Un rito (non) ecumenico con una scaletta meditata “L’addio a Giorgio Napolitano ha riunito il più fidato consigliere di Berlusconi, aduso alla trasversalità e all’astuta moderazione, l’album delle “istantanee” – le ha chiamate così – di un cardinale, le felpate argomentazione di un Dottore che fu sottile tra partito (PSI) e istituzioni…Hanno raccontato il quasi secolo di un uomo forse con l’ambizione di restituire la ricchezza di una vita, che però diventava anche la difficoltà di toccare il punctum trasversale a tutte le possibili testimonianze. Quello che il Re Giorgio si è portato irreversibilmente con sé, lasciandoci questo Funerale sul bordo di una Repubblica di cui lui ha vissuto alcune convulsioni e che oggi ha anche la tentazione di relegare nel passato lui e la sua memoria costituzional-repubblicana, più vicina ai Padri costituenti che a coloro che siedono sui banchi del governo e allo spirito un poco esausto e fatalista del Paese che democraticamente li ha votati”.
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I funerali di personalità illustri appartengono all’ordine che una volta l’antropologia sociologica della televisione chiamava dei media event. Matrimoni da favola tra teste coronate, inaugurazioni imponenti, summit internazionali della geopolitica, dibattiti elettorali… e appunto funerali. In quest’ultima categoria si iscrive dunque a pieno titolo quello che ha riguardato il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, morto all’età di 98 anni essendo nato a Napoli nel 1925. Re Giorgio nella realità di un’immagine che ne sintetizza il distacco severo e altero che lo ha vieppiù caratterizzato, anche nei tempi in cui si affacciava nella nomenklatura di Via delle Botteghe Oscure.
Come accade spesso in queste circostanze, il tessuto narrativo e simbolico del rito prevale su tutto, anche perché proprio questo e
è il motivo per cui lo si officia, vale a dire la necessità in cui si riconosce una comunità di mettere in scena una cerimonia di conciliazione e pacificazione, in cui tutti possano riconoscersi, superando le contrapposizioni e la divisione degli orientamenti. Difficile, ma non impossibile, che si verifichino strappi e lacerazioni nel tessuto, tali da interferire nel senso complessivo e nel successo dell’evento cerimoniale con il rischio di metterne a repentaglio proprio la funzione.
Da questo punto di vista, il Funerale anzi, come sono state chiamate con una locuzione su cui sarà il caso di ritornare, le esequie civili di Giorgio Napolitano non hanno offerto risvolti clamorosi, incidenti imprevedibili, tangenti improvvise che ne abbiano messo in forse la tenuta. Tutto si è svolto come si doveva svolgere, il programma è stato eseguito dall’inizio alla fine, senza sorprese.
E tuttavia, una volta sottolineata questa evidenza, non si possono non notare alcuni elementi che, se non vengono ad incrinare il quadro, dicono di una complessità su cui forse vale la pena di riflettere.
L’antefatto imprevisto
La prima di queste rotture imprevedibili è intervenuta durante la camera ardente allestita nella sala Nassiriya del Senato. All’improvviso, si è manifestato il Papa.
Francesco ha deciso di venire a rendere omaggio al Presidente, è arrivato in 500, si è alzato dalla carrozzella, ha sostato a lungo in preghiera davanti alla bara e poi ha vergato di suo pugno: “Un ricordo e un gesto di gratitudine a un grande uomo servitore della patria”.
Una frase, come si vede, che non evoca nulla che abbia che fare con la fede e con una visione religiosa, si potrebbe dire un commiato da uomo a uomo in cui il Pontefice non si spoglia certamente della sua funzione, ma con tutto il peso di quella viene a dare l’estremo saluto a qualcuno di cui riconosce la grandezza umana di una vita di impegno sempre orientata al bene del suo Paese, anzi per essere precisi, della patria, una parola controversa nel vocabolario della politica italiana, rivendicata e rimossa, che il Papa lascia a chiudere quella frase, forse per enfatizzare l’intensità di un impegno.
Il Papa viene a salutare un ex comunista che ha chieste esequie laiche? Un passo indietro, al dialogo che Napolitano ebbe ad Assisi con il cardinale Ravasi nel Cortile dei Gentili.
Ricordò come il valore della persona umana fosse trasversale alle forze politiche che si riconoscevano nell’antifascismo nel momento della fondazione della Repubblica e si soffermò sul “mistero, l’ignoto, l’inconoscibile” che anche un atteggiamento di laicità non può ignorare, con una citazione significativa di Norberto Bobbio che aveva rifiutato i funerali religiosi: “Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi”.
Citò anche il gesto del prediletto Thomas Mann che non esitò a inginocchiarsi davanti a Pio XII riconoscendo in lui, “da “non credente ed erede della cultura protestante”, “due millenni di storia occidentale”. Concluse con la convinzione che proprio questa dimensione di dubbio avesse propiziato in Europa una cultura del dialogo e dell’incontro tra non credenti e credenti, e riaffermando il valore supremo del “bene comune” e dell’ “interesse generale”.
Quanto basta dunque per capire la sintonia tra lui e il Papa che spiegava anche quella visita inusuale e spiazzante. Francesco, in piedi davanti alla bara avvolta nel Tricolore, non era venuto ad assolvere e a dare benedizioni, semplicemente riconosceva il valore profondo e patriottico di un’esperienza umana.
– Un rito (non) ecumenico
Questo antefatto ha costituito la falsariga su cui si è svolta la cerimonia. Ecumenica, potremmo dire, capace cioè di tenere insieme anime molto diverse fra di loro, sia negli orientamenti politici, sia proprio su quel discrimine tra credenti e non credenti.
Ora, si potrebbe anche dire che questo unanimismo è spesso la coperta di un’ipocrisia chi si adegua alla circostanza. Tutti d’accordo di fronte un feretro illustre, e poi pronti a riprendere il tran tran delle polemiche e delle fazioni.
Non mi pare questo il caso.
Anzitutto, l’atmosfera chi si è percepita anche attraverso lo schermo freddo della televisione aveva la forza composta di una partecipazione, semmai con una impercettibile differenza che ha riguardato i banchi del governo, perché Napolitano non aveva intorno a sé un il Parlamento di un “governo di larghe intese” ma un’assise lacerata e dissonante.
Poi, l’intensità del silenzio che ha incorniciato le parole di coloro che sono intervenuti nell’orazione funebre, nel prisma dei loro punti di vista che, proprio partendo da presupposti diversi, tutti hanno finito per concordare su dei valori di fondo che per un verso venivano a definire, ciascuno dalla sua angolazione, la personalità e l’impegno di Napolitano, per l’altro, suonavano come un monito potente verso quell’Assemblea e verso gli orientamenti politici, tutti, presi in arroccamenti e chiusure dimentiche proprio di quel superiore spirito morale in cui Napolitano rinveniva il senso della politica. D’altra parte, non era stato lui a esprimere giudizi sferzanti davanti alle Camere riunite quando aveva accettato il secondo mandato di Presidente della Repubblica?! Dialogo e stabilità, rispetto delle istituzioni e interesse generale: sono questi i tratti che, anche alla luce dei vari interventi che si sono susseguiti nella commemorazione, hanno definito l’identità di Napolitano. Con un risultato nella percezione finale, non era soltanto un due volte Presidente della Repubblica quello di cui si stavano celebrando le esequie, ma un simbolico Convitato di pietra che dal feretro tricolore ammoniva.
Non solo, il Funerale è intervenuto come un rito di elaborazione di un lutto, una cerimonia in cui tutti si manifestano concordi e vi partecipano come a esorcizzare il negativo, ciò che divide, la ferocia con cui si difendono le posizioni e non si riconosce l’altro. Per questo una società allestisce queste cerimonie.
Aspetti, questa discordia rissosa, che erano presenti ovviamente anche nel tempo di Napolitano al Quirinale, rispetto ai quali si consolidò la sua immagine di solitario e tetragono difensore delle istituzioni e della stabilità del Paese.
Peraltro, va ricordato, ci furono anche le posizioni di chi gli rimproverò di oltrepassare i confini del dettato costituzionale o di interpretare in senso estensivo il non detto della Carta, e quelle di chi – un tempo sugli spalti di una sinistra antagonista – stigmatizzava la sua adesione all’Alleanza Atlantica, il filo-americanismo e il conclamato europeismo.
Tanto più significativo questo ritratto in un Parlamento che per la prima volta nella storia della Repubblica vede una maggioranza di centrodestra, anzi di destra-centro, per la preponderanza che vi rivestono Fratelli d’Italia e l’attivismo sfrenato della Lega.
Basti pensare all’acrobazia della Presidente Meloni presa nell’esercizio di un complicato equilibrismo tra una riconfermata adesione nell’orizzonte europeo e però impegnata ad attutire gli effetti delle scomposte turbolenze estremistiche che continuano ad agitarsi nel suo schieramento di governo e di partito. Una prova resa ancora più ardua dal contenzioso aperto con la stessa Europa sulla questione dei migranti – accoglienza, stop, redistribuzione… – che vede oscillare il pendolo delle polemiche ora con la Francia, ora con la Germania.
E proprio alla luce di questo mi pare significativo che davanti al Governo, nel semicerchio delle sedute riservate ai familiari e ai rappresentati di paesi stranieri, si trovassero il presidente francese Macron e il tedesco Steinmeier, venuti lì per onorare un Presidente della Repubblica che dell’unità europea aveva fatto una stella polare essenziale per la riforma e il rinnovamento del Paese.
Quando abbiamo detto della compostezza con cui tutta l’aula di Montecitorio ha partecipato alla cerimonia, un distinguo sottile ha riguardato gli esponenti della maggioranza, certamente non entusiasti della piega politica di alcuni degli interventi e in generale del profilo del Protagonista. Lo testimoniano la rigidità delle espressioni e l’impressione strisciante di un senso di una costrizione a cui non ci si poteva sottrarre.
Il rito con i suoi obblighi in questo caso è stato più forte della convinzione con cui si è dovuto partecipare.
Vanno anche segnalati alcuni miracoli.
Scorrendo l’emiciclo, le telecamere di tanto in tanto proponevano dei quadretti paradossali, in cui si trovavano l’uno accanto all’altro Presidenti del Consiglio – Prodi, D’Alema, Monti, Letta, Conte – o della Camera – Boldrini, Fico, Fini – che il destino e il protocollo avevano messo lì, incuranti delle cicatrici del passato.
E poi nell’aula, intorno a Napolitano, si sono ritrovati e mescolati insieme esponenti di stagioni della Repubblica profondamente diverse, generazioni che appartengono a culture politiche ormai lontane e nuovi volti della politica attuale.
Ed è stato significativo che ciò accadesse nel luogo del Parlamento, che lo volessero meno, il Funerale ha messo di fronte agli Italiani la classe dirigente di mezzo secolo.
Il prisma degli interventi
E veniamo agli interventi.
Una scaletta meditata – non sappiamo nulla della contrattazione da cui è uscita – deve averli messi insieme e stabilito la successione. Prima gli ospiti, i Presidenti della Camera e del Senato, poi la famiglia, quindi, Anna Finocchiaro, Gianni Letta, Paolo Gentiloni, il cardinale Ravasi e Giuliano Amato. Ognuno a rappresentare un punto di vista e dunque a comporre un ritratto-prisma di Giorgio Napolitano.
Si potrebbe anche rovesciare il discorso e vedere in ciascuno di quegli interventi un riflesso della complessità della vita e del percorso politico del Protagonista della cerimonia. Come se attraverso le parole di ciascuno tornassero aspetti del carattere, stagioni, visioni delle cose e della politica.
È così che abbiamo visto sfilare Fontana e La Russa, senza fremiti particolari, nulla di più di un compitino con il confidenziale “Ciao Presidente” con cui la seconda carica dello Stato ha concluso.
Poi, il fratello Giulio, un rigore sobrio, e la nipote Sofia, emozionata, affettuosa, orgogliosa, con spaccati di vita familiare.
Anna Finocchiaro, che fu nello stesso partito, ha prima ricordato il primo impegno politico a Napoli, “la Saigon del Mediterraneo” come la chiamò uno degli amici intellettuali di quel periodo, Raffaele La Capria, insieme a Francesco Rosi e Giuseppe Patroni Griffi, poi si è soffermata sulle qualità: la competenza, il pragmatismo, il no ad ogni ideologismo e la convinzione che il Parlamento fosse il luogo centrale di una democrazia.
Gianni Letta, da una posizione politica lontana da quella di Napolitano, ha evocato Silvio Berlusconi, quasi volesse rivendicarne il ruolo proprio nel giorno in cui si svolgeva il funerale del presidente della Repubblica che aveva sancito la fine del suo governo e nominato Mario Monti a Palazzo Chigi.
Ha affrontato il tema del rapporto fra i due, ha parlato di” prove difficili” e di una “convivenza non facile”, ma anche della “linea di confronto non distruttiva” che Napolitano annunciò nel discorso che tenne nel giorno della prima investitura di Berlusconi. Insomma, a chiudere il cerchio, “Un uomo di parte che ha saputo essere un uomo delle istituzioni”. Immagine finale, Giorgio e Silvio che si ritrovano “lassù, nella luce”.
Tutto tagliato sulla vocazione europea del Presidente l’intervento di Paolo Gentiloni, Commissario europeo. Quella è stata l’ispirazione di fondo di “un patriota costituzionale e di un grande riformista”.
Ad ampliare il quadro e a portarvi l’acutezza colta di uno sguardo diverso il cardinale Ravasi che non ha nascosto la situazione un poco paradossale di essere lì: “Un invito sorprendente, anche per me”. Non era il Papa, era un cardinale che non presiedeva una messa funebre, ma era coinvolto nelle esequie civili del “non credente” Giorgio Napolitano a cui è stato legato da amicizia e rispetto.
Ha parlato soprattutto di un uomo di cultura e ha messo in fila alcune situazioni rivelatrici delle sue passioni, Beccaria, Dante, Mann, per chiudere sul ricordo della citata conversazione con lui nel Cortile dei Gentili nel quale Napolitano confessò “un intimo bisogno di raccoglimento”. Inevitabile citazione finale biblica, presa dal profeta Daniele: “I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento. Coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre”.
Infine, Giuliano Amato, esponente di quel partito socialista di cui Napolitano volle essere sempre un interlocutore, il migliorista che guardava alla socialdemocrazia, contro le tentazioni di chiusura ideologica e la rivendicazione di una differenza morale comunista.
Ne ha esaltato la fede nel Parlamento e nella processualità dialogante delle decisionalità che lo contraddistingue e ha ricordato come in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia se la prendesse con chi criticava un Risorgimento che non aveva realizzato il sogno democratico ma si era risolto in un compromesso orchestrato da Cavour: “Era l’unica Italia possibile”, aveva polemizzato, a conferma di un realismo che puntava sempre a ricavare il meglio dalle condizioni date.
A pensarci bene, una sorta di risarcimento postumo rispetto alle sconfitte della storia, un socialista concludeva l’orazione funebre in onore di un comunista che era stato riformista e ne ricordava l’autorevolezza figlia più della cultura e meno del marxismo.
Non avrebbero potuto farlo amici carissimi scomparsi, come Gerardo Chiaromonte o Emanuele Macaluso, tantomeno Pierluigi Bersani o Elly Schlein.
Il Funerale e il Paese
L’addio a Giorgio Napolitano ha riunito il più fidato consigliere di Berlusconi, aduso alla trasversalità e all’astuta moderazione, l’album delle “istantanee” – le ha chiamate così – di un cardinale, le felpate argomentazione di un Dottore che fu sottile tra partito (PSI) e istituzioni…
Hanno raccontato il quasi secolo di un uomo forse con l’ambizione di restituire la ricchezza di una vita, che però diventava anche la difficoltà di toccare il punctum trasversale a tutte le possibili testimonianze. Quello che il Re Giorgio si è portato irreversibilmente con sé, lasciandoci questo Funerale sul bordo di una Repubblica di cui lui ha vissuto alcune convulsioni e che oggi ha anche la tentazione di relegare nel passato lui e la sua memoria costituzional-repubblicana, più vicina ai Padri costituenti che a coloro che siedono sui banchi del governo e allo spirito un poco esausto e fatalista del Paese che democraticamente li ha votati.
Abbiamo parlato del carico simbolico del rito del Funerale. Su Rai 1 la cerimonia è stata seguita da un po’ meno di un milione e mezzo di spettatori (20% di share). Una minuscola rappresentanza di un Paese che forse quei riti nel Palazzo della politica li sente lontani.