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Democrazia Futura. Iran e Arabia Saudita: fine della guerra o semplice “decongestione”?

Riccardo Cristiano

Riccardo Cristiano, giornalista e scrittore, ripercorre per Democrazia futura la storia dei due grandi Paesi islamici medio- orientali, l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita, dopo l’annuncio a Pechino del ristabilimento delle loro relazioni diplomatiche chiedendosi se si tratti della “fine della guerra o [di una] semplice decongestione?” analizzando – come recita l’occhiello – “I nuovi assetti geopolitici in Medio Oriente dopo l’offensiva diplomatica vincente della Cina”. Questo mini saggio ripercorre l’ultimo mezzo secolo dal golpe di Khomeini in Iran ai tentativi falliti di riforma dell’Islam da parte sia sunnita sia sciita, all’esportazione della rivoluzione iraniana. “Tutto questo – chiarisce Riccardo Cristiano – ha reso il conflitto “imperiale”, religioso ed esistenziale per Riyadh, un conflitto facilmente presentabile sotto vesti religiose, tra sunniti e sciiti, o un conflitto politico, tra filo-americani sauditi e antagonisti anti-occidentali guidati da Tehran, o una riproposizione del vecchio astio tra persiani e arabi, o altro ancora. Si spiega così che i conflitti in tutti i Paesi indicati sono diventati parti di un grande conflitto esistenziale, capace di ridurre tutti questi Paesi a Stati falliti, quali sono tanto l’Iraq che la Siria che il Libano che lo Yemen”.

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Per porre termine a un conflitto feroce e complesso come quello tra Iran e Arabia Saudita non basta la volontà, occorrono anche, se non soprattutto, garanzie. Vince chi può rassicurare, offrire garanzie a entrambe le parti. Per questo, nel negoziato tra sauditi e iraniani che ha portato le parti a riallacciare le relazioni diplomatiche, tra i due Paesi la Cina può dire aver vinto, nonostante sia sopraggiunta solo alla fine. Chi altri avrebbe potuto offrire garanzie a entrambi i contendenti? Ma qual era, o è, l’oggetto della contesa? Bisogna partire da qui, per capire la difficoltà, le implicazioni e l’importanza di poter rassicurare entrambi.

La storia dell’Arabia Saudita e dell’Iran; unificazione dei Saud della penisola arabica e alleanza con il sunnismo radicale, islamizzazione dell’antica Persia, ma con l’altro Islam

La storia dell’Arabia saudita è abbastanza recente e lineare: è la storia dell’unificazione di quasi tutta la penisola arabica, a danno delle altre tribù, sotto il governo della tribù dei Saud, che legittimarono la loro impresa militare alleandosi con i seguaci di un predicatore del sunnismo radicale (i wahhabiti), puritani combattuti come la peste dagli ottomani per la loro visione letteralista, per la quale la legge islamica va applicata così come mille anni fa.

Assai più complesso il discorso sul millenario Iran, erede dell’antica Persia, divenuta dopo l’islamizzazione uno Stato dove l’altra famiglia islamica, lo sciismo, è religione di Stato.

I rapporti tra sunniti e sciiti potrebbero essere capiti come quelli tra cattolici e protestanti di secoli fa.

Il golpe riuscito di Ruhollah Khomeini

L’Iran contemporaneo nasce con il rovesciamento del regime dello scià, ma non è corretto pensare che l’attuale forma della Repubblica islamica sia stata realmente scelta dalla rivoluzione iraniana. All’apparenza è così, ma a me sembra che all’origine dell’odierno sistema vi sia “un golpe”, quello che realizzò Ruhollah Khomeini con la cattura degli ostaggi all’ambasciata americana. E’ stato proprio un golpe, sebbene ratificato ex-post da un plebiscitario esito referendario. Dunque per parlare dell’Iran occorre partire da lui, da Ruhollah Khomeini, e da una rivoluzione pluralista. Tentiamo una sommaria ricostruzione degli accadimenti.

Leader forte, Khomeini seppe vedere ai tempi dello scià la linea di faglia tra una società arretrata e attaccata alle sue tradizioni e un regime, quello dello scià, che riduceva la modernizzazione a un’occidentalizzazione autoritaria, coloniale. In quella società ferita da povertà estrema e analfabetismo diffuso, la modernizzazione dello scià era percepita come un fatto attento agli interessi dell’élite e senza radici, quindi rifiutata dal popolo. Per questo Khomeini, sottoposto a confino nella città santa Qom e successivamente all’esilio, ha saputo sempre simboleggiare la resistenza a un potere vessatorio prima, la scelta rivoluzionaria poi.

Ma questa rivoluzione era plurale, vi partecipavano molti gruppi e tendenze, soprattutto direi quelle marxista, islamo-riformatrice e liberale, che erano state tenute insieme soprattutto dai riformatori dell’islam. Tra questi spiccano due figure. Mehdi Barzagan è la prima, visto che fu nominato primo ministro subito dopo la cacciata dello scià e che si dimise qualche mese dopo, quando scoppiò la crisi degli ostaggi statunitensi, prima che Khomeini imponesse la svolta teocratica con il varo della nuova Costituzione. Accanto a lui spiccava il giovane ideologo della rivoluzione, Ali Shariati (1933-1977), fuggito dall’Iran dopo essere stato arrestato per la sua attività politica, i cui ritratti erano i soli che ondeggiavano insieme a quelli di Khomeini nei cortei rivoluzionari. Fu il padre di una teologia della liberazione islamica, basata su un pensiero ibrido, che aveva elaborato negli anni della formazione a Parigi con i suoi amici Jean-Paul Sartre, Frantz Fanon, Albert Camus e soprattutto l’islamologo cattolico Louis Massignon. Shariati, rigorosamente vestito in giacca e cravatta, incarnava quel pensiero ibrido che unì le diverse anime della rivoluzione.

Da rivoluzione multicromatica a tetra gabbia teocratica

Dunque una rivoluzione multicromatica, trasformata in una tetra gabbia teocratica quando ebbe luogo il golpe. Dico golpe perché il capo del governo provvisorio, Mehdi Bazargan, l’uomo che aveva guidato il Paese al referendum che scelse la “repubblica islamica” pensando ad un islam democratico, pluralista, dopo la cattura di quegli ostaggi si dimise.

Quando gli estremisti khomeinisti, il 4 novembre del 1979, catturarono gli ostaggi nell’ambasciata americana, Barzagan capì immediatamente il senso di quell’azione e infatti rapidamente ne trasse le necessarie conseguenze. Il suo vice e il ministro degli esteri, liberale, lo seguirono nell’irreversibilità della decisione, prima di trovarsi in guai anche giudiziari. Di lì a breve Khomeini annunciò la nuova costituzione, basata sull’interpretazione khomeinista del “governo del giureconsulto” (velayat-e-faqih), un sistema che poneva tutto il potere nelle mani dello stesso Khomeini, quale guida della rivoluzione, e del clero sciita, definito da Shariati una “classe di impostori, autonominatasi intermediaria tra il popolo e Dio”. L’impalcatura democratica, con voto a suffragio universale per l’elezione del Parlamento e del Presidente della Repubblica, è stata sottoposta a un insieme di Consigli clericali che da allora la Guida, selezionano i candidabili e soprattutto decidono senza possibile appello chi non può, pur volendolo, candidarsi. L’islam di Mehdi Bazargan era tutt’altro e il titolo di un suo libro spiega quanto la sua visione si basasse sul pluralismo e quindi sul dialogo; il volume si intitola infatti “E Gesù è il suo profeta”

Il fallimento dei tentativi di riforma dell’Islam da parte sia sunnita sia sciita

Questa premessa era fondamentale per introdurre il tema del fallimento della riforma dell’islam, riforma che la storia ha dimostrato molto spesso decisiva per un sano rapporto con la modernità. Questa riforma è stata tentata tra gli sciiti come tra i sunniti, ma i riformisti appaiono tra le principali vittime in entrambi i campi.

Nel campo sciita abbiamo avuto i riformisti guidati dall’ex presidente Mohammad Khatami, che hanno fallito perché nonostante il consenso popolare conseguito da Khatami e nel 2009 da Mir-Hosein Moussavi (sconfitto con i brogli dal sistema che fece rieleggere il falco Mamūd Ahmadinejad) hanno per l’opinione pubblica dimostrato la non riformabilità del sistema, giunto alla feroce repressione di questi ultimi mesi della protesta “donna, vita, libertà”.

Nel campo sunnita il segno di una percorribile riforma “politica” è venuto dal Libano del sunnita Rafiq Hariri, ucciso – stando alla sentenza del Tribunale Internazionale per il Libano- da sicari del braccio militare dei khomeinisti di Hezbollah.

Ora abbiamo un nuovo segno di riforma che viene dal campo propriamente teologico, con la firma del Documento sulla fratellanza umana da parte di papa Francesco e dell’imam dell’Università islamica di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb. Questo cammino sarà lungo e complesso, mentre l’eliminazione dei politici moderati ha riguardato anche altri Paesi, e si spiega ponendosi una semplice domanda: se si eliminano i moderati chi resta?

Così il fallimento sunnita ha un duplice volto: quello laico, venato di panarabismo (è la storia di Egitto, Algeria, Libia, Iraq, Siria) e quello religioso, venato di panislamismo, dei petromonarchi del Golfo, entrambi sfociati in confliggenti totalitarismi.

L’esportazione della rivoluzione iraniana

L’ulteriore variante che ha aggravato il quadro politico mediorientale è stata l’esportazione della rivoluzione iraniana. Cosa vuol dire “esportazione”? Scriveva già nel 1982 Ryszard Kapuscinki che

 l’obiettivo di Khomeini “esulava dai confini dell’Iran. Si reputava infatti chiamato da Dio alla missione di fare della repubblica iraniana un potente centro religioso destinato a porsi come guida di tutto il mondo islamico. Khomeini quindi non si considerava soltanto il capo della repubblica islamica in Iran, bensì anche un profeta, a cui era assegnato il ruolo di levatore della gloriosa rinascita dell’islam e quindi della sua vittoria planetaria”.

Senza poter qui entrare nel discorso teologico sulle differenze tra sunniti e sciiti, possiamo dire che la teocrazia khomeinista, in politica internazionale, sta in tre fatti di cui solo l’ultimo ha un segno chiaro. Il primo è stato l’assalto terroristico del 20 settembre 1979, quindi all’alba dell’epoca khomeinista, contro la moschea de La Mecca, il luogo dei luoghi per tutti i musulmani. I sauditi dovettero accettare corpi speciali occidentali (non musulmani) per avere ragione dei terroristi e liberare la grande moschea. Nessuno può collegare quell’incredibile azione a Khomeini o all’Iran, ma Gilles Kepel ne è convinto, sulla base di una oscura indicazione dell’Imam – il suo oscuro riferimento ad un incredibile e imminente evento che avrebbe modificato la storia islamica- che Kepel ritiene indicasse proprio quella azione, pur non esistendone prove.

Il secondo elemento è stata la guerra, scatenata in realtà contro l’Iran dalla Prussia laica del mondo arabo-sunnita, l’Iraq, poi trasformatasi in una guerra sanguinosa e sanguinaria di anni. Le ragioni per cui Saddam Hussein attaccò, ritenendo di dover per questo essere ripagato dai monarchi del Golfo, non sono state mai chiarite fino in fondo al di là delle dispute di confine tra i due Paesi, ma certo cominciò nel settembre 1980.

E siamo al terzo elemento, quello trasparente: la fatwa contro Salman Rushdie, a tutti nota, è del 14 febbraio del 1989, il giorno prima del simbolico completamento del ritiro sovietico dall’Afghanistan. E’ ancora una volta Kepel ad aprirci gli occhi, sostenendo che in questo modo Khomeini ha sottratto il vessillo della vittoria islamista ai mujaheddin afghani e ai loro sponsor sauditi, facendo della sua rivoluzione la visibile e arrembante anima rivoluzionaria mondiale, islamista.

Alla luce di questo possiamo capire l’esportazione della rivoluzione khomeinista in tante luci:

  1. esportazione del conflitto dai propri territori in quelli altrui,
  2. conquista dell’islam inteso come spazio (di qui i conflitti in Iraq, Siria Libano, Yemen) da sottoporre alla sua guida teocratica,
  3. sostituzione dell’Arabia Saudita, e del suo puritanesimo, come paese-guida del mondo islamico,
  4. vendetta storica contro Alessandro Magno che aveva imposto i confini dell’Iran in Mesopotamia
  5. ricostituzione dell’impero persiano da Tehran al Mediterraneo.

Tutto questo ha reso il conflitto “imperiale”, religioso ed esistenziale per Riyadh, un conflitto facilmente presentabile sotto vesti religiose, tra sunniti e sciiti, o un conflitto politico, tra filo-americani sauditi e antagonisti anti-occidentali guidati da Tehran, o una riproposizione del vecchio astio tra persiani e arabi, o altro ancora.

Si spiega così che i conflitti in tutti i Paesi indicati sono diventati parti di un grande conflitto esistenziale, capace di ridurre tutti questi Paesi a Stati falliti, quali sono tanto l’Iraq che la Siria che il Libano che lo Yemen.

Le milizie sciite sono a noi meno conosciute, tranne Hezbollah, che ne è un po’ il raccordo tra di loro e con i pasdaran, i “guardiani della rivoluzione” che esercitano un enorme potere economico e repressivo in patria e di trasformazione delle comunità sciite arabe in comunità milizianizzate all’estero.

Nella guerra i sauditi si sono appoggiati a opposti e diversi estremismi, animati comunque da odio verso gli sciiti.

Ne sono nati due islam opposti ma analoghi, che hanno dilapidato le casse di Iran e Arabia Saudita per decenni, lasciando macerie ovunque. Una distruzione che è impressionante soprattutto per la simultanea organizzazione dei miliziani khomeinisti in tutti questi territori.

Il ristabilimento a Pechino delle relazioni diplomatiche fra sauditi e iraniani

Quando il 10 marzo di questo 2023, sauditi e iraniani hanno deciso di ristabilire le loro relazioni diplomatiche, indicando quale unica clausola il “rispetto della sovranità degli Stati”, si sono impegnati a riaprire entro due mesi le rispettive ambasciate, chiuse dal 2016, in seguito all’esecuzione della pena capitale inflitta da Riyadh al leader sciita Nimr al Nimr e lo hanno fatto a Pechino. Questo ha avuto particolare risalto per l’importanza della scelta politico diplomatica di andare a firmare proprio a casa del presidente Xi Jinping.

Si è aperta l’era cinese? Pechino è il primo partner commerciale dei sauditi e il principale acquirente del greggio dell’Iran, che dal 2021 ha un accordo di cooperazione venticinquennale con la Cina dei cui contenuti poco si sa.

Ora il peso cinese è anche diplomatico, non solo commerciale, è evidente.

Vanno aggiunte due osservazioni: Pechino avrà certamente offerto garanzie di sicurezza a entrambi i contraenti e questo ne aumenta il peso politico. Questo non vuol dire che oggi Riyadh sia passata nel campo cinese contro gli Stati Uniti. I rapporti si sono fatti difficili da tempo, ma io credo che valga per loro quanto disse anni fa il defunto ministro esteri saudita, Faysal Ibn Saud, per il quale quello tra il suo paese e gli Stati Uniti era un matrimonio sì, ma non cristiano, bensì musulmano, che consente di avere quattro mogli non una soltanto. Ecco, in termini politici il desiderio di “mani libere”, o di diversi legami, si realizza, anche per le scelte compiute dalla Washington di Barack Obama e Joe Biden.

Fine della guerra militare per la conquista dell’Islam o semplice “decongestione”?

L’accordo è molto importante non solo perché consentirà a sauditi e iraniani di parlarsi regolarmente, ma anche per la clausola citata: si intende porre termine alla guerra militare per la conquista dell’islam? Questo implicherebbe il riferimento al rispetto della sovranità degli Stati, visto che quelli a cui si riferiscono sono divisi sull’unico discrimine politico esistente, quello che oppone i filo iraniani ai filo sauditi. Un rispetto dell’altrui sovranità intesa in senso diverso non è nei loro parametri.

Dunque se il meccanismo funzionerà finirà la guerra mondiale per la conquista militare dell’islam? Questo non potrebbe accadere da un giorno all’altro, perché il protagonista indiscusso dell’esportazione della rivoluzione, il corpo militare creato da Khomeini, i pasdaran, oggi è una potenza militare ed economica a livello nazionale e regionale, che coordina gran parte di questa  “esportazione” dalle coste del Mediterraneo, dal quartier generale della più grande creazione iraniana all’estero, Hezbollah, un altro potere non solo libanese, ma regionale e transcontinentale: dunque Hezbollah sarà chiamato a ripensare profondamente le sue azioni in Libano e all’estero?

E’ in questo limitato senso che il rispetto della sovranità degli Stati potrebbe diventare col tempo realtà: si potrebbe vedere la fine delle irruzioni miliziane dei pasdaran? Può darsi, ma non possiamo pensare a un improvviso rispetto delle varie “sovranità” come noi intendiamo l’espressione, bensì nel senso di una progressiva ricerca di un “vicendevole consenso” saudita e iraniano sugli equilibri politici futuri. Chiamiamola “decongestione”. E’ il punto decisivo da affrontare, dopo aver visto i motivi di fondo della scelta.

Iran: uscire dall’isolamento internazionale, Arabia Saudita: porre fine alla guerra in Yemen

Premesso che entrambi si sono dissanguati in tutti questi conflitti, si può dire che la rivolta “donna, vita, libertà” ha imposto a Tehran di uscire dall’isolamento internazionale e di dimostrare agli iraniani, che hanno scelto in larghissima parte di rivendicare il “cambio di regime”, non credendo più nella possibilità di una sua riforma dopo tanti fallimenti, di essere ancora in grado di farsi valere, di avere credibilità e peso internazionale. Un documento filtrato dagli uffici della guida della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei, indicherebbe che molti alti gradi dei pasdaran gli avrebbero espresso, in un incontro segreto, defezioni e dissensi per la ferocia della repressione interna. Un elemento che non può essere ritenuto certissimo, ma molto probabile e importante.

Per Riyadh invece si trattava di arrestare un conflitto che nei vari scenari -Iraq, Siria, Libano, Yemen – costava sempre di più e andava di male in peggio. L’obiettivo di Riyadh è spostare risorse dal fronte bellico alla costruzione di un’economia post-idrocarburi. Questo diverrebbe possibile soprattutto se si avviasse un vero negoziato per porre fine alla guerra in Yemen, in modo che un governo accettabile a Cina, Iran e Arabia Saudita possa garantire a tutti e tre l’importantissima via commerciale verso il Corno d’Africa. L’invito rivolto dal governo saudita al presidente iraniano a recarsi a Riyadh, accolto da Ebrahim Raisi, insieme al già programmato incontro diretto tra i due ministri degli esteri sono novità di tutto rispetto, perché più che a conoscersi dovrebbero evidentemente avviare un processo: partendo dal reciproco astio e da una profonda sfiducia si potrà cercare il citato decongestionamento.

Verso la riammissione della Siria nella Lega Araba. La riabilitazione di Bashar al-Assad

Il secondo passo lo ha compiuto sempre Riyadh, annunciando la riapertura degli uffici consolari in Siria. Siamo alle viste dell’imminente vertice della Lega Araba e per l’espulso Bashar al-Assad sembra confermata la via della riammissione tra i “fratelli arabi”.

Uno dei nodi più sanguinosi va sciogliendosi, il regime accusato di crimini contro l’umanità e avversato con ogni strumento dai sauditi dal 2011 per la sua vicinanza a Tehran sta per essere riabilitato, nonostante i suoi gravissimi crimini, passati in verità inosservati anche dal Tribunale Penale Internazionale. In cambio di cosa agirebbe così Riyadh non è dato sapere, ma è facile supporlo: contratti, per la ricostruzione e per il transito delle materie prime saudite, cautela con Hezbollah.

L’avvitamento del Libano verso il precipizio

Inoltre si può supporre la richiesta saudita di qualche “riequilibrio” in Libano, che almeno formalmente esiste ancora. Difficilissimo, certo, soprattutto perché urgente: nel 2020 un dollaro valeva 1.500 lire libanesi, oggi nel vale 110 mila, ma gli stipendi sono pagati secondo il cambio interbancario, fissato a 15 mila lire libanesi per un dollaro. Con la Siria e in particolare con la IV divisione dell’Esercito Arabo siriano, guidata da Maher al-Assad e responsabile della produzione di captagon, ciò che resta del Libano, sotto il controllo di Hezbollah, è diventato il più grande produttore-venditore globale di captagon, un autentico narco-stato dai confini ibridi, incerti.

Questo risultato è un prodotto condiviso dai due schieramenti locali, uniti in una politica di rapina che ha pochi pari al mondo. Ma certamente la scelta del governo a trazione-Hezbollah di dichiarare default in segno di sfida al Fondo Monetario Internazionale ha prodotto un avvitamento del precipizio-Libano. Ora però Hezbollah e i suoi alleati nel campo cristiano hanno perso la maggioranza parlamentare richiesta, i due terzi, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Così questa vacanza presidenziale, che il Parlamento non riesce ad eleggere da ottobre del 2022, lascia il Libano senza un governo nella pienezza dei suoi poteri. Teheran inviterà Hezbollah a modificare sistemi e obiettivi? Si salverà il Libano dal collasso anche istituzionale con l’elezione di un Presidente di mediazione tra le parti? orse il vero senso del lancio di razzi dal Sud del Libano verso Israele è stato questo: il sistema miliziani filo iraniano in Libano non è oggetto di negoziati.

Altrettanto complesso è il quadro iracheno, dove il “sovranista” Moqtada al Sadr, contrario all’ingerenza iraniana, è uscito dal Parlamento con tutti i suoi eletti, la maggioranza degli sciiti, e così governano i filo-iraniani che sono subentrati ai sadristi in Parlamento, in un quadro militar-miliziano tesissimo e il disastro economico che permane totale.

Quale “pace” costruire tra Iran e Arabia Saudita e attraverso quale road map?

Tutto questo ci presenta il tipo di “pace” da costruire: è un qualcosa di simile a quanto accadde in Europa nel 1815?

Sebbene di certo non si possa pensare a una Santa Alleanza mediorientale, che dovrà aprirsi alla Turchia dopo le imminenti elezioni se vuole stabilizzarsi, è molto probabile che non si potrà che partire dalle vicendevoli repressioni. Che ora i falchi del regime iraniano parlino di “lotta alla nudità” intendendo “lotta a chi esce senza velo” è forse soltanto un piccolo segnale che la strada imboccata potrebbe andare in questa direzione.

I toni assai duri usati da Tehran per respingere le accuse da parte dell’inviato speciale dell’Alto Commissario dell’ONU per i diritti umani, che accusa il regime di violazioni delle gravissime violazioni dei diritti umani da settembre a questa parte davanti alla protesta di piazza, confermano questa impressione. Il voto sul rapporto dell’ONU c’è stato il 4 aprile, e il dato più significativo emerso è stato il voto contrario cinese “per il nostro tradizionale rifiuto di interferire negli affari interni dei singoli Stati”. Curioso modo di intendere la sovranità degli Stati citata nell’accordo di Pechino, ma certo interessante.

I sauditi di bin Salman si sono staccati dalla loro “eresia teologica”, per un modello che può essere spiegato ricorrendo a quello cinese: il mantra non è più l’osservanza puritana di presunti precetti islamici, ma il rispetto dell’uomo forte e dei suoi obiettivi.

Il caso di Jamal Khashoggi, il dissidente di cittadinanza saudita e statunitense ucciso barbaramente nel consolato saudita di Istanbul nel 2018, è noto in tutto il mondo, ma non è solo. Recentemente ha cominciato lo sciopero della fame Salma al-Shehab, dottoranda all’Università di Leeds, ma rientrata in Arabia Saudita e arrestata per alcuni tweet in favore dei diritti umani. Condannata in primo grado a sei anni, nel 2022 si è vista aumentare la pena a 34 anni. Con lei hanno iniziato lo sciopero della fame altre sette donne saudite. 

L’Arabia Saudita e l’Iran hanno seguito una road map inversa a quella seguita da Barack Obama, che nel 2009 abbandonò la protesta iraniana che chiedeva di installare alla Presidenza il vero vincitore delle presidenziali, Mir-Hosein Moussavi, e non Mahmud Ahmadinejad.

Obama, in nome della priorità dell’indo-pacifico, preferì il ritiro dal Medio Oriente e relazionarsi al regime iraniano al quale offrì un accordo sul nucleare, il JCPOA, firmato anche da Russia, Cina ed europei oltre all’Iran e poi abbandonato dall’amministrazione Trump, che reintrodusse le sanzioni contro l’Iran. La strada tracciata da Obama indicava una rotta al cui cuore vi era la necessità di allontanare l’Iran da Pechino. E’ quello che fino a settembre 2022 ha tentato di riproporre Joe Biden, prospettando a un dubbioso Iran lo stesso percorso: che per l’Iran implicherebbe la fine delle sanzioni internazionale, che sono tantissimi soldi, ma sempre con l’incubo che il futuro inquilino della Casa Bianca rimetta tutto in discussione. (I numeri per una ratifica congressuale del trattato non ci sono e l’apparato militar industriale iraniano si è ormai strutturato in base al sistema “grigio” in cui vive da tempo. Per la popolazione non è un grande vantaggio, ma, per chi lo gestisce, farlo e disfarlo sarebbe problematico).

Resta dunque da capire come si intenda procedere sul nucleare iraniano e questo coinvolge anche altri attori, in particolare gli Stati Uniti.

Un’indicazione importante l’ha offerta il capo della diplomazia saudita subito dopo la firma di Pechino: perché, ha chiesto, di nucleare Teheran si deve trattare solo con Paesi lontani e non con i vicini? Il tempo stringe, l’Iran ha ufficialmente ammesso di avere raggiunto una soglia di uranio arricchito che non ha giustificazioni se le sue intenzioni fossero davvero quelle di produrre centrali atomiche a scopo civile. E’ un tavolo parallelo e decisivo, sul quale l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha dato del tempo a Tehran. Ma quanto?

La delicata successione all’Ayatollah Khamenei

Il fatto che l’attuale processo si avvii sotto la guida di un governo iraniano di “falchi” e non di riformisti riduce i margini di sabotaggio da parte delle milizie, che si vedono pericolosamente all’opera in Siria, contro gli statunitensi.

A Washington aumentano le voci che chiedono la mano dura contro i filo-iraniani in Siria. Questo però non conforta il fronte interno impegnato nella protesta “donna, vita, libertà”. Ma all’ombra di tutto questo c’è un tema cruciale ma intrattabile, l’imminente successione all’ayatollah Ali Khamenei, scelta non facile perché non si vedono figure autorevoli, tanto che il nome più ricorrente è quello del figlio Mojtaba Khamenei, capo dell’altra grande milizia iraniana, i basij.

Dato da tutti per malato da anni, più volte addirittura per morto da notizie dimostratesi sempre infondate, l’ayatollah Ali Khamenei, classe 1939, è certamente malandato e guida l’Iran dal 1989.

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