Partendo dal successo elettorale dei grillini grazie al reddito di cittadinanza, Michele Mezza affronta per Democrazia futura il tema spinoso su “Come affrontare il tunnel dell’emancipazione dalla miseria” ovvero la Quistione meridionale come la chiamava Antonio Gramsci, partendo questa volta però dalle pagine dell’Amica geniale della scrittrice napoletana Elena Ferrante, denunciando “La devastante cultura dell’élite della miseria basata sull’isolamento e sul voto di scambio”.
_________________
Forse più che il sardo Antonio Gramsci è la napoletana Elena Ferrante con i suoi romanzi dell’Amica geniale a spiegarci come si attraversi individualmente il tunnel dell’emancipazione dalla miseria
Eccola dopo averla tanto reclamata e sollecitata che torna ad esplodere la questione meridionale. In realtà né Gramsci, o Rocco Scotellaro, o Guido Dorso, o lo stesso Ciriaco De Mita la riconoscerebbero.
I tratti delle dinamiche che hanno portato il sud ad affidarsi ad un impasto di neo corporativismo dell’assistenza, con il voto di massa ai grillini, combinato con una richiesta di tutela anti europea per quello andato alla Meloni, sfuggono alle categorie tradizionali. La distorsione del modello di sviluppo, la prevaricazione nordista, il fallimento delle classi dirigenti locali, sono sempre motivi di lamentazione ma stanno sullo sfondo, rispetto ad una diretta ed esplicita negozialità di ogni singolo elettore, di ogni figura sociale che cerca un’interfaccia con le istituzioni per contrattare il proprio reddito.
Più che sacri testi sociologici o ideologici, ci potrebbe aiutare l’opera di Elena Ferrante, la serie di romanzi de L’Amica geniale.
Forse oggi diventa più nitido e decifrabile il valore di quella narrazione, asciutta, scevra da luoghi comuni, ma soprattutto intrisa di visione socio antropologica della vita vera nel Mezzogiorno, a Napoli, nei quartieri del trionfo grillino. Un’allegoria perfetta di quelle trasformazioni in cui la miseria diventa riscatto individuale, contorsione e adattamento per trovare una via di fuga dal quartiere dalla condizione subalterna, ma sempre soli, separati dal resto. Il tunnel, che nell’immaginaria urbanistica del racconto congiunge il quartiere dei poveri alle zone dei ricchi, viene attraversato uno alla volta, e spesso si torna indietro, per reinvestire nel quartiere il proprio momentaneo benessere.
Si è poveri ognuno a modo suo, dice Lila nel racconto della Ferrante. Ed è questa molecolarizzazione della povertà, della percezione di avere meno del proprio vicino, prima ancora di non avere quanto è giusto, che distorce e altera il senso della rappresentanza politica.
Reddito di cittadinanza e consenso inquinato
I dati del grafico che riportiamo non lasciano spazio alle interpretazioni. Il profilo del voto al Movimento 5Stelle coincide in maniera chirurgica con la densità dei percettori di reddito di cittadinanza, lungo tutto lo stivale.
Una corrispondenza dalle alpi alle piramidi che ci dice che la relazione è strutturale. Non è comprensibile altrimenti il parallelismo perfetto.
Ora come dice qualcuno questo dovrebbe valorizzare la capacità di ascolto e inclusione che il partito di Giuseppe Conte è riuscito a realizzare. Ma questo sarebbe vero se fossimo in presenza di un’altra corrispondenza: ossia che i percettori di reddito siano esattamente i ceti e le figure più escluse da altre forme di sussistenza e per questo siano gli ultimi della fila. Così non sembra.
Ma non tanto e non solo per le note deformazioni nei meccanismi distributivi e gestionali del sussidio, quanto – e qui il racconto della Ferrante è illuminante – è mutata la composizione sociale e le forme di organizzazione degli strati marginali.
Proprio Scampia, il regno di Giuseppe Conte che arriva in alcuni seggi alla stratosferica quota del 82 per cento dei votanti, ci mostra come nello stesso quartiere, nello stesso caseggiato, nello stesso nucleo famigliare, convivano elementi di assoluta povertà con combinazioni di reddito di diversa e non sempre accertabile provenienza.
Il paradosso è che spesso, diciamo se non frequentemente certo non è una rarità da quanto avrebbe accertato l’INPS con i suoi controlli a campione, proprio coloro che possono contare con canali di sostentamento invisibili riescono meglio ad assicurarsi il Reddito di Cittadinanza.
Non stiamo assolutamente contestando la legittimità e civiltà di una strategia di contrasto concreto alla povertà.
Ma stiamo cercando di capire quanto questa politica sia stata deformata e deviata proprio nei suoi condivisibilissimi fini.
E quanto abbia prodotto forme di consenso inquinato.
La crisi della politica diventa crisi della nazione
Non sarebbe certo la prima volta che questo accade.
Sia al sud, con le note cronache dei guru che citavamo prima, sulle forme di assistenzialismo clientelare su cui la DC costruì per 50 anni un blocco di potere, sia al nord, assicurando margini di evasione e di privilegio nell’accesso al credito che hanno permesso la successione indolore fra DC e Lega.
In questo gorgo si allenta ogni identità e appartenenza, soprattutto lungo quel crinale sempre più incerto e confuso che distingue ceto medio da aree marginali. In questo gorgo si logora l’idea di Stato come spazio pubblico e si privatizza la speranza di emancipazione che diventa contrattazione singola e riservata.
E’ la crisi della politica che diventa crisi della nazione.
Scriveva Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere:
“A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti […] si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente. […] Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.”
A Milano dove la società civile ha una sua robustezza e completamento nell’intersezione con le economie europee, questo disincanto diventa un voto di opinione leggero e occasionale, che di volta in volta sceglie il meno dannoso. Ed Infatti sia i grillini la ma la stessa destra perdono smalto.
Nel sud invece lo sganciamento dai partiti diventa un investimento negoziato per supplire alla mancanza di un dinamismo produttivo.
In questo spazio di ambiguità in cui la politica perde la sua strumentazione e lascia campo libero a forme del tutto improprie e irregolari di selezione del consenso, lo sviluppo diventa casta e la miseria clientelismo.
Non è una novità che politiche nate con l’obbiettivo di ridurre e mitigare la marginalità e la disoccupazione siano poi diventate forme cronicizzate di micro-privilegio e spreco.
Oggi però subentra, accanto ai rischi di una riproduzione del fenomeno dell’assistenzialismo clientelare, una diversa dinamica sociale prodotta dalla scomparsa della cultura di massa indotta dal lavoro di fabbrica, da una pervasività dell’immaginario consumista e da fenomeni di ambizione e istinti personali che portano, come si diceva negli Stati Unii per il voto a Donald Trump, i poveri a pensare e votare da ricchi.
Dalle liste dei “disoccupati organizzati” degli anni Settanta all’offerta grillina dei giorni nostri. La devastante cultura dell’élite della miseria basata sull’isolamento e sul voto di scambio
In questo processo si inserisce l’offerta grillina che combina sistemi di reclutamento del personale politico mediante l’organizzazione di reti territoriali, anche minime ma influenti nell’ambito di una struttura limitata, con relazioni digitali che rendono possibili micro-negoziazioni.
Qualcuno ricorderà a Napoli alla fine degli anni Settanta le liste dei disoccupati organizzati.
Erano vere e proprie gilde della disperazione, in cui si inserivano componenti corpose di mala vita ed avventurieri, che si formavano sulla base proprio della composizione di una lista, una sequenza di nomi che dava diritto ad una immaginaria precedenza nell’accesso ad un posto di lavoro. Ogni capo clan, ras politico locale, organizzava la propria lista, che portava in piazza a schiamazzare per tenere sotto pressione l’istituzione che periodicamente apriva valvole di sfogo con sussidi o lavori fittizi.
Questo modello si è intromesso nella selezione delle miserie reali, alterando e inquinando la percezione stessa dell’istituto di supporto.
Io sono fermamente convinto che si debba arrivare a misure generalizzate di reddito sociale, che compensino i processi di automatizzazione e di accumulazione concentrata in poche mani di ricchezza tecnologica con una base di sussidio che assicuri comunque una vita possibile a giovani e famiglie. Ma proprio per questo non penso che si debba ignorare come stia crescendo una devastante cultura dell’élite della miseria, in cui insieme a quote relativamente minori di effettivi bisognosi, la fanno da padroni uno strato di furbi che galleggiano su relazioni e voti di scambi.
Ricostruire una relazione con questo mondo di Scampia, per sintetizzare, non può ridursi ad accostarsi semplicemente a chi sta inevitabilmente lucrando sulle distorsioni di una norma sacrosanta. Significa ragionare proprio sulla nuova natura della miseria, sugli effetti del tutto imprevedibili di processi che spingono sempre più verso isolamento e individualismo e non favoriscono solidarietà e comunitarismo.
Proprio i libri di Elena Ferrante ci potrebbero aiutare ad avere una visione non convenzionale o frivola dei bisogni e delle drammatiche esclusioni che produce l’indigenza.
Combinando sostegno materiale, reddito di base, con forme di sostegno all’emancipazione reale, che assicuri la formazione oltre l’obbligo, che faciliti eventuali accessi a scuole di specializzazione che combatta quella discriminazione del master che ha spostato oltre l’università la discriminazione fra ricchi e poveri.
Reddito più dignità si potrebbe dire, severamente combinati fra loro, per rendere il tunnel dell’amica Geniale una libertà, da attraversare senza il pedaggio di un voto con il cappello in mano.
.