Riccardo Cristiano nell’articolo “Il rinnovo dell’Assemblea degli Esperti eletta a suffragio universale” commenta il voto a Tehran convocato il 2 marzo non solo per il rinnovo del Parlamento: come recita l’occhiello si è trattato di “Una giornata elettorale particolare nella Repubblica Islamica dell’Iran”. “Indubbiamente – scrive l’autore – l’Iran tiene alla sua immagine di Repubblica, e in una Repubblica, anche Islamica, si vota periodicamente, in date certe, per il rinnovo del Parlamento. Ma in Iran si è votato anche per il rinnovo dell’Assemblea degli Esperti, un organismo che non esiste in nessun’altra Repubblica al mondo e che viene eletto a suffragio universale. È incaricato di pochi compiti, ma uno di questi è più importante di ogni altro. Elegge la Guida della Rivoluzione islamica (iraniana), e questo incarico è riservato a un consenso ristretto di chierici “. Proseguendo Cristiano chiarisce: ” in Iran il regime ha scelto di affidare Governo, Parlamento, e Assemblea degli Esperti alla sua ala più forte […]. Il voto sembra dire che abbia vinto il Presidente della Repubblica in carica, Ebrahim Raisi, mentre l’attuale Presidente del Parlamento ed ex sindaco di Tehran, Mohammad Bagher Ghalibaf, ha perso, disastrosamente (per lui)”. Cristiano sottolinea infine la scarsa affluenza osservando come ” Il vero problema per l’Iran è il fronte interno, non certo i grandi nemici”.
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Per valutare l’esito di un voto la prima domanda da farsi è perché abbia avuto luogo. Indubbiamente l’Iran tiene alla sua immagine di Repubblica, e in una Repubblica, anche Islamica, si vota periodicamente, in date certe, per il rinnovo del Parlamento.
Ma in Iran si è votato anche per il rinnovo dell’Assemblea degli Esperti, un organismo che non esiste in nessun’altra Repubblica al mondo e che viene eletto a suffragio universale. È incaricato di pochi compiti, ma uno di questi è più importante di ogni altro. Elegge la Guida della Rivoluzione islamica (iraniana), e questo incarico è riservato a un consenso ristretto di chierici. Molti dei più autorevoli di loro avevano rinunciato a guidarlo per motivi anagrafici (avevano superato non di poco i novant’anni a testa) e quindi rinnovarlo deve essere apparso un’esigenza primaria.
Non metto in dubbio che il rinnovo del Parlamento avrebbe avuto luogo comunque, ma credo che far votare per entrambi i rinnovi simultaneamente abbia nascosto un’urgenza.
Tutti sappiamo che da anni si parla di una malattia della guida spirituale della rivoluzione, ayatollah Alī Khāmeneī. Ora a questa possibile malattia si aggiunge una certezza: il 19 aprile 2024 lui compie 85 anni. Certo, considerando il numero di primavere che pesano sulle spalle di Joe Biden e Donald Trump, non si può più dire che sarebbe un’anomalia se continuasse ancora per anni a guidare il suo Paese. Ma l’incognita sanitaria non va sottovalutata, come anche l’urgenza di rimettere ordine nella catena di comando. Il quadro politico regionale e i suoi possibili sviluppi rendono plausibile una lettura del genere:
“visto che queste elezioni parlamentari vanno fatte, perché non le facciamo per rimettere in ordine come vogliamo la cupola del sistema?”
Se questo non fosse eccessivo potremmo allora capire tre cose che finiscono per influire anche sulla nostra valutazione dell’esito del voto per le elezioni parlamentari: perché l’ex Presidente della Repubblica, Hassan Rouhani, si era candidato a far parte dell’Assemblea degli Esperti, perché la sua candidatura è stata bocciata (in Iran funziona così: ci si candida e il Consiglio dei Guardiani decide quali candidature ammettere e quali no), e come mai l’analogo destino toccato a quasi tutti gli aspiranti deputati del campo riformista (Rouhani non è un riformista, ma un pragmatico centrista) non ha fatto sì che gli ultraconservatori si presentassero con una sola lista di candidati fedeli a Khāmeneī, ma con liste contrapposte?
Tutte fedeli a Khāmeneī, ovviamente, ma di diverse fedeltà.
La risposta sembra questa: in Iran il regime ha scelto di affidare Governo, Parlamento, e Assemblea degli Esperti alla sua ala più forte. Hassan Rouhani non è stato preso in considerazione quale nuovo kingmaker (come in passato fu Ali Akbar Rafsanjani).
Il voto sembra dire che abbia vinto il Presidente della Repubblica in carica, Ebrahim Raisi, mentre l’attuale Presidente del Parlamento ed ex sindaco di Tehran, Mohammad Bagher Ghalibaf, ha perso, disastrosamente (per lui).
Tutto questo l’Iran lo avrebbe fatto perché, dovendo comunque votare, doveva farlo rimettendo a posto i bulloni di un sistema che sa di avere davanti a sé tempi complessi, nei quali non si potrà consentire lunghe assenze del leader, come accadeva in Russia ai tempi dei raffreddori di Leonid Breznev. E regolando quelle “guerre di potere” che trasparivano dall’opaco establishment iraniano. Incertezze determinate anche dalla difficile decifrazione di pesi e contrappesi tra gruppi.
Dunque le scelte decisive sono state due: rifiutare a Rouhani il ruolo di kingmaker, assegnare al mondo circostante Raisi la leadership.
Se poi questo significherà che la nuova Guida della Rivoluzione sarà (quando sarà) lui stesso o il figlio di Khāmeneī, questo io non lo so e non lo so neanche immaginare.
L’altro elemento importante di questo voto sta in un atto: la non partecipazione dell’ex presidente della Repubblica, Mohammad Khātami. Il suo campo riformista– chiamiamolo per capire meglio il significato delle parole “per il dialogo tra le civiltà”- è stato maltrattato dal regime ma anche dalla storia.
Quanti voti avrebbe potuto prendere un campo per la riforma del sistema dopo che il sistema ha ucciso, torturato, impiccato e molto altro i leader e molti simpatizzanti del movimento “donna, vita, libertà”?
Ma le porte delle liste ovviamente non si sono aperte a nessun esponente del “no al sistema, ne vogliamo un altro”. Questo era impossibile.
Ma neanche ai riformisti: perché dar loro credibilità? Non serve nessuna riforma, dal punto di vista dei fedeli a Khāmeneī.
Il regime così ha riservato le due competizioni ai diversi gruppi che lo sostengono, presentando il tutto come un voto nazionale. La scelta di Khātami indica che il riformismo islamico iraniano presto dovrà pensare non alla riforma di questo sistema, ma alla proposta di un sistema altro? Il fatto che tra i gruppi vincenti i chierici, i religiosi, i mullah se così si vuol dire, sono sempre di meno, indica che il problema c’è, che la qualità del clero non è più “alta” e che il regime intende darsi un tratto più nazionalista, militar miliziano.
E quindi entra in gioco la grande propaganda. Il regime sapeva di prendersi un rischio. In uno Stato di polizia l’affluenza alle urne raramente è argomento di attenzione: si vota e basta, obbedienti all’esigenza di non morire in carcere. In Iran no.
Alle ultime elezioni, nel 2020, ha votato, dati ufficiali, il 42 per cento degli aventi diritto al voto. Tra questi ci sono tutti quei dipendenti pubblici che non votando perderebbero il lavoro, in un modo o nell’altro. Ora il regime sostiene, con dati non ancora ufficiali, che abbia votato il 41 per cento degli aventi diritto al voto. Dunque la grande rivoluzione, il movimento “donna, vita, libertà” avrebbe un peso minimo.
Ma in questo racconto qualcosa non torna. Il conto ufficiale dei votanti infatti comprende anche le schede bianche e nulle. E quante sono? Non si sa. Si sa però che il più votato a Tehran, con 8 milioni di elettori votanti, ha ottenuto 326 mila preferenze. Ed è avanti, distaccato di molto dal secondo e dal terzo. Per Ghalibaf, precipitato al quarto posto, le preferenze sono appena 94 mila. Nel 2020 non andò così. Per i vincenti le preferenze furono molte di più.
È questo forse il dato che fa capire che il regime ha usato la propaganda del nemico esterno
“votate per dare dispiacere agli americani e agli israeliani, il mondo ci guarda”
non per salire, ma per nascondere il nemico interno, che non è solo il 60 per cento che non ha votato, ma anche una parte non conteggiabile di elettori che nell’urna gli ha probabilmente voltato le spalle.
Il vero problema per l’Iran è il fronte interno, non certo i grandi nemici. A gennaio 2024, in piena campagna elettorale, il regime ha aumentato lo stipendio pubblico medio all’equivalente di 200 dollari statunitensi. Ma siccome gli stipendi si pagano in rial e non in dollari oggi quello stipendio è pari al controvalore di 160 dollari. Ma questo riguarda chi non ha votato o ha dato un voto nullo. Per gli altri tutto procede abbastanza bene.