Giampiero Gramaglia commenta per Democrazia futura il viaggio di Volodymyr Zelanskyj a Washington, il primo all’estero del presidente ucraino dopo lo scoppio del conflitto con la Russia. A trecento giorni dall’inizio dell’invasione segna un’ulteriore tappa dell’escalation rendendo sempre più lontana la prospettiva di negoziati per arrivare perlomeno ad un cessate-il-fuoco.
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Dieci mesi dall’inizio dell’invasione, il 24 febbraio; dopo trecento giorni di guerra; per la prima volta il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj lascia l’Ucraina: va a Washington, incontra Joe Biden nello Studio Ovale della Casa Bianca, fa con lui una conferenza stampa congiunta e poi parla davanti al Congresso riunito in sessione plenaria. Non ne esce una sola parola di speranza di pace, di prospettiva di negoziato: “Voglio vincere, sono sicuro che vinceremo”, proclama Zelenskyj. “Parlerà con Putin dopo averlo sconfitto sul campo di battaglia”, assicura Biden. L’ombra tragica d’una lunga guerra grava sul nuovo anno.
Poche ore prima, Dmitri Medvedev, numero due del Consiglio di Sicurezza nazionale russo, falco per antonomasia di questo conflitto, un ex presidente ‘prestanome’ ed ex premier, era a Pechino, e incontrava il presidente cinese Xi Jinping: un colloquio che – sostengono le fonti del Cremlino – “indica il livello senza precedenti del dialogo politico russo-cinese e della cooperazione concreta” fra i due Paesi. Dmitry Medvedev era latore di un messaggio a Xi del presidente russo Vladimir Putin. Pechino, però, nei suoi resoconti, pone l’accento soprattutto sulla fine della guerra:
“La Cina ha sempre deciso la sua posizione e la sua politica in base al merito della questione, assumendo posizioni obiettive ed eque e promuovendo i colloqui di pace”.
Nella coincidenza più che nell’intreccio di questi due incontri sta il punto del conflitto, che, in vista del 2023, non offre appigli a prospettive di tregua, nonostante sul terreno ci sia quasi uno stallo, complice l’inverno. La Russia conduce da settimane attacchi aerei sulle infrastrutture energetiche ucraine, con l’obiettivo di fiaccare la resistenza della popolazione, spesso senza elettricità e/o acqua, esposta al buio e al gelo – infatti, ai giornalisti, Joe Biden e Volodymyr Zelenskyj dicono che Vladimir Putin sta usando l’inverno come arma -. L’Ucraina, dal canto suo, colpisce con intensità e frequenza crescenti obiettivi militari russi sul territorio russo.
Leggendo per meno di mezz’ora un discorso in inglese, Zelenskyj, che da attore non cambia costume di scena, la tenuta da ‘presidente di guerra’ che l’ha ormai reso celebre, maglietta mimetica e maglioncino militare, chiede al Congresso, che lo accoglie con una standing ovation, di sostenere l’Ucraina: “I vostri aiuti non sono carità, sono un investimento” nella sicurezza collettiva, perché – spiega – Putin, se vince ora, potrebbe non fermarsi.
Dal gennaio 2023, nella Camera i repubblicani saranno maggioranza: hanno già fatto sapere di non volere più dare “assegni in bianco” a Kiev – e qualche ‘congressman’ repubblicano non ha ostentatamente ascoltato il discorso -. Ma il varo degli ulteriori aiuti inseriti nel compromesso sul bilancio 2023 appena messo a punto a Washington non è in forse.
Joe Biden dice a Volodymyr Zelenskyj, accogliendolo alla Casa Bianca: “E’ un onore essere dalla vostra parte”. Non sono solo parole: per Zelenskyj, e per l’Ucraina, ci sono sussidi economici e militari – un pacchetto da due miliardi di dollari – e, soprattutto, la conferma della fornitura dei missili per la difesa aerea Patriot. Kiev li chiedeva da settimane: sono quelli che nel 2003 protessero Israele dai missili Scud di Saddam Hussein; e che ora dovrebbero contrastare la pioggia di missili russi sulle città ucraine. Militari ucraini saranno addestrati a utilizzarli in una base degli Stati Uniti in Germania.
Dal canto suo, l’Unione europea ha approvato, nei giorni scorsi, un ennesimo pacchetto di sanzioni anti-Russia per l’invasione dell’Ucraina e ha pure adottato dopo molti tentennamenti un ‘price cap’ sull’import di gas.
I fronti di guerra
Alternando appelli appassionati e momenti di ‘humor’, Zelensky mirava a consolidare e ad ancorare l’appoggio degli americani alla libertà e all’integrità territoriale del suo Paese. La giornata di vento gelido e tagliente rendeva Washington non dissimile da Kiev, anche se il cielo sulla capitale Usa è mediamente più luminoso di quello grigio dell’inverno ucraino.
Il presidente ucraino ha portato al Congresso una bandiera presa a Bakhmut, città di oltre 70 mila abitanti sulla linea del fronte nel Donbass, nell’Est del Donetsk, una delle auto-proclamate repubbliche filorusse annesse da Mosca, dove lui era stato a inizio settimana: nelle sue parole, “il punto più caldo di tutto il fronte”.
Fonti statunitensi attribuiscono a Zelenskyj l’intenzione di visitare altre capitali occidentali, Londra e anche Parigi e Berlino. Ma i movimenti del presidente ucraino sono coperti dal massimo riserbo, perché sono ritenuti ad alto rischio. Il suo velivolo è stato scortato nei cieli Usa da aerei caccia.
A metà dicembre, le ondate di attacchi russi con missili sulle città ucraine – fino a 60 nella sola notte tra il 15 e il 16 dicembre 2022 – hanno causato grossi danni alle infrastrutture energetiche e vittime. Fra le città più colpite, oltre alla capitale, Odessa nel Sud, Kharkiv nel Nord-Est, e la città natale di Zelenskyj, Kryvyi Rih, nel centro del Paese. Ma si è anche avuta notizia, da fonti ucraine, della decimazione d’una brigata russa temuta per il suo potenziale: un rovescio giudicato dal Washington Post “emblematico” di come i piani di invasione di Putin stiano andando a rotoli.
Secondo le fonti del Washington Post, il tragico destino della 200a brigata separata di fucilieri motorizzati è stato determinato “da endemica corruzione ed errori strategici”. E ciò rende ancora più inquietante l’evocazione dell’arma nucleare che i leader politici e militari russi talora fanno, sia pure solo come strumento difensivo, e l’esaltazione delle nuove armi di cui le forze armate russe si stanno dotando.
In Cina e nel Baltico
Se la missione di Zelenskyj a Washington ha i crismi del successo, non si può dire lo stesso di quella di Dmitry Medvedev a Pechino. La Cina frena i bollori bellici dell’ex presidente “per conto di Putin” e auspica che tutte le parti interessate nel conflitto in Ucraina – quindi anche la Russia –
“esercitino moderazione, conducano un dialogo complessivo e risolvano le preoccupazioni comuni nel campo della sicurezza attraverso strumenti politici”.
Le fonti russe sono più elusive: “Medvedev ha discusso con Xi Jinping di collaborazione bilaterale e di questioni internazionali, compreso il conflitto in Ucraina”. C’è stata “un’ampia coincidenza” e Xi ha auspicato una “soluzione politica pacifica” della crisi ucraina. La Cina è pronta a stringere ulteriormente i rapporti con la Russia per una “governance globale più giusta”: una linea già emersa nell’ambito di organismi internazionali come l’Onu, il G20, i Brics e i Paesi euro-asiatici che partecipano alla Conferenza di Shanghai (Sco).
Intanto, l’intelligence occidentale e gli inquirenti scandinavi non hanno trovato prove che la Russia sia responsabile del sabotaggio del gasdotto Nord Stream nel settembre 2022, che resta, dunque, uno dei misteri di questa guerra. Se subito molti Paesi occidentali puntarono il dito contro Mosca, ora molti dubitano che il Cremlino sia all’origine dell’azione, che creò problemi ai Paesi importatori del gas russo e alla Russia stessa.