius intendesse parlando del Bauhaus come di una «architettura totale» lo si capisce se si tiene conto della immagine che egli stesso aveva commissionato all’amico Lyonel Feininger per la brochure della scuola, fondata a Weimar nel 1919: una cattedrale. Gropius aveva chiesto all’amico pittore di disegnare una cattedrale gotica sormontata da tre punti di luce irradiante (simboli di Architettura, Scultura, Pittura), così da dare l’idea di una sintesi plastica fra cielo e terra.
Chissà se Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, aveva presente questa immagine, lei tedesca, lei parte di quella radice costruttiva contemporanea, il Bauhaus, quando ha nominato la creatura di Gropius come modello per la ricostruzione dell’Europa fra crisi economica e pandemia. Potrebbe farlo intendere il carattere non estetico della citazione, ma ‘politico’, nel senso di una integrazione di energie e non soltanto di stili. Gropius aveva infatti teorizzato una unificazione fra le arti belle e quelle applicate, con grande scandalo dei tradizionalisti, presto supportati dai prenazisti e poi dai nazisti veri e propri, nemici mortali del Bauhaus in quanto custodi di un’immagine presunta ‘sovrana’ della Germania, ma in realtà, ancora ‘austriacante’: erculea figlia naturale della Vedova allegra e del Bel Danubio blu, come sarebbe tragicamente apparso nella persona stessa di Adolf Hitler.
L’evocazione della cattedrale da parte di Gropius sparigliava però i fronti politici. Essa aveva qualcosa di rivoluzionario e insieme di conservatore: adombrava cioè un’idea di tradizione non in conflitto con lo spirito dei tempi, e proponeva una riforma di principi autoctoni al fine a renderli internazionali. Era una ripresa del progetto politico-culturale di Johann Gottlieb Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1808), ancora presente a un pittore d’avanguardia come Franz Marc, il quale si chiedeva, su quell’autorevole precedente, come avrebbe contribuito la Germania a riformare la civiltà europea dopo la vittoria nella Grande Guerra. Marc però aveva lasciato la vita nel fango di Verdun e, sopraggiunte la sconfitta e la caduta del II Reich (il Kaiser Guglielmo II aveva abdicato il 9 novembre 1918), Gropius pensava che ora, ove avevano fallito le armi, potesse forse riuscire al Paese elaborare una rinnovata coscienza di sé in fertile sintonia con lo sviluppo complessivo del mondo occidentale.
I mezzi non mancavano: industria e tecnica necessitavano solo delle materie prime, degli investimenti e della manodopera, che la guerra avevano a esse sottratto. Bisognava fare di quei mezzi il punto di riferimento collettivo al fine di avviare una rapida ripresa economica, creare un contatto produttivo con la società attraverso una pratica e una visione del lavoro che seguissero l’ideale di un bene comune posto di là dall’utile della élite composta di grandi capitani d’industria borghesi e aristocratici proprietari terrieri, fra l’altro compromessi con l’economia bellica e le sue speculazioni.
Era infatti necessario arginare, al contempo, l’impulso rivoluzionario che aveva portato, a fine 1918, alle insurrezioni di soldati esasperati dalla guerra e poi alla formazione di ‘Consigli’ (Räte) di soldati stessi, operai e studenti, con l’aggiunta di numerosi intellettuali. Il modello dei soviet russi del 1917 si era diffuso nel territorio nazionale e aveva creato una situazione da guerra civile. Il governo provvisorio era allora ricorso all’esercito e ai cosiddetti i ‘corpi franchi’ per attuare la repressione dei rivoluzionari più irriducibili. Ne erano seguite violenze efferate che, a Berlino, avevano portato all’assassinato dei leader spartachisti Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Quello era stato il prezzo da pagare per riportare la situazione a un relativo equilibrio, e consentire alla neonata repubblica, e al suo primo presidente, nominato dal parlamento, il socialdemocratico Friedrich Ebert, d’assumere davvero il potere.
Cosa fosse andato realmente perduto lo si capirà solo col tempo (lo facevano già intendere però i diari di reduci dal fronte, riecheggiati ne La vita semplice [1939] di Ernst Wiechert: «Perso molto, un Kaiser, un esercito…»). Ma che vi fosse la necessità di dare a un Paese di 65 milioni di abitanti, dalla configurazione istituzionale, malgrado la sua modernità economica, di un impero medievale, un nuovo assetto collettivo e persino un nuovo immaginario, era chiaro in primo luogo al vasto ceto imprenditoriale, al cui interno si trovavano figure. come Walther Rathenau, presidente della AEG (Allgemeine Elektrizitäts-Gesellschaft), orientate a progetti di riforma sociale che univano, in visioni fantascientifiche, l’ideale produttivo delle corporazioni medievali alla meccanizzazione del mondo. Se ne trovano tracce in opere letterarie, anche fortemente critiche, come Monti, mari, giganti (1924) di Alfred Döblin.
Métier et mémoire
Gropius veniva da quel milieu culturale (dopo gli studi in ingegneria, si era formato come architetto e progettista nello studio di Peter Behrens, primo consulente artistico dell’AEG), ma, in una Berlino già straordinariamente tecnica e industriale ben prima dell’inizio della guerra, non nutriva visioni ‘alla Rathenau’ d’un antico futuro dominato da una nuova razza nordica di produttori-tecnici-con-quistatori. Univa, pragmaticamente, realismo e utopia. Parlava d’una coscienza maturata nella esperienza della guerra e dei suddetti Consigli (aveva fatto parte dell’Arbeitsrat für Kunst, sorto dal Novembergruppe di Max Pechstein e César Klein) in base alla quale l’architettura avrebbe dovuto svolgere un ruolo sociale di sintesi e di progettazione, unificando tutte le forze nazionali, da quelle innovatrici a quelle conservatrici.
La nuova Germania repubblicana avrebbe dovuto nascere e svilupparsi, a suo pensiero, per un concorso di opposti, che si sarebbero corretti reciprocamente senza annullarsi, riprendendo l’ideale etico-estetico di Friedrich Schiller, consistente nel rinnovare la società dall’interno, come se si trattasse di riparare un orologio senza fermarlo.
Quell’ideale si basava sui principi esposti da Schiller nelle Lettere sulla educazione estetica dell’uomo (1795) come metodo per la formazione interiore degli individui attraverso la cultura e l’esercizio dell’arte, non in senso estetizzante, ma come kantiano «libero gioco di intelletto e ragione», finito e infinito, sensibilità e riflessione, pratica e teoria: come un esperimento permanente, condotto nel segno della moderazione, senza dogmi o imposizioni neppure ‘progressiste’. Schiller paventava infatti la possibile insorgenza anche di una «barbarie intellettuale», che indicava nelle vicende della rivoluzione francese culminate nella pratica giacobina del Terrore (1).
Le Lettere erano state redatte a Weimar a diretto confronto con Johann Wolfgang von Goethe, il quale, in uno scritto giovanile, aveva individuato nella cattedrale gotica l’essenza dell’arte edificatoria tedesca, incarnata dall’architetto Erwin von Steinbach, un tempo ritenuto artefice della cattedrale di Strasburgo:
«Solo a pochi uomini fu dato di concepire un pensiero degno di Babilonia […] di trovar mille mani tese […] di poter dire ai loro figli morendo: io resto con voi nelle opere del mio spirito, tocca a voi portare fino alle nuvole ciò che è stato iniziato» (2).
Goethe vedeva nella cattedrale la metafora di una cultura tedesca permanentemente in fieri, che portava forme ideali a contatto con la realtà attraverso l’attività di una massa d’uomini capaci di porre le proprie energie individuali al servizio di un’opera collettiva.
Dal cielo stellato della ragione e dell’educazione estetica si giungeva così alla realtà storica della Germania, secondo lo sviluppo di un’arte sociale cui Gropius si riferiva attraverso l’immagine della cattedrale commissionata a Lyonel Feininger per dare l’idea di una scuola d’arti fondata sulla costruzione di un ‘edificio comune’, il cui nome, Bauhaus (dal verbo bauen, ‘costruire’ e Haus, ‘casa’), evocava il Bauhütte, ove si riunivano i capomastri nei grandi cantieri medievali. Non si sarebbe trattato quindi solo di una scuola, ma di un simbolo in cui si riflettevano la Germania del passato e del presente:
«L’arte dell’edificare – diceva Gropius – si basa sulla collaborazione attiva di una squadra di persone, che può essere assunta come paradigma dell’organizzazione della comunità sociale, anch’essa fondata sulla cooperazione tra individui» (3).
Weimar ne sarebbe stata la sede proprio mentre nel teatro della città, davanti al quale campeggiava la statua di Schiller e Goethe intenti a stringersi le mani, i deputati del parlamento nazionale si riunivano in assemblea per dare al Paese la Costituzione, che sarebbe entrata in vigore nel 1919: era l’inizio della Repubblica di Weimar.
Vite parallele
Il Bauhaus (dipendente, agli inizi, dal Ministero dell’Educazione, e perciò denominato Staatliches Bauhaus) si basava sugli stessi principi della neonata Repubblica. Infatti, come nei 181 articoli della Costituzione si tendeva a un organico equilibrio fra poteri tradizionali e forze democratiche; unità del Reich e autonomia dei Länder; poteri del parlamento, dell’esecutivo e del Presidente della Repubblica; diritti-doveri individuali e collettivi; libertà d’impresa e tutela dei lavoratori; educazione pubblica e formazione della persona; uguaglianza giuridica fra i sessi; nella scuola ideata da Gropius (aperta a studenti e studentesse, e, per la prima volta in Germania, anche a insegnanti donne), si sarebbe sviluppata una comunità, governata da un consiglio di docenti e da uno di studenti, che avrebbe riunito la Hochschule für bildende Kunst (l’‘Accademia di belle arti’) e la Kunstgewerbeschule, (la ‘Scuola di arti applicate’), promuovendo il ‘saper-fare’ come valore estetico e sociale:
«la competenza è il mestiere essenziale per ogni artista. Questa è la fonte originale dell’immaginazione creativa. Quindi creiamo una nuova corporazione di artigiani senza distinzione di classe […] creiamo la nuova costruzione del futuro che sappia unire ogni disciplina, architettura, scultura e pittura, e che un giorno salirà al cielo dalle mani di milioni di lavoratori come il chiaro simbolo di una nuova fede»(4).
Nonostante tale dichiarazione d’intenti, il legame con la modernità risultava tuttavia complesso. Se, infatti, il mondo industriale esprime il sogno di un ordine geometrico pre-newtoniano, un ordine ancora mitico, come quello della Nuova Atlantide (1624) di Francesco Bacone, che la tecnica, fin dai secoli XVII-XVIII, realizza ma insieme riduce a fatto materiale, il Bauhaus appariva, al suo nascere, di segno quasi opposto: era un sogno ugualmente pre-newtoniano, ma, nel fondo, naturale, neoprimitivo, il sogno annunciatosi con Paul Gauguin e i suoi sodali a Pont-Aven e a Tahiti, che era stato assimilato poi dalla cultura anti-moderna della fin de siècle, quindi dal vasto movimento espressionista tedesco, fra Dresda, Berlino e Monaco.
Il suo humus culturale era inoltre quello teosofico-comunitario-antroposofico, fra Iside svelata (1877) di Elena Petrovna Blavatskij, le comunità tipo quella del Monte Verità a Ascona, e il Goetheanum progettato a Dornach, vicino a Basilea, da Rudolf Steiner. Altri precedenti potevano considerarsi i gruppi che univano danza-musica-architettura in sedi romite, come Hellerau, nei dintorni di Dresda, dove la forma umana era concepita organicamente fra mondo naturale e mondo artificiale, entro nuclei di piccole strutture abitative, in cui si praticavano tecniche artigianali come la terracotta e la sua decorazione, l’intaglio del legno, la tessitura di arazzi, e si facevano esercizi di danza euritmica all’aperto che completavano le attività manuali. (5).
La sacralità e ritualità del lavoro come forma di iniziazione spirituale (le fonti vere o proiettive erano la civiltà dell’antico Egitto, la Grecia classica, il Medioevo gotico) si contrapponevano alla civiltà delle macchine in un arcipelago si iniziative in cui si inscrissero infine la pittura e la scultura di gruppi di artisti come quelli della Brücke a Dresda (Ernst Ludwig Kirchner, Karl Schmidt-Rottluff, Eric Hekel, eccetera,) o del Blaue Reiter a Monaco (Vasilij Kandinskij, Franz Marc, Paul Klee, eccetera), estensori della tendenza a un’arte empatica, già manifestatasi nel contesto dell’Art Nouveau, derivante dai Preraffaelliti e dalla loro ripresa, a Vienna, per opera della Secessione.
Casa di favole
La guerra aveva imposto un blocco a tutte queste attività, ma non ne aveva abolito il senso, che anzi era rinato al suo termine come alternativa umana alle immani distruzioni che essa aveva prodotto. Per questo il primo Bauhaus di Weimar è detto il Bauhaus ‘espressionista’, e non a caso Gropius volle che fossero in esso operative tutte le energie artistiche e le tendenze suddette, con le loro varie pratiche e ideali, disciplinate in un iter di studi di sei anni, che iniziava con un corso propedeutico dai caratteri spiccatamente maieutici, tenuto da un artista ed esoterista di grande cultura e sensibilità nell’impiego del colore e di tutte le forme, Johannes Itten.
Ciascun allievo doveva essere messo in condizione di ‘trovare sé stesso’ attraverso esercizi di libero accostamento di colori e composizione dei materiali più vari, con una pluralità di stimoli che prevedeva il confronto fra le esperienze delle prime avanguardie novecentesche (l’espressionismo, ma anche il cubismo, il futurismo, il dadaismo e le varie tendenze astrattiste) e opere appartenenti all’arte gotica e rinascimentale.
Ogni dipinto, ogni forma, di qualunque epoca, costituiva un tipo di esperienza interiore da assimilare in modo meditativo, e magari da ‘rammemorare’ anche nel corso di sedute di esercizi ispirati allo yoga o di escursioni ideate per effettuare disegni a contatto con la natura. Itten, che spesso indossava abiti di foggia orientale (cinese o indiana) teneva le proprie lezioni, non nel corpo centrale della scuola, che era un edificio progettato da Henry van de Velde prima della guerra, ma nella Tempelherrenhaus, una sorta di quinta di cattedrale gotica progettata da Goethe nel 1816! Tout se tient … e persino il cibo era cucinato da alcuni allievi in base a una rigorosa dieta seguita dal cenacolo zoroastriano Mazdaznan, che sembrava riprendere, nello spirito, il famoso libro di versi di Goethe Divano occidentale-orientale (1819).
Quanto poi al seguito degli studi, si procedeva in modo sempre più specializzato, ma con una pluralità di indirizzi, apprendendo tecniche in laboratori di tessitura, decorazione, falegnameria, fonderia, stampa e vetreria, nei quali le forme ideate da un maestro d’arte erano messe a confronto con i mezzi e i materiali provvisti da un maestro di materia: ogni laboratorio presentava infatti una tale non sempre facile diarchia.
Nell’ultima parte degli studi iniziava il corso di ‘Costruzione’ (Bau-Engenieur Wissen), che però era correlato a tutte le altre tecniche già apprese, cosicché la competenza dall’aspirante Jungemeister era, alla fine, la progettazione di una casa dotata di tutto il necessario per ‘funzionare’: dai mobili ai decori, alle luci, alle suppellettili. Gropius decise, infatti, di tenere delle esposizioni periodiche in un’unità abitativa modello, che fu progettata da Georg Muche nei dintorni di Weimar (Haus am Horne, 1923), dei prototipi elaborati nei laboratori (straordinari risultano i primi mobili componibili e i pensili per la cucina), in modo da porli all’attenzione di imprenditori, dirigenti o tecnici d’azienda, che avrebbero potuto avviarli a produzione.
Il fine era di portare la ‘educazione estetica’ schilleriana nell’industria e l’industria nella ‘educazione estetica’: queste le polarità che dovevano concorrere alla costruzione della moderna Germania postbellica, facendone un modello per l’intero mondo occidentale.
«Tutti – ha scritto Magdalena Droste – si consideravano artisti interessati ad erigere, tramite il lavoro artigianale o l’insegnamento, la “cattedrale del futuro”»(6).
Gaia scienza
Dai 150 allievi degli inizi emersero personalità, come Gunta Stölzi e Marianne Brandt, destinate a esercitare a lungo un formidabile magistero, rispettivamente, nell’ambito tessitura (arazzi) e della metallurgia (suppellettili e servizi da tavolo vari) in concorso con personalità artistiche già affermate, quali Vasilij Kandinskij, Paul Klee, Lyonel Feininger, Oskar Schlemmer, Josef Albers e progettisti come Marcel Breuer.
Ma la forza della scuola era il collettivo, pur a volte caotico, e la capacità di vivere l’apprendimento e la produzione di modelli, come una ‘gaia scienza’ in cui tutte le forme si corrispondevano in una euritmia che univa, nell’oggetto-prodotto, l’astrazione mentale alla natura, le geometrie platoniche ai giocattoli in una stanza per bambini.
Venivano meno in essa tutti i luoghi comuni relativi alle arti e alla bellezza, ma anche quelli dell’artista maudit, autoesiliatosi contro tutto e tutti, in una sorta di ‘terza via’, che spiaceva alla destra, ai tradizionalisti, perché rendeva l’arte un strumento al servizio quotidiano della società, facendo dell’artista un ‘uomo della folla’ e un tecnico, ma che spiaceva anche alla sinistra estrema perché quel ruolo stesso lo portava a essere parte integrante del mondo capitalistico e del suo sistema di vita.
Non si dimentichi il senso di lutto diffuso fra i tedeschi per le vicende della guerra e il crollo del Reich – un sentimento che produsse in pochi anni un numero incredibile di suicidi – ma anche il senso di occasione mancata per i rivoluzionari di ispirazione sovietica del 1918-1919.
A entrambi la Repubblica aveva sottratto ragioni, ed essi non rinunciavano a fronteggiarsi nelle vie e nelle piazze di città grandi e piccole fra adunate, comizi e assassini politici (376 questi ultimi, fra il 1919 e il 1922, quasi tutti ascrivibili all’estrema destra). Ne fu vittima anche Walther Rathenau, che, da poco nominato ministro degli esteri, cadde sotto i colpi di un commando ultranazionalista.
Metamorfosi
Temibile, in termini di mezzi, era anche la destra istituzionale, e lo spostarsi, pur graduale, del baricentro politico nazionale, dall’iniziale consenso andato alla ‘Coalizione di Weimar’ – ossia SPD, Zentrum, DDP (7) -, a suo favore avrebbe comportato sempre gravi difficoltà per Gropius e il Bauhaus. Così quando il Land della Turingia, ove sorge Weimar, vide, nel 1924, il prevalere, nel parlamento regionale, del fronte composto da nazionalisti, radicali di destra e primi nazisti, si ebbe la forte riduzione dei finanziamenti pubblici concessi alla scuola e la minaccia di ‘licenziare’ Gropius. Il che, di là da una sempre inevitabile e prevedibile oscillazione politica, metteva in luce il vero problema, ovvero che a cinque anni dalla sua apertura, il Bauhaus mancava ancora di fonti di sostentamento proprie, fatta eccezione per l’aiuto generoso di alcuni industriali, come Adolf Sommerfeld, amici di Gropius (il quale era molto attivo, con un suo studio di architetto, anche a Berlino), frammisti a un azionariato di sostenitori, in certi casi semplicemente ‘elettivi’, tra cui figurava Albert Einstein.
La mancanza di fondi derivava dal non essere riusciti a entrare in rapporto di scambio effettivo col sistema produttivo. Pochissime, nonostante ci si rivolgesse a un mercato in gran parte regionale di piccole e medie industrie (ceramiche, tessuti, mobili, cesterie) erano state gli acquisti di modelli e brevetti. Rare le commissioni edilizie vere e proprie, basate solo su interventi di qualità, come per Casa Sommerfeld, progettata a Berlino da Gropius col socio architetto Adolf Meyer, per la cui realizzazione erano stati utilizzati i maestri e i laboratori del Bauhaus nella non vicina Weimar.
In termini di bilancio si può dire che il Bauhaus ‘espressionista’ fosse una sorta di sogno aurorale e crepuscolare: recava in sé gli impulsi alla costruzione di un cosmo di forme essenziali, ma vedeva quegli impulsi affievolirsi a contatto con la realtà. I suoi prodotti erano in legno, terracotta, tessuti, vetro e leghe metalliche leggere, come una specie di ‘carosello’ a contatto soltanto tangenziale con la materia. Troppo poco per stare al passo con i tempi. Ci voleva una svolta, che, in effetti, intervenne.
Spazio tecnico
La precarietà creatasi in Turingia portò infatti Gropius a cercare una alternativa altrove, ed egli la trovò nella cittadina industriale di Dessau, in Sassonia, dove il borgomastro gli offrì larghi finanziamenti per costruire un edificio polifunzionale e per realizzare, a Törten, un quartiere operaio.
Il cambiamento, a cominciare dal paesaggio (dalle colline di Weimar alla pianura sassone), fu radicale, e rifletteva, in certo modo, il mutamento del sistema produttivo in Germania e nell’intero mondo occidentale. La guerra aveva creato, infatti, una intensificazione di scambi fra gli stati alleati che, al suo termine, era stata estesa in senso globale (alla guerra mondiale era seguita una pace, o almeno una tregua, mondiale) con una rafforzata meccanizzazione dell’economia entro uno ‘spazio tecnico’ che prendeva progressivamente il posto dello ‘spazio terrestre’. L’industria ora non costituiva più solo un settore economico, ma un sistema prevalente che subordinava a sé ogni altro tipo di produzione. Bisognava quindi aumentare i rapporti del Bauhaus con la tecnica e le imprese, lasciare il medio livello produttivo della Turingia e muovere verso il grande mercato.
Gli ‘spiriti belli’, come Johannes Itten, restii a tale scelta, si erano dimessi dalla scuola.
Ma Gropius aveva creduto fermamente che quello fosse l’unico modo per dare un futuro al Bauhaus. Il sogno degli inizi doveva trasformarsi e misurarsi con le crisi economiche e politiche che, anche in Germania, si succedevano: erano gli anni dell’inflazione, degli scioperi, del nazionalismo rimontante per l’occupazione militare franco-belga della Ruhr (da cui trasse vantaggio l’estrema destra, che vedeva nel Bauhaus un avamposto «comunista» o della «congiura ebraica internazionale»: Hitler aveva tentato, a Monaco, il colpo di stato del 1923). A questi fatti egli contrappose un modo di pensare il ‘lavoro’ come forza formatrice e riformatrice ‘totale’ della società, come la ‘cattedrale’ umana nella quale l’arte e l’architettura dovevano divenire tutt’uno con la tecnica, essere un complesso operativo in atto all’interno del sistema produttivo.
Non era più questione di ‘educazione estetica’, o forse ancora sì, ma invertendo i mezzi e i fini. Il sogno di mantenere la tecnica come un pre-pensiero, capace di dar forma a materiali di mero supporto, diveniva quello di partire dai materiali industriali per far nascere da essi un confort umano e una valenza sociale (il che doveva avvenire nell’edilizia popolare e negli ambienti di lavoro, ma anche nell’universo delle infrastrutture, dei trasporti, dei consumi e nella forma di ogni merce), con un rapporto paritario fra invenzione e praticità. Questo poteva essere il metodo che consentiva di superare, in termini di fini, le contrapposizioni fra capitale e lavoro, economia e società, ma anche fra Germania e Europa: un umanesimo cioè dell’industria, capace di unire l’intera civiltà occidentale in un progresso qualitativo e quantitativo.
Oltre la linea
Ora, l’architettura è un pensiero senza fondamento, che deve però adattarsi a una situazione. Essa deve cioè autofondarsi funzionalmente in uno spazio reale, rendendolo umano, abitabile. Finché la terra le dà un fondamento, il suo rapporto con l’ambiente conserva un carattere mimetico e orientato, ma in uno ‘spazio tecnico’, che viene mosso totalmente dalla’ ‘forza-lavoro’, deve potersi centrare per intero su sé stessa.
Così mentre a Weimar veniva restaurata un’accademia di belle arti separata dalla scuola d’arte, Gropius aveva progettato, a Dessau, un edificio senza eguali, con una forma a bracci asimmetrici, ove le partizioni mobili degli spazi interni favorivano la multifocalità dei punti di vista, alludendo a una collettività in fieri, operosa e cooperante secondo diverse tecniche. La prevalenza del vetro dava l’impressione, inoltre, di un contatto permanente con l’esterno e di notte, grazie alla potente illuminazione era visibile da grande distanza. Anche Goethe aveva affermato:
«Ogni tendenza vitale […] si volge al mondo dall’interno all’esterno, come si vede nelle grandi epoche impegnate in uno sforzo di progresso, che ebbero tutte indole oggettiva» (8).
I laboratori, a Dessau, assumevano perciò la funzionalità di officine, e l’artista-artigiano diveniva, al loro interno, un operaio-costruttore in grado di utilizzare, insieme alle proprie competenze culturali, strumenti sofisticati e materiali di alta qualità. Inoltre, per dare il segno di un’effettiva coerenza e unificazione di forze, un edificio a più piani, attiguo al corpo di fabbrica principale, ospitava le residenze degli studenti, concepite come piccole unità abitative autosufficienti. Anche quelle dei maestri, non distanti, realizzate nello stesso stile, erano solo quantitativamente più spaziose. I lavori durarono per tutto il 1926. L’inaugurazione si tenne il 7 dicembre.
L’organizzazione della didattica e della progettazione subì diversi cambiamenti: fu fondata la sezione di Architettura, assegnata allo svizzero Hannes Meyer, destinata a costituire il centro direttivo dell’intero istituto. Mentre l’attività artistica si concentrava specialmente nel teatro, per il quale fu istituito un laboratorio, guidato da Oskar Schlemmer, che seguiva l’ideale wagneriano dell’«opera d’arte totale» riveduto e corretto. Gropius stesso vi partecipò con progetti per la costruzione di teatri polifunzionali (come quello destinato a Berlino, elaborato con Erwin Piscator). Venne potenziato, inoltre, il settore della stampa (con uno stile grafico altamente innovativo), che consentiva di dare risonanza a tutte le attività e pubblicare monografie ricche di riproduzioni: dal cubismo a Paul Klee, a Piet Mondrian, a Kazimir Malevic.
Metropolis
La denominazione era adesso: Hochschule für Gestaltung (Istituto superiore per la forma). Il punto di partenza di ogni progetto era infatti la ‘forma’, concepita in modo ‘esemplastico’ (gr. εἰς ἓν πλάττειν, dare forma conducendo all’uno), come principio analitico che assumeva gli elementi del mondo esterno al proprio interno onde dare a essi una plasticità essenziale d’impiego: FORMA = MATERIALE + VITA + FUNZIONE.
Ogni prodotto – indipendentemente dalle sue dimensioni esteriori – seguiva tale processo ‘formativo’ ed era il frutto di uno scambio continuo con l’universo industriale, rappresentato immaginativamente, come nel capolavoro di Fritz Lang del 1927, dalla ‘metropoli’ quale ‘spazio tecnico’ da ‘riformare’ nel suo stesso divenire (con una evidente eredità dell’orologio schilleriano da riparare senza fermarlo). Da questo orientamento nacque una linea disegnativa e progettuale che sviluppava le caratteristiche dei nuovi materiali (come i tubi di alluminio pieghevoli per le poltrone), di fatto convertendo i mezzi in fini.
Anche la fotografia, impiegata a Weimar solo per dare diffusione ai prototipi, divenne un linguaggio a sé stante. László Moholy-Nagy e la moglie Lucia, in particolare, la svilupparono per realizzare ‘montaggi’ che avrebbero creato uno stile destinato a essere un classico del XX secolo.
Nel secondo Bauhaus si accentuò dunque, in particolare, l’aderenza essenziale all’estetica dei materiali che la ricerca tecnica metteva di volta in volta a disposizione.
Ludwig Mies van der Rohe, destinato ad avere un ruolo direttivo nella scuola, diceva: «La tecnologia è molto di più che un metodo, essa costituisce di per sé un mondo»(9).
Coup de théâtre
Quanto restava dello spirito originario del Bauhaus? L’impulso vitale espressionista, ormai, non era più riconoscibile, se non per l’inclinazione a ideare continuamente iniziative e progetti e nel condurre esperimenti di vario registro estetico nei laboratori. Natura e artificio si mescolavano in essi in modo sempre più radicale. Il Balletto triadico (1926) ideato da Oskar Schlemmer, coi suoi protagonisti-oggetto geometrici e colorati, dava bene l’idea del mutamento antropologico in atto, che era comune all’intera civiltà occidentale. L’edificio di Dessau era inoltre meta di visite di personalità dell’arte, della progettazione e dell’industria provenienti da tutto il mondo, il che dava tangibilmente l’idea di un movimento continuo, che penetrava nell’indole degli stessi degli individui, divenendo una modalità di pensiero.
E il suo fondatore?
Gropius aveva indubbiamente un forte senso della realtà, che, nella vicenda del Bauhaus, e nel suo stesso lavoro creativo, era stato in grado di far coesistere con una concezione estetica schilleriana, basata su un forte individualismo. A Dessau aveva cercato di riformare pragmaticamente l’autonomia immaginativa che gli era cara, rinunciando agli estremismi, pur fertili, di un Johannes Itten, ma non aveva mai cessato di concepire l’architettura nella sua sovranità, proprio a contatto con lo ‘spazio tecnico’ e le esigenze sociali, cui aveva cercato di corrispondere nel sobborgo operaio di Törten.
Il salto di qualità, ma anche di quantità, compiuto dal Bauhaus (gli allievi erano adesso oltre 200) l’aveva sicuramente provato: aveva sempre dichiarato che la funzione di direttore gli assorbiva nove decimi delle energie psicofisiche. Si rendeva anche tacitamente conto che la produzione del Bauhaus avrebbe dovuto essere, per irreversibili ragioni economiche, di minor qualità estetica e di sempre maggior valore funzionale. Altre forti preoccupazioni gli venivano, poi, dal quadro politico nazionale.
I suoi patrocinatori erano nei partiti della ‘Coalizione di Weimar’, e per quanto l’assetto politico della nazione, pur spostatosi a destra (il maresciallo Paul von Hindenburg era stato eletto, nel 1925, Presidente della Repubblica al posto dello scomparso Friedrich Ebert), avesse mantenuto una stabilità al centro, favorita dalla ripresa economica di metà anni Venti, alla fine del decennio, a seguito di grandi vertenze sindacali, si stava verificando la ripresa dello scontro sociale. Formazioni paramilitari come le SA (Sturm Abteilungen), eredi dei ‘corpi franchi’, erano chiamate da molti imprenditori a reprimere le proteste operaie, mentre alle elezioni politiche federali del 1928, il partito comunista (KPD) avrebbe ottenuto oltre tre milioni di voti a danno dei socialdemocratici e dei centristi, costretti a formare governi con forze liberal-conservatrici.
All’interno del Bauhaus un orientamento di sinistra era assai diffuso sia fra gli studenti che fra gli insegnanti, alcuni dei quali erano anche iscritti al partito comunista. Nel Consiglio degli studenti quest’orientamento era addirittura prevalente.
Insomma, temendo che, per varie ragioni, la situazione potesse sfuggirgli di mano, all’inizio del 1928, fra lo sconforto e l’incredulità generali, Gropius si dimise dalla direzione. Si era adoprato però, in precedenza, per far nominare al suo posto Hannes Meyer, alla guida della sezione di Architettura, di orientamento culturale marxista, intenzionato a dare alla scuola un indirizzo «proletario e sociale», sostenuto da un forte tecnicismo, secondo il modello del Costruttivismo sovietico. Sarebbe toccato al nuovo direttore assumersi la responsabilità di dare un nuovo indirizzo alla scuola.
Politica & Impolitica
Meyer attuò una riduzione funzionalista della progettazione al fine di creare prototipi per serie a basso costo (favorì la creazione di mobili leggeri: tavoli e sedie ripiegabili, armadi su rotelle), e d’integrarsi con l’edilizia popolare e la politica sociale dei sindacati (realizzò, nei pressi di Berlino, la sede della scuola-quadri unificata, ADGB). Intendeva, a tale fine, eliminare ogni valore estetico dall’insegnamento stesso, a favore di analisi sociologiche e psicologiche delle forme, sviluppando il rapporto arte-scienza:
«È morta l’opera d’arte come “cosa in sé”, come “l’art pour l’art”: la nostra coscienza comunitaria non tollera alcun eccesso individualistico». (10)
Limitò così i laboratori artistici a uno soltanto, con compiti di decorazione e finitura domestiche. La sua direzione, a lungo caduta nell’oblio, è stata di recente (in parte) rivalutata, ma la visione politica che egli ebbe del Bauhaus, quasi come un faro rivoluzionario, soprattutto per la gioventù tedesca del tempo, l’indusse, al sopraggiungere della crisi economica del 1929 e dei suoi effetti sociali, a schierare l’istituto su posizioni filo-comuniste, finché il borgomastro di Dessau, sostenuto da maestri come Josef Albers e Vasilij Kandinskij (molto avverso al KPD), l’indusse, nell’estate del 1930, a rassegnare le dimissioni. Il suo credo politico lo avrebbe presto portato a trasferirsi nell’Unione Sovietica.
Al suo posto, con l’avallo di Gropius, fu nominato Ludwig Mies van der Rohe, personalità carismatica (era stato anch’egli allievo di Peter Behrens), il quale giocò la carta d’un tecnicismo ‘impolitico’, ispirato a un ideale architettonico puro, di cui aveva dato un saggio nel Padiglione tedesco all’Esposizione universale di Barcellona nel 1929, e, in precedenza, in progetti come la Weißenhofsiedlung (1927-1928) a Stoccarda.
In certo senso egli condivideva la riduzione morfologica perorata da Hannes Meyer, ma aveva la capacità di applicare il principio ‘il meno è più’, un motto dall’origine curiosamente preraffaellita (si trova in una poesia di Robert Browning), per realizzare, dall’edificio all’oggetto, forme di straordinaria eleganza, che esaltano la natura essenziale dei materiali di cui sono composte. Oltre alle opere già citate, aveva progettato, negli anni Venti, formidabili grattacieli in cristallo, e avrebbe in seguito realizzato, a Berlino, in una sorta di ripresa dei passages parigini dell’Ottocento, grandi ambienti pubblici con mobili divisorie, per accogliere, entro un unico spazio, caffè e negozi.
Pur con simpatie giovanili per la sinistra (aveva realizzato nella capitale il monumento alla memoria di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg) era il miglior esponente di un mondo industriale avanzato: una sorta di instancabile operaio della mente, capace di valutare con esattezza tutti gli aspetti pratici di un progetto, e di insegnare ai giovani senza seguire una teoria, con un definitivo passaggio senza pentimenti, nello ‘spazio tecnico’. Diceva: «L’architettura è la volontà dell’epoca tradotta nello spazio». (11).
Consapevole che il Bauhaus era da sempre nel mirino della propaganda nazista, cambiò gli statuti della scuola per limitare i poteri del Consiglio degli studenti, e decise anche alcune espulsioni di militanti comunisti. Impose, inoltre, che la progettazione architettonica fosse al principio d’ogni commissione assunta nel Bauhaus (non voleva vi fossero attività nei laboratori fuori del suo controllo) e incrementò la grafica pubblicitaria anche per aumentare la conoscenza dei prodotti presso il pubblico. Ridusse, infine, a tre anni il corso di studi, intensificando i tempi di apprendimento. I circa 200 studenti dovevano costituire un’agguerrita élite operante senza ideologie, così da dimostrare che il Bauhaus costituiva una risorsa per l’intera nazione.
Sipario
Il bilancio dell’istituto tuttavia non migliorò. Il finanziamento pubblico si era di nuovo assottigliato e, per evitare futuri contraccolpi politici, Mies avrebbe voluto rinunciarvi, ricorrendo solo alle rette degli studenti, ai brevetti e a investimenti di privati. In modo spregiudicato fece anche raggiungere da intermediari alcuni intellettuali schierati a destra sperando di evidenziare le prerogative tecniche che il grande edificio di Dessau poteva mettere a disposizione di qualunque governo. Non vi riuscì: e le elezioni in Sassonia, nell’ottobre 1931, videro la affermazione del partito nazista, i cui dirigenti manovrarono in modo da giungere, nel settembre 1932, alla chiusura del Bauhaus: l’atto era un punto qualificante del loro programma. Ludwig Mies van de Rohe non poté far altro che trasferire l’istituto a Berlino-Steglitz in una ex fabbrica di telefoni. Le fotografie degli studenti in quella sede hanno qualcosa di surreale, come di profughi.
Il peggio però doveva ancora venire. L’incapacità di governi di coalizione sempre più ibridi a fronteggiare la crisi economica e la crescente disoccupazione (sei milioni nel 1932 i senza lavoro) consentirono a Hitler di ottenere, alle elezioni federali del marzo 1933, la maggioranza relativa dei voti (37 per cento). Ormai l’intera nazione subiva la propaganda e la violenza naziste. Alla vigilia delle elezioni, il 27 febbraio, si era avuto inoltre l’incendio del Reichstag, attribuito subito a un giovane comunista (ma i cui mandanti erano stati Hermann Göring e Joseph Goebbels). Nominato Cancelliere, Hitler fece approvare dal governo una serie di inchieste giudiziarie sui luoghi nei quali avevano operato ‘cellule comuniste’. Il Bauhaus di Dessau figurava fra questi.
Il 12 aprile un giornale berlinese pubblicava: «Per ordine del magistrato inquirente di Dessau è stata compiuta ieri pomeriggio una operazione di polizia nella sede del Bauhaus». Furono trovati materiali di propaganda comunista. Seguì la chiusura. L’ombra nazista aveva minacciato il Bauhaus e gli ideali riformisti della Germania di Weimar fin dagli inizi. In breve leggi liberticide per garantire la sicurezza dello Stato misero fuori legge tutti partiti politici, tranne la NSDAP (12). Morto, nel 1934, il maresciallo Paul von Hindenburg, Adolf Hitler assunse i pieni poteri come Führer del III Reich.
Ma l’atto finale del Bauhaus si era già avuto nel luglio 1933. Riunito da Mies il consiglio di direzione, si era giunti a votare all’unanimità la chiusura: le condizioni economiche, logistiche, ma soprattutto politiche, non consentivano di proseguire (nello stesso anno fu demolito dai nazisti il monumento di Mies a Liebknecht e alla Luxemburg). Falliva, con la Repubblica di Weimar, la costruzione della ‘cattedrale’ vagheggiata agli inizi da Gropius come «architettura totale», anche nelle sue varie riforme.
La diaspora dopo l’ascesa al potere del nazionalsocialismo
In Germania, le strade dei maestri si divisero, molti si diedero a un’anonima attività professionale. Vasilij Kandinskij andò in Francia, Paul Klee tornò nella nativa Svizzera.
Hannes Meyer si era già stabilito, lo si è in precedenza ricordato, in Unione Sovietica.
László Moholy-Nagy e Breuer si sarebbero trasferiti in Inghilterra, poi negli Stati Uniti, seguiti, nel 1937, da Ludwig Mies van der Rohe e da Walter Gropius: tutti vi trovarono fortuna, prestigio, discepoli e mezzi per proseguire nel loro lavoro. Moholy-Nagy fondò a Chicago il New Bauhaus del design.
La perdita per la Germania e per l’Europa fu solo momentanea. Nel Bauhaus si era creato un modello operativo irrevocabile, che appare oggi persino una sorta di ‘rivoluzione conservatrice’, non in termini ideologici, ma pratici nel contesto della modernità.
La fusione fra le belle arti e quelle applicate e il nesso con mezzi tecnici sempre più sofisticati non sarebbero più stati reversibili: in questo si può dire che Gropius avesse conseguito un successo ‘tedesco universale’.
Ciò che mancò negli anni Venti fu, in realtà, il confronto forze politiche diverse dalla sinistra, ma estranee al nazismo, come i Giovani conservatori (13), forze che avrebbero potuto ricevere dal Bauhaus una strategia operativa per il presente e influire, in prospettiva futura, sullo sviluppo della tecnica in senso più umanistico e ragionevole.
Il saggio L’operaio di Ernst Jünger apparve nel 1932, troppo tardi o forse troppo presto per avviare quel confronto. Ma chiunque si riferisca oggi al Bauhaus dovrebbe tenerlo presente, poiché vi si scopre che la tecnica non è qualcosa di indipendente dalle vicende umane, ma un soggetto dotato di una storia, un ‘personaggio’ che può produrre esiti opposti, e magari trasformare, nottetempo, lo ‘spazio tecnico’ in uno ‘spazio igienico’.
Essa va dunque ‘riformata’ di continuo e con ogni cura, rispettando le differenze, le opposizioni, la pluralità dell’Essere in ogni sua espressione. Il nazismo è la potenza tecnica elevata a morale sotto qualsiasi bandiera si presenti.
La casa del futuro
Quando Gropius giunse negli Stati Uniti e vi si stabilì con la seconda moglie, e la figlia che ne aveva avuta, volle progettare e far subito costruire la propria casa. Lo fece a Lincoln, nel New England. Forse, in quel momento, si era reso conto che la «architettura totale», la ‘cattedrale’, poteva avere quella dimensione anche in uno ‘spazio tecnico’ planetario, che la massima estensione di ogni ‘metro’ può avere un rientro nella sfera umana: lo standard, se non è un letto di Procuste, cioè un mezzo e non un fine, è proprio questo. La terra si scopre allora un fondamento adatto anche alle forme pure, che hanno sempre una storia e che, su di essa, si uniscono a altre storie. L’identità non è un fatto di natura, ma un atto intellettuale, e perciò libero.
Il tedesco Gropius costruì la casa del (proprio) futuro con la tecnica del Bauhaus unita alla memoria dell’architettura del New England. Il lontano e il vicino prendevano forma dalla sua persona. Forse si ricordò, lui in realtà romantico nel profondo, di quel passo epistolare in cui Friedrich Hölderlin afferma:
«la luce filosofica intorno alla mia finestra è ora la mia gioia, che io possa sempre ricordare come sono giunto fin qui».
Note al testo
[1]Friedrich Schiller, Über die äesthetische Erziehung des Menschen in einer Reyhe von Briefen, Tübingen, Cotta, 1795. Oggi nell’edizione critica: Schillers Briefe über die ästhetische Erziehung / Hrsg. von Jürgen Bolten, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984, 354 p. Traduzione italiana: Educazione estetica, a cura di Antimo Negri, Roma, Armando, 1976, 310 p. [si vedano in particolare le pp. 117-132 passim].
(2) Johann Wolfgang von Goethe, Von deutscher Baukunst (1772), stampato come volantino a Francoforte, ripubblicato in Über Kunst und Altertum, IV (3), 1824. Traduzione italiana: “Dell’architettura tedesca”, in Id., Scritti sull’arte e la letteratura, a cura di Stefano Zecchi, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 278 p. [31-38- Il passo citato è a p. 31].
(3) Walter Gropius, Scope of Total Architecture, Harper&Brothers, New York 1955, 185 p. Traduzione italiana di Guido Alberti: Per una architettura totale, Milano, Abscondita, 2007, 188 p. [il passo citato è a p. 28).
(4) Walter Gropius, Manifesto del Bauhaus, 1919, cfr. infra nota 6.
(5) Harry Francis Malgrave, Architecture and Embodiment. The Implication of the New Sciences and Humanities for Design Architecture, London, Routledge, 2013, 224 p.. Traduzione italiana: L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Milano, Raffaello Cortina, 2015, 278 p [si vedano in particolare le pp. 3-10].
(6) Magdalena Droste, Bauhaus. Bauhaus Archiv. 1919-1933, Köln, Bnwedikt Taschen, 1990, 256 p. Traduzione italiana: Bauhaus. Bauhaus Archiv. 1919-1933, Köln, Benedikt Taschen, 2003, 256 p. [il passo citato è a p. 22. Il Manifesto del Bauhaus si trova a p. 18].
(7) SPD Sozialdemokratische Partei Deutschlands (partito socialdemocratico), Zentrum (raggruppamento di cattolici democratici), DDP Deutsche Demokratische Partei (formazione di centro centrosinistra di matrice liberale); cfr. Gustavo Corni, Storia della Germania. Da Bismarck alla riunificazione, 1871-1990, Milano, il Saggiatore, 1995, 478 p. Seconda edizione 1999, 489 p. [in particolare si vedano le pp. 157-219].
(8) Cfr. Robert Hughes, The Culture of Compliant. The Fraying of America, Oxford, Oxford University Press, 1993, 223 p.. Traduzione italiana La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Milano, Adelphi, 1994, 242 p. [il passo di Goethe è citato è alla p. 22].
(9) Cfr. infra, nota 11.
(10) Hannes Meyer, “Il mondo nuovo” (1926), in Tomás Maldonado (a cura di), Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, Milano, Feltrinelli, 1979, 309 p. [il passo citato è a p. 279].
(11) Ludwig Mies van der Rohe, “Meno è di più”, motto citato in Lezioni di Architettura e Design, n. 13, Milano RCS Media-Group, 2016, 143 p. [p. 25].
(12) National-sozialistische deutsche Arbeiterpartei.
(13) Armin Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932. Ein Handbuch, Darmstadt, Wissenschafliches Buchgesellschaft 1972, XXX-554 p. Traduzione italiana, La rivoluzione conservatrice in Germania. Una guida. A cura di Luciano Arcella, Napoli – Firenze, Akropolis- La roccia di Erec, 1990, 182 p. [si vedano in particolare le pp. 152-155).
(14) Citato in Martin Heidegger, Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann, 1950, 345 p. Traduzione italiana: Sentieri interrotti, a cura di Pietro Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968, XI-355 p. [il passo citato è a p. 251).