Due guerre europee a confronto spingono a interrogarsi su identità nazionali e processi di integrazione nell’Unione Europea. Russia e Ucraina si specchiano nelle mai sopite tensioni serbo-croate e bulgaro-macedoni. Il Consiglio europeo del 23 giugno, che ha concesso ufficialmente a Ucraina e Moldavia lo status di candidati all’ingresso dell’Unione Europea, ha visto tuttavia congelare (provvisoriamente) il processo di avvicinamento all’UE di Albania e Macedonia del Nord, finite vittime del veto di un’orgogliosa nazione balcanica. Non è tutta colpa dell’Unione. Giocano a sfavore intrecci plurisecolari di storie e narrazioni storiche che in questa sede tenteremo di ripercorrere.
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In un film croato di alcuni anni fa, Zvizdan, proiettato alla rassegna di Cannes con il nome Soleil de plomb (in Italia fu distribuito come Sole alto), l’ultimo dei tre episodi in cui è suddivisa la pellicola si apre con una sequenza di edifici rurali abbandonati e in rovina, alcuni visibilmente segnati da colpi di arma da fuoco, eredità del conflitto interetnico che infuriò nell’entroterra dalmata, a ridosso del confine con la Bosnia-Erzegovina, in quella che fino all’agosto 1995 era la zona controllata dai separatisti serbi della Repubblica di Krajina. Il regista tuttavia non ha accompagnato le immagini con una musica drammatica o lacrimevole. Al contrario, mentre le inquadrature passavano da una casa bombardata a un’altra crivellata di proiettili risuonavano le note spensierate e allegre, accompagnate da un mandolino, di un brano del 1975 cantato da Tereza Kesovija, originaria di Ragusa (Dubrovnik), una delle interpreti della musica leggera jugoslava più note in patria e all’estero e, stando alla vulgata, anche particolarmente apprezzata dal maresciallo Tito (Josip Broz). Insomma, il regista voleva provocare nello spettatore un moto dell’animo accentuando il contrasto fra ciò che era stato, un’età dell’oro relativamente felice risalente ai tempi della Repubblica Federativa Socialista, e ciò che era diventato, un cumulo di rovine, lasciando allo spettatore la consapevolezza che in quelle case abbandonate qualcuno aveva abitato, se ne era dovuto andare senza la certezza di poter tornare, probabilmente vi era stato anche ucciso.
Non si può nascondere che l’effetto ricercato dal regista fu ottenuto. Lo si sarebbe potuto definire un caso di induzione artificiale di emozione jugonostalgica. Un piccolo saggio dimostrativo, per chi non è nato o vissuto in Jugoslavia, volto a illustrare il dolore patito dalla perdita irrimediabile di uno Stato nato da un’utopia intellettuale e sostenuto da un ambizioso progetto nazionale che, nel bene o nel male, era anche riuscito a offrire ai suoi cittadini una parvenza di convivenza pacifica e laboriosa, volta nella seconda fase della sua esistenza alla costruzione del socialismo autogestito in quello che era considerato il Paese guida del movimento dei non allineati.
Tutto irrimediabilmente perduto. Con il corollario di aver fatto proprio, ma a rovescio, il motto americano e pluribus unum: da uno Stato ne sono nati infatti sette, alcuni di dimensioni modestissime (Kosovo, Montenegro, Slovenia), altri rimasti in balia di economie arretrate o scarsamente sviluppate (ancora Kosovo, Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina), uno in cerca di posizionamento internazionale (Serbia), un altro scalpitante per essere riconosciuto indipendente da qualche attore di peso (Repubblica Serba di Bosnia).
Le analogie e le differenze tra il conflitto russo-ucraino e quello nell’ex Jugoslavia
Il conflitto nell’ex Jugoslavia e in particolare la fase di quel conflitto che oppose serbi e croati per il controllo di alcune regioni di confine fra i due Stati che andavano separandosi in modo violento e, soprattutto, per il controllo di gran parte della Bosnia-Erzegovina, presenta delle evidenti analogie con quanto sta avvenendo in Ucraina.
Si è letto e detto in questi giorni di somiglianze della guerra russo-ucraina con l’attacco sovietico alla Finlandia nel 1939-40, con l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia nel 1939, così come con l’invasione sovietico-nazista della Polonia, sempre nel 1939. Viene pertanto favorita la ricerca di analogie con altre simili guerre di conquista, integrali o parziali, da parte di un potente Stato aggressore a danno del vicino più indifeso. In realtà le vicende belliche che stanno interessando le regioni orientali dell’Ucraina possono essere lette in un’altra ottica, quella del conflitto civile tra popoli slavi. Tale affermazione può essere considerata una forzatura, ma potrebbe anche avviare qualche riflessione.
Una cosa però è certa: se il conflitto interetnico nei Balcani (1991-95) non rischiava di fare da detonatore a una guerra di più vasta portata, finanche mondiale, con lo spettro del conflitto atomico alle porte, la guerra in Ucraina rischia seriamente di degenerare in un domino potenzialmente incontrollabile.
Al di là di questa ovvia considerazione le analogie e similitudini fra i due eventi sono numerose e talvolta persino sorprendenti. Di certo c’è che un regista cinematografico che volesse in futuro mostrare ciò che la guerra russo-ucraina ha prodotto sul terreno, fra distruzioni, fughe, morti e spaccature familiari, potrebbe servirsi dello stesso espediente del regista di Zvizdan.
Al di là del fatto che la Russia ha inviato e continua a inviare al fronte giovani reclute provenienti in gran parte dalle repubbliche autonome caucasiche, uraliche, siberiane ed estremorientali, etnicamente non russe, è però un fatto che nelle autoproclamate repubbliche di Doneck e Lugansk la dirigenza locale è affidata ad elementi etnicamente russi che fino al 2014 erano cittadini ucraini de iure e che risiedevano in quelle regioni.
Si tratta pertanto, almeno per quanto riguarda le cause del conflitto in Donbass, di un conflitto civile, combattuto talvolta fra persone che fino a qualche anno fa si frequentavano e condividevano spazi comuni di socialità. Il nostro ipotetico regista del futuro potrebbe pertanto mostrare una sequenza di anonimi condomini del tipo chruščëvka (comunissimo e orrido reperto architettonico dell’era sovietica ovunque diffuso da Brest a Magadan) semidistrutti o sventrati, assieme a quelle aree giochi che tanto piacevano ai progettisti delle città operaie, arrugginite e abbandonate, e le più tradizionali abitazioni monofamiliari nelle periferie o dei villaggi agricoli, scoperchiate, incendiate o crivellate da schegge di bombe, il tutto accompagnato da una colonna sonora con citazioni musicali di Vladimir Vysockij, il Georges Brassens russo, oppure del gruppo rock sovietico Kino.
Stesso effetto emozionale nello spettatore nativo trasferito a quello straniero. Le immagini parlerebbero da sole e sembrerebbero voler dire: «come abbiamo potuto arrivare a questo punto? Avevamo costruito insieme uno Stato avanguardia della rivoluzione socialista, avevamo sacrificato le nostre vite per una causa che credevamo giusta, avevamo combattuto una grande guerra patriottica contro le forze del male, avevamo tagliato traguardi scientifico-tecnologici, mandato uomini nello spazio, dato istruzione, casa e lavoro a centinaia di milioni di compagni e compagne, avevamo fatto tutto questo insieme, russi e ucraini, georgiani e lituani, azerbaigiani e armeni, kazaki e turcomanni; insomma c’eravamo tanto amati». In realtà no, ma la nostalgia gioca brutti scherzi.
Fin qua la cinematografia, in un improbabile paragone fra un film effettivamente girato e un altro ancora da girare, se mai ce ne sarà ancora l’opportunità. Adesso viene la parte più difficile.
Le grandi migrazioni slave orientali e meridionali e la nascita delle odierne identità nazionali
Per comparare i due conflitti dobbiamo partire da lontano. Alla radice dell’insediamento slavo nelle aree contese.
Sappiamo infatti che le popolazioni slave non sono autoctone dei territori dove sono oggi stanziate. Si tratta invero del prodotto di un flusso migratorio, inizialmente assimilabile a un’invasione, talvolta anche piuttosto violenta, a danno delle popolazioni stanziali o seminomadi confinanti. La terra d’origine delle popolazioni slave, il nucleo dal quale tutto è partito, è ancora oggi oggetto di dibattito, ma è verosimilmente possibile che le aree pianeggianti e in parte paludose del bacino fluviale del Pripjat’ abbiano fatto da culla alle genti slave.
Le prime migrazioni sarebbe iniziate nel I secolo dell’era cristiana, mentre l’Impero Romano in pieno sviluppo consolidava le sue conquiste mediterranee, muovendosi in direzione delle aree di tradizionale popolamento celtico e germanico, oltre la catena dei Carpazi e verso il bacino danubiano, predisponendosi ai blocchi di partenza per la seconda e più massiccia ondata migratoria che avrebbe sfruttato il collasso dell’impero unno, intorno al 455, e il sopraggiungere di nuovi popoli aggressivi da est.
Da quel momento presero a stanziarsi nell’Europa centro-orientale, un tempo germanica, nuclei di popolazione slava che andarono a formare la famiglia degli slavi occidentali, ovvero i futuri polacchi, cechi, slovacchi e altri gruppi minori, come i sorabi.
Altri si mossero fra VI e VII secolo verso sud, in territorio già romano, stanziandosi fra la Pannonia, l’Illiria e la penisola Balcanica, formando il gruppo degli slavi meridionali: serbi, croati, bulgari (quest’ultimi invero assumendo il nome di una popolazione di origine uralo-altaica) e in una certa misura gli sloveni[1].
Entro il IX secolo si era concluso anche il popolamento slavo delle grandi pianure russe meridionali, lungo il bacino del Dnepr e il basso corso del Don. In quest’area sarebbe sorto l’antenato del moderno Stato russo, l’ormai ben nota rus’ di Kiev, nucleo fondante della famiglia degli slavi orientali, composta da russi (un tempo noti come “grandi russi”), ucraini (“piccoli russi”) e bielorussi[2].
Per un momento lasciamo da parte gli slavi orientali e torniamo agli slavi meridionali.
Serbi e croati, si è detto, facevano parte del gruppo che, mettendosi in marcia probabilmente da una zona a cavallo fra le attuali regioni della Transcarpazia e della Galizia orientale, si stanziò nella regione storica un tempo conosciuta come Illiria, occupando anche parti della Pannonia e della Mesia. Questi due popoli si può ritenere che in realtà fossero lo stesso popolo che giunse a stanziarsi in regioni differenti ma confinanti. I serbi inizialmente disposti ad arco fra la valle della Narenta, il Montenegro, la Rascia e il Kosovo, i croati prevalentemente in Dalmazia e nell’entroterra dinarico, fino ai bassi corsi della Sava e della Drava. Stesso popolo che parlava anche la stessa lingua, differenziata al suo interno soltanto sulla base di tre diverse famiglie dialettali[3].
Ciò tuttavia non impediva la reciproca comprensione e non impedì inoltre che nell’età contemporanea lo sforzo intellettuale e letterario dei primi patrioti austroslavisti, illiristi e, più tardi, jugoslavisti producesse una lingua comune letteraria e popolare nota ancora oggi come serbo-croato, scritta unicamente con caratteri differenti, latini per i croati, cirillici per i serbi, e basata sulla variante dialettale štokava, diffusa egualmente fra serbi e croati[4].
Ulteriori assestamenti, spostamenti e rimescolamenti etnici nei Balcani e nel Russkij Mir
A far perdere l’oggettività della comune essenza nazionale ci ha pensato la grande Storia.
Senza riassumere ciò che avvenne nei secoli successivi allo stanziamento slavo meridionale nell’Illiria, basti ricordare l’ultima grande faglia culturale e religiosa prodotta dalla netta divisione politica intervenuta in seguito alla conquista ottomana della penisola Balcanica nord-occidentale, nel corso dei secoli XIV e XV, quando serbi e croati si ritrovarono separati in due grandi imperi multietnici, l’uno, quello asburgico, di matrice europea, cattolica e occidentale, l’altro, quello ottomano, di matrice orientale e islamica, le cui comunità cristiane rimanevano legate all’ortodossia costantinopolitana.
Tale separazione durata circa otto secoli, se si considerano anche le precedenti divisioni, soltanto un po’ meno marcate, non poteva non produrre enormi divari per cultura e mentalità, approccio alla vita e all’attività politica. La separazione col tempo finì per generare attriti e incomprensioni reciproche per motivi religiosi, culturali e persino a causa di trasferimenti di massa (prevalentemente di serbi) in regioni di confine storicamente popolate da croati.
Tuttavia fra Ottocento e Novecento, alcuni intellettuali su entrambi i lati della storica faglia divisoria considerarono effettivamente serbi e croati come membri della stessa nazione slava meridionale, accomunati dalla lingua e da numerose tradizioni, divisi soltanto dalla fede religiosa (d’altra parte non lo erano anche gli albanesi senza che nessuno mettesse in dubbio la loro albanesità?) e da differenti ritualità politiche.
C’erano tutte le premesse perché il matrimonio (per altri una vera e propria riunificazione) fra questi due popoli potesse produrre una storia di successo.
Naturalmente sappiamo bene che così non è stato, ma non si può negare che la convivenza più o meno forzata nella cornice di uno Stato jugoslavo unificato abbia prodotto una pur breve esperienza istituzionale comune, una comune visione della storia (ufficializzata dal 1955 con il varo del progetto editoriale per una Enciklopedija Jugoslavije sotto la direzione dello scrittore croato Miroslav Krleža) e la conseguenza, soprattutto nelle aree urbane, del sorgere di un’identità nazionale jugoslava come prodotto di matrimoni misti interetnici o, più correttamente, interconfessionali.
Sappiamo anche che un esito simile si è generato nel Russkij Mir, espressione generalmente tradotta come “mondo” o “spazio russo”, prodotto dell’evoluzione storica dello Stato kievano, attraverso il progressivo spostamento del baricentro politico verso le regioni centro-settentrionali dell’attuale Russia europea, attuato sia per allontanare il potere dalle sempre più insidiose invasioni di popoli della steppa, sia per colonizzare nuove fertili terre e controllare vie commerciali, nell’inarrestabile moto migratorio degli slavi orientali verso nord-est che si sarebbe incrociato con etnie di origine uralo-altaica. Inizialmente con gruppi finnici, in seguito con i tatari, soprattutto dopo la conquista di Kazan (1552)[5].
Lo spazio russo dilagò quindi già nel XVII secolo verso la Siberia, poi verso l’Europa centro-orientale, la catena del Caucaso e infine l’Asia centrale, a partire dal Settecento e per tutto l’Ottocento, grazie alla spinta imperiale impressa dallo zar Pietro il Grande e dai suoi successori. Spazio russo (sebbene non tutto etnicamente russo) diventato dopo la rivoluzione spazio sovietico e sottoposto all’artificiosa suddivisione in entità autonome (autonome de iure, ma non de facto) su base etnico-linguistica, note come Repubbliche Socialiste Sovietiche, fra le quali la Russia compariva come una sorta di primus inter pares. Un po’ come la Serbia nei confronti delle altre repubbliche jugoslave dopo la costituzionalizzazione del sistema socialista federale, all’indomani della seconda guerra mondiale.
E così come la Russia vantava la sua origine storica in un territorio, l’Ucraina, distante poco meno di un migliaio di chilometri dal suo centro di irradiazione politica (tornato a essere Mosca dopo la parentesi pietroburghese), così anche la Serbia era consapevole di essere nata non già sulle rive del Danubio, ma a qualche centinaio di chilometri più a sud, nella regione del Kosovo, disseminata di monasteri ortodossi eretti nel medioevo per iniziativa della prima dinastia reale serba.
Peccato che, in entrambi i casi, le culle delle due nazioni siano diventate estranee ai loro più recenti abitanti.
Vale per gli ucraini, che nel corso dei secoli hanno intrapreso un processo di lento ma inesorabile distacco linguistico (a livello di lingua popolare parlata dalle masse rurali) dai loro fratelli russi, vale anche per il Kosovo, che non è più a maggioranza serba da quasi tre secoli, popolato al contrario da un’etnia, quella albanese, neppure lontanamente imparentata con gli slavi.
Almeno ucraini e russi sono popoli fratelli. Lo stesso popolo addirittura, stando alla visione putiniana mediata da diversi accademici moscoviti, peraltro non del tutto erronea stando ad alcuni elementi oggettivi[6].
E se non si può dire lo stesso fra serbi e albanesi del Kosovo, di certo si può giungere a stabilire un parallelo fra la parentela stretta che unisce russi e ucraini e quella che unisce serbi, croati e i cosiddetti bosgnacchi, ovvero i musulmani bosniaci.
Qualcuno sarebbe in grado di distinguerli osservando il loro aspetto o ascoltando la loro lingua?
Solo sentendoli pregare, salvo il disinteresse dei singoli per i culti religiosi o il cadere in equivoci identitari, così come a fine Ottocento capitava a qualche italiano istriano di identificarsi come croato o sloveno e a diversi sloveni o croati istriani di sentirsi italiani[7].
Molti peraltro, nati come cittadini jugoslavi da matrimoni misti, in seguito allo sfaldarsi della federazione hanno dovuto optare per una o per un’altra identità, onde evitare di essere visti come corpi estranei all’interno di una società omogeneizzata d’imperio, attraverso l’acquisizione di una domovnica (cittadinanza) che, al momento dell’indipendenza delle ex repubbliche jugoslave, non era concessa d’ufficio a tutti i cittadini che vi risiedevano, ma andava guadagnata, dovendo dimostrare attraverso un esame di non essere “etnicamente difforme”, stando almeno al linguaggio burocratico croato[8].
Glossario bellico comparato: distruzioni urbane
Questa è la base sulla quale si è costruito l’equivoco identitario, sia in Ucraina, sia nell’ex Jugoslavia. La storia è molto più complessa e distribuisce equanimemente torti e ragioni, ma non sarebbe agevole riassumerla in poche pagine. Diciamo che dal momento dello scoppio del conflitto in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, si sono riviste alcune immagini e risentite parole d’ordine e slogan politici che non sarebbero apparsi fuori luogo durante il conflitto nell’ex Jugoslavia, in particolare durante le prime due fasi della guerra, comprese fra il 1991 e il 1995, che interessarono la Slavonia e l’entroterra della Dalmazia, regioni oggi comprese nel territorio della Repubblica di Croazia, nonché quasi integralmente l’intero territorio dell’attuale Stato bicefalo di Bosnia-Erzegovina, lacerato dal conflitto dal 1992 fino alla firma degli accordi di Dayton (1995).
Appaiono dunque evidenti le similitudini fin dall’aspetto visivo.
Quella in Ucraina non è la guerra d’inverno russo-finlandese e neppure un blitzkrieg sullo stile dell’invasione della Polonia. Semmai appare sempre più come una guerra d’attrito che rispecchia nella sua sclerotizzazione l’irrigidimento di entrambi i contendenti, gli uni talmente avulsi dalla realtà da crearsene una parallela quasi distopica ad uso propagandistico interno, gli altri illusi o quanto meno speranzosi di riuscire a liberare tutte le regioni occupate e disposti a farsi annientare fino all’ultimo uomo pur di difendere un pugno di macerie e qualche chilometro quadrato di sacro suolo nazionale.
Un conflitto che finisce per concentrare la sua forza distruttiva in modo particolare sui civili, sulle città e sui villaggi, presi di mira senza ritegno dalle artiglierie russe, rasi al suolo non tanto a imitazione delle coventrizzazioni del secondo conflitto mondiale, semmai per l’impossibilità di ottenerne una rapida conquista, dovendo pertanto fare tabula rasa di qualsiasi edificio, potenziale nascondiglio per i nemici, oppure forse, chissà, anche per sfregio[9].
Se Mariupol fosse caduta in pochi giorni sotto controllo russo oggi sarebbe ancora in piedi, solo un po’ malconcia, come la quasi gemella città di Kherson. Lo stesso si sarebbe potuto dire di Vukovar durante l’assedio dei serbi durato tre mesi. Se la JNA (Armata Popolare Jugoslava) e le milizie serbe di Arkan non avessero incontrato una resistenza croata ben organizzata, per nulla intesa ad arrendersi, non avrebbero continuato a martellare per settimane l’intero abitato, compreso il suo delicato centro storico barocco. Nel novembre 1991, a corollario della presa di Vukovar, ridotta in macerie, si seppe che i fanatici miliziani serbi non si erano risparmiati dal saccheggiare le poche abitazioni sopravvissute alla furia della guerra.
Echi di Vukovar anche a Bucha e a Irpin’. Echi di Vukovar persino nell’acciaieria Azovstal’ di Mariupol, se è vero che sempre nella cittadina della Slavonia le “Tigri” di Arkan dovettero sobbarcarsi la parte più difficile dell’opera, andando a stanare gli ultimi miliziani croati che si nascondevano nel reticolo delle cantine sottostanti agli edifici distrutti, in un disperato sforzo di resistenza.
Glossario bellico comparato: milizie etniche e Stati fantoccio
Miliziani quindi. Le “Tigri” di Arkan, ad esempio, soprannome di Želiko Ražnatović, una via di mezzo fra un avventuriero e un imprenditore faccendiere con legami nel sottobosco criminale belgradese e proprietario di alcune squadre di calcio, alleato del potere costituito a tal punto da affidare alle sue milizie, arruolate in gran parte fra i tifosi della “Stella Rossa”, spesso giovani disoccupati di periferia intortati dalla propaganda, il compito di affiancare l’esercito regolare e aiutarlo nel lavoro più sporco, la ripulitura di città, villaggi e campagne, con metodi spicci e possibilmente senza lasciare tracce[10].
Qualcosa del genere l’abbiamo visto in Ucraina nelle scorse settimane.
Come non paragonare le “Tigri” di Arkan ai cosiddetti Kadyrovcy, l’esercito privato, sebbene ufficialmente inquadrato nella Guardia Nazionale della Federazione Russa, del sanguinario presidente della Cecenia, il tristemente noto Ramzan Kadyrov? Non sono stati anch’essi accusati, i Kadyrovcy, di compiere il lavoro sporco, ovvero stanare e ripulire, e nel farlo di non andare troppo per il sottile con i nemici catturati? Un altro aspetto accomunerebbe Arkan a Kadyrov, oltre alla spregiudicatezza, al cinismo e all’alleanza con il potere: la smodata passione per il calcio.
Stati fantoccio. Le autoproclamate repubbliche secessioniste sono una novità dei conflitti post guerra fredda.
Si iniziò in grande stile proprio in Jugoslavia.
Nel dicembre 1991 l’oblast (un termine che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi) autonomo serbo della Krajina proclamò la sua indipendenza dalla Croazia col nome di Repubblica Serba di Krajina, con la sede del governo secessionista per un certo tempo stabilita nella cittadina dalmata di Knin, la veneziana Tenin. Krajina che venne liquidata nell’estate del 1995 da due operazioni militari croate coperte da abbondanti forniture militari occidentali[11].
Nel gennaio 1992 fu proclamata la Repubblica Serba di Bosnia (Republika Srpska), con capitale a Banja Luka. Presidente fino al 1995 fu il noto psichiatra-poeta Radovan Karadžić, poi messo da parte per ovvi motivi di opportunità. Non così lo Stato che, capolavoro diplomatico del presidente serbo-jugoslavo Slobodan Milošević, in seguito agli accordi raggiunti a Dayton (Ohio) nel dicembre 1995 fu salvato dallo scioglimento e rimase a costituire nella sua natura bicefala l’attuale compagine statale della Bosnia-Erzegovina, accanto alla Federazione Musulmano-Croata[12].
Più ambigua l’esistenza della Repubblica Croata di Herceg-Bosna, formatasi tra il 1991 e il 1992 e finita presto sotto il controllo di Mate Boban, un locale rappresentante del presidente croato Franjo Tudjman, che da Mostar guidò attacchi contro i musulmani bosniaci, facendo prendere a cannonate il celebre e storico ponte ottomano sulla Narenta. Allontanato Boban su pressioni statunitensi e trovato un accordo fra l’Herceg-Bosna e i musulmani bosniaci, la repubblica croata autoproclamata si sciolse di fatto nel 1994[13].
Torniamo al presente e ci troviamo con la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk, entrambe sul mercato degli Stati non riconosciuti dalla comunità internazionale fin dal 2014, assieme alla Repubblica di Crimea, annessa alla Federazione Russa in quello stesso anno. In entrambi i casi, che si tratti di Ucraina o di ex Jugoslavia, simili entità sono create ad arte per legittimare agli occhi dell’opinione pubblica interna la legalità del conflitto, nascondendo il proprio ruolo d’aggressore con una finzione giuridica. In fondo il casus belli della cosiddetta ‘operazione militare speciale’ risiedeva proprio nella necessità, dopo il riconoscimento ufficiale della Russia delle due repubbliche secessioniste ucraine, di garantire la sicurezza dei loro confini e l’integrità territoriale, messa a repentaglio dai legittimi tentativi ucraini di rientrarne in possesso.
I maliziosi potrebbero ricordare che questo strumento non è nuovo alla storia.
È lo stesso usato molto tempo addietro dalle amministrazioni americane per entrare in possesso di alcuni territori che non appartenevano legalmente agli Stati Uniti d’America: nel 1810 i coloni statunitensi insediati nel territorio spagnolo della Florida occidentale proclamarono una repubblica indipendente e chiesero l’annessione agli Stati Uniti, che fu subito accettata dal presidente James Madison; nel 1836 altri coloni americani stanziati in territorio messicano proclamarono l’indipendenza della Repubblica del Texas, repubblica riconosciuta dagli Stati Uniti l’anno dopo (dopo l’eroico sacrificio di Alamo) e annessa dal presidente John Tyler nel 1845; analogamente altri coloni statunitensi insediatisi nel territorio messicano dell’Alta California proclamarono la secessione nel 1846, finendo legalmente annessi agli Stati Uniti d’America nel 1848, alla conclusione del trattato di Guadalupe Hidalgo col Messico[14]. È l’attuale California, culla dell’industria cinematografica a stelle e strisce e delle Big Tech. Chi è senza peccato…
Ad ogni modo l’uso strumentale di Stati secessionisti autoproclamati (naturalmente su istigazione della potenza di turno) non era un’usanza diffusa nel nostro continente. Stati autoproclamatati erano esistiti, ma si trattava di entità sorte nel corso delle guerre mondiali, come ad esempio lo Stato Indipendente di Croazia, fra il 1941 e il 1944. Altri Stati, oggi scomparsi, che ebbero la funzione di produrre attriti e pretesti per interventi militari, erano comunque riconosciuti dalla comunità internazionale, come nel caso della Città Libera di Danzica.
Si può dire dunque che l’avvento di veri e propri Stati fantoccio guidati da improbabili classi dirigenti (imperdibile a questo proposto la biografia del presidente della Repubblica Popolare di Doneck, Denis Pušilin, resosi in passato protagonista di una truffa finanziaria basata sullo schema Ponzi e di altre amenità[15]) sia una novità introdotta in Europa dal conflitto in ex Jugoslavia, che ha trovato terreno fertile anche in Ucraina in seguito alla rivolta di Yevromajdan nel 2014.
Non erano una novità nello spazio ex sovietico, giacché fin dal 1990 esisteva una repubblica autoproclamata secessionista moldava nota come Transnistria, non riconosciuta ufficialmente da nessuno Stato, se non ufficiosamente dalla Federazione Russa. Transnistria che proprio in questi mesi è uscita dal cono d’ombra in cui era rimasta per quasi trent’anni, balzando agli onori della cronaca, quasi si trattasse di un’entità statale zombi pronta ad attivarsi per dare manforte all’invasore russo, che avrebbe così l’opportunità di stringere l’Ucraina meridionale in una tenaglia. Un’altra Krajina…
Glossario bellico comparato: storia, memoria collettiva e propaganda
Infine, l’uso strumentale della storia, attualizzata e piegata a fini propagandistici, che segnala peraltro la presenza di coscienze nazionali sporche che non hanno mai fatto fino in fondo i conti con il proprio passato.
Così i croati, liberati da Tito dal peso dell’essere stati dalla parte sbagliata della storia, appoggiando le potenze dell’Asse, istituendo nel 1941 uno Stato controllato dal movimento nazionalista fanatico degli Ustascia, guidato da Ante Pavelić, e macchiandosi fino al 1944 di atroci delitti e massacri ai danni soprattutto di serbi (civili e partigiani), ebrei e zingari, uccisi sovente con inaudita violenza, tale da lasciare sbigottiti persino i tedeschi, in altri casi deportati nel lager di Jasenovac, per citare solo il più noto, istituito sul modello dell’universo concentrazionario nazista[16].
Così gli ucraini i quali, pur essendosi guadagnati le stigmate del martirio in seguito alla carestia del 1932-33 indotta dalla politica di collettivizzazione forzata voluta da Stalin, nel corso del secondo conflitto mondiale e con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, si schierarono in gran parte con i tedeschi, primi fra tutti i capi carismatici di due fazioni dell’influente Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN), Stepan Bandera e Andrij Mel’nik, in un gioco perverso che vedeva in un primo tempo gli ucraini in prima fila nel massacrare ebrei, polacchi, sospetti comunisti e partigiani, in seguito a loro volta perseguitati dagli uomini di Hitler (annoverando fra le vittime gli stessi Bandera e Mel’nik i quali, dopo essersi sporcati le mani di sangue, pagarono il patto col diavolo finendo deportati nel lager di Sachsenhausen)[17] poiché, nella visione razzista hitleriana, si trattava pur sempre di slavi, pertanto subumani destinati a lasciare il posto alla razza tedesca che avrebbe dovuto colonizzare le loro terre.
Anche gli ucraini ebbero la coscienza ripulita grazie agli sforzi dell’Armata Rossa e delle forze partigiane locali, che infine ebbero la meglio contro i tedeschi.
Coscienza ripulita anche a forza di condanne a morte e deportazioni decretate da Josip Stalin ai danni dei collaborazionisti ucraini, veri e presunti, nell’immediato dopoguerra. Per entrambi i popoli tornati all’ovile vi fu persino un premio di consolazione territoriale: per la Croazia, divenuta Repubblica Popolare nella cornice della Repubblica Federativa Popolare Jugoslava, la città di Zara, alcune isole dalmate (Cherso, Lussino, Làgosta), Fiume e l’Istria, sottratte all’Italia in seguito al trattato di pace del 1947; per l’Ucraina, la Galizia orientale (con la città di Leopoli), la Volinia e la Rutenia subcarpatica (o Transcarpazia), cedute dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia all’Unione Sovietica e da questa girate alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, a cui si aggiunse nel 1954 la Crimea, regalo della dirigenza comunista moscovita all’Ucraina in occasione del trecentesimo anniversario della rada di Perejeslav[18], l’assemblea di magnati ucraini e atamani cosacchi che nel 1654 accettò di legare il territorio ucraino posto sulla riva sinistra del Dnepr allo Stato moscovita per garantirsi l’appoggio russo contro le mire polacche e tatare[19].
In entrambi i casi i fantasmi del passato erano pronti a tornare in vita.
Quando nel 1991 fu proclamata la secessione della Croazia dalla Jugoslavia la dirigenza belgradese non perse tempo ad accusare la neonata repubblica di voler instaurare una versione moderna del regime ustascia di Pavelić. E in effetti negli anni del conflitto era normale da parte serba, sia che si trattasse di militari regolari della JNA, sia che si trattasse di miliziani irregolari o al servizio delle repubbliche serbe secessioniste, rivolgersi all’indirizzo dei croati come “ustascia”, paventando addirittura il rischio di un nuovo genocidio ai danni del popolo serbo, come nel 1941-1944.
Non era importante che il croato in questione fosse il vicino di casa che attentava con la sua sola presenza alla purezza della nazione serba, oppure il combattente dell’esercito regolare di Zagabria: croato ergo ustascia[20].
Poi per accidente accadeva che esistesse davvero una formazione militare, guidata da Dobroslav Paraga, fondatore delle Forze di Difesa Croate (HOS), che si ispirava senza troppi scrupoli ai valori della destra ustascia[21]. Qualcosa di simile lo si è ritrovato nel conflitto in corso in Ucraina a proposito del celebre reggimento Azov, nel quale militano ancora numerosi e valorosi giovani nazionalisti ucraini che traggono ispirazione non già nell’ideologia nazionalsocialista, come propagandato da Mosca, ma nelle gesta del loro idolo, il collaborazionista filotedesco (e sterminatore di ebrei, comunisti e polacchi) Stepan Bandera. Visto da parte russa l’equazione è a questo punto facile: ucraino ergo banderista ergo nazista. E con questi presupposti è altrettanto facile sostenere che il genocidio dei russofoni è alle porte, anzi, sarebbe già iniziato da tempo, ma ignorato dai media occidentali.
D’altra parte lo stesso Viktor Juščenko, già presidente ucraino (2005-2010) assurto ad eroe senza macchia della cosiddetta rivoluzione arancione, nell’ormai lontano 2004, si spese in prima persona per far dichiarare Stepan Bandera eroe nazionale ucraino, dando avvio a un incosciente revival patriottardo che indusse città e villaggi a dedicare all’ambiguo patriota-collaborazionista monumenti, strade e piazze[22]. Così facendo gettando le basi per una legittimazione dell’assunto russo relativo alla dirigenza di un Paese finito in mano ai nazisti.
In una certa qual misura, stando ad alcune improvvide dichiarazioni giustificazioniste del defunto presidente croato Franjo Tudjman, che tra l’altro era uno storico di formazione, anche i serbi potevano avere qualche ragionevole appiglio per poter rivendicare la natura intrinsecamente ustascia del redivivo Stato indipendente croato. Visione falsata a fini propagandistici in entrambi i casi, tuttavia un’ulteriore analogia fra i due conflitti.
Sarebbe inoltre da considerare lo stato d’animo legato alla psicologia collettiva maturata negli ultimi vent’anni, alimentata dalla narrazione diffusa a livello governativo, ma anche da ampi settori dell’intellighenzia russa. Il Russkij Mir accerchiato da nemici, primi fra tutti i vassalli europei degli americani riuniti nella NATO (e fra costoro in prima fila la Polonia), compresi fra loro anche alcune ex repubbliche sovietiche che fanno la voce grossa con le spalle protette da Washington, tutti invidiosi della superiorità morale russa e della sua potenza militare e al tempo stesso indisposti a riconoscerne lo status di superpotenza che merita il dovuto rispetto (uvaženje), congiurando invece per minarne l’unità e la sicurezza. Vladimir Putin è stato chiaro nell’alludere a cosa andrebbero incontro i nemici della Russia se si opponessero alle sue legittime pretese. Così la Serbia, piccola nazione con ambizioni egemoniche a livello balcanico, protetta da Dio e dalla sua Chiesa autocefala, che dagli anni Ottanta del secolo scorso iniziò a percepirsi accerchiata da nemici interni alla federazione, parassiti che miravano a prosperare puntando a indebolire il ruolo di guida morale e politica della Serbia in ambito jugoslavo[23]. Un rabbioso stato d’animo, definito in lingua serba inat, che iniziò a serpeggiare fra le classi popolari, quindi fra la classe dirigente e gli intellettuali, approdando a fine secolo nella cieca fiducia accordata a Slobodan Milošević, elevatosi a giustiziere e portabandiera delle rivendicazioni serbe contro tutto e tutti, se necessario contro il mondo intero[24]. Fortunatamente la “Serboslavia” di Milošević non poteva contare su armi atomiche.
Siamo di fronte a una guerra civile inter-slava mascherata da conflitto tra sfere d’influenza? Russia contro Ucraina e Polonia, ma non solo
Quali conclusioni potremmo trarre da queste vicende? Sicuramente potremmo discutere se dallo scorso 24 febbraio ci si trovi al cospetto di un conflitto civile fra slavi orientali (ma non solo) con le sembianze di una classica guerra di conquista.
In Jugoslavia un simile conflitto scoppiò nell’immediato, fin dai giorni successivi alle dichiarazioni d’indipendenza delle repubbliche secessioniste, mentre in Ucraina sembra essere a scoppio ritardato di almeno tre decenni dalla frantumazione dell’Unione Sovietica. Pur tuttavia guerra civile. Per le ragioni etniche, storiche e culturali a cui si è accennato e perché il conflitto oppone non solo i due principali popoli della famiglia degli slavi orientali, ma rischia di avere ripercussioni serie anche fra gli slavi occidentali e meridionali.
Non si deve dimenticare infatti il ruolo della Polonia come antagonista storica e plurisecolare della Russia, che da anni sta giocando un ruolo fondamentale e che da quando è scoppiato il conflitto sembra scalpitare per giungere a un redde rationem definitivo con il perfido orso russo. Servendosi peraltro dell’Ucraina, una terra per secoli divisa da una linea di demarcazione fra lo Stato moscovita, poi divenuto impero russo, e il grande regno polacco-lituano.
Può contrapporre anche gli slavi meridionali, perché una linea di faglia, momentaneamente silente, rischia di attivarsi fra Croazia e Serbia, in quella Repubblica Serba di Bosnia sopravvissuta agli accordi di Dayton che non aspetta altro, stando a chiare ed inequivocabili dichiarazioni della sua classe politica, di proclamare la secessione dalla Bosnia-Erzegovina[25], essere riconosciuta dalla Russia e sperare in futuro di poter essere annessa alla Serbia.
Serbia che, a sua volta, in mancanza di chiari ed inequivocabili segnali della volontà bruxellese di integrarla nell’Unione Europea, potrebbe pensare di rivolgere le sue speranze alla storica amica e protettrice, la Russia.
Ci ricordiamo del viaggio a Belgrado, il 6 giugno 2022, del ministero degli esteri russo Sergej Lavrov, impedito dalla decisione di tutti i Paesi che circondano la Serbia di negare il sorvolo del loro spazio aereo? Chissà se a spingerli a questa decisione (di fatto uno sgarbo sia contro Mosca che contro Belgrado) non ci fosse il timore che la faglia si potesse riattivare a breve e che la missione affidata a Lavrov fosse proprio quella di accelerarne l’attivazione.
Un’altra di queste faglie balcaniche si è scoperta proprio negli ultimi giorni del mese di giugno essere indirettamente connessa con il fronte di guerra in Ucraina. Va ricordato infatti che nel Consiglio Europeo di Bruxelles del 23 giugno 2022, che ha concesso lo status di candidati all’ingresso nell’Unione Europea di Ucraina e Moldavia, è stato invece congelato dal veto della Bulgaria il processo di adesione all’Unione europea di Albania e Macedonia del Nord (quest’ultima ex repubblica jugoslava indipendente dal 1991), a sua volta iniziato nel 2005 per la Macedonia del Nord e nel 2014 per l’Albania con un processo analogo a quello stabilito nel 2022 per le due ex repubbliche sovietiche, ovvero la concessione dello status di candidato.
L’apparente disparità di trattamento fra l’autostrada verso l’Unione europea promessa a parole (parole a loro volta non prive di ambiguità) a Ucraina e Moldavia e il percorso tortuoso e incerto a cui sono tuttora sottoposti gli ultimi Stati balcanici rimasti fino ad oggi esclusi dal divenire membri dell’Unione Europea (oltre ad Albania e Macedonia del Nord: la stessa Serbia, candidata ufficialmente dal 2012 e con negoziati in corso; il Montenegro, candidato ufficialmente dal 2010 e anch’esso con negoziati in corso; la Bosnia-Erzegovina, non ancora riconosciuta candidata; il Kosovo è una storia diversa, visto che ufficialmente non è ancora riconosciuto indipendente da ben quattro Paesi membri dell’Unione, tra i quali la Spagna) ha prodotto malumori e mugugni, innanzi tutto proprio fra i vertici politici albanesi e nord-macedoni.
Il vuoto europeo nei Balcani ex jugoslavi e chi ne potrebbe approfittare
È un vuoto dunque, quello nei Balcani, prodotto dalla mancata inclusione nell’Unione europea di tutti i suoi Stati, che l’Unione da tempo avrebbe dovuto colmare, evitando così che le aspettative deluse per le troppo lunghe attese all’ingresso possano essere sfruttate da chi quel vuoto sarebbe ben disposto a colmarlo. Russia in primis.
Sarebbe inutile ricordare quanto siano stretti i legami storici e culturali fra Mosca e alcune nazioni dei Balcani, non solo, come si è detto, con la Serbia e il Montenegro, ma anche con la Bulgaria e in parte con la Grecia. Se la Russia potrà giocare un ruolo di guastatore e di avvelenatore dei rapporti fra Unione Europea e Balcani possiamo star certi che lo farà. E potrebbe proprio servirsi dei suoi storici legami con alcuni di quegli Stati per offrire appoggio politico alle rivendicazioni, oppure conforto alle recriminazioni.
Per esempio fornendo un appoggio politico alle rivendicazioni bulgare in Macedonia del Nord.
Il veto della Bulgaria, non dimentichiamolo, al di là dei recenti cambi di governo a Sofia, è nato per ragioni storiche, essendo la Macedonia, da un punto di vista bulgaro, fin dal medioevo parte integrante del suo spazio etnico-culturale[26]. Non è pertanto un veto facile da smantellare, al di là del fatto che sia stato formalmente ritirato il giorno dopo con voto del parlamento bulgaro, perché possiamo stare certi che servirà un negoziato complesso per poter disinnescare le tensioni che l’hanno prodotto e in ogni caso, anche così, la questione bulgaro-macedone potrebbe riemergere come un fiume carsico a distanza di anni, sotto forma di recriminazioni da parte di alcuni partiti sensibili ai richiami nazionalistici nei confronti di un compromesso giudicato svilente per l’identità nazionale bulgara[27]. Peraltro è piuttosto evidente che le ragioni che hanno indotto la Bulgaria a tentare di fermare il processo di adesione all’Unione Europea della Macedonia del Nord non sono molto differenti da quelle che hanno spinto i russi ad assicurarsi con le armi che l’Ucraina non entrasse mai nella NATO. Alla base c’è la convinzione, fondata su dati storici, etnici e culturali non facilmente contestabili, che alcuni Stati resisi recentemente indipendenti a causa dello sfaldamento di compagini statali plurinazionali, siano parte integrante e inalienabile delle nazioni confinanti più grandi: della nazione russa l’Ucraina e di quella bulgara la Macedonia del Nord. E naturalmente si ritiene che questi Stati di recente nascita non rappresentino nazioni a sé stanti.
Un giusto riconoscimento al gran principe Svjatoslav di Kiev
Abbiamo iniziato dall’ex Jugoslavia citando una pellicola cinematografica, terminiamo con la Bulgaria citando un passo della Cronaca di Nestore, un trattato storico sulla rus’ di Kiev opera di due monaci kievani, Nestore e Silvestro, datata al 1111, la cui copia più antica tra l’altro è un manoscritto trecentesco conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze[28]. Si racconta in questa cronaca che il gran principe Svjatoslav I, sovrano della rus’ di Kiev tra il 962 e il 972, sarebbe stato invitato dall’imperatore bizantino Niceforo Foca a guidare un’operazione militare congiunta contro il regno dei Bulgari, che occupava indebitamente le regioni comprese fra il Danubio, la Tracia e la Macedonia, allora parti integranti della compagine imperiale bizantina.
Al valoroso Svjatoslav, che nei confronti della dell’impero greco di Bisanzio nutriva ammirazione e timore reverenziale, non parve vero di poter dare una mano al βασιλεύς e si impegnò così efficacemente a soddisfare le richieste della corte di Costantinopoli da riuscire ad espugnare nel 968 la capitale stessa dei bulgari e occuparne per un certo tempo l’intero territorio. Il guaio fu che Svjatoslav si innamorò dei paesaggi e del clima balcanico e nella già citata Cronaca di Nestore si legge infatti che il gran principe kievano avrebbe dichiarato:
«non mi importa di rimanere a Kiev, perché preferirei vivere a Perejaslavez sul Danubio [città non più esistente situata nella Dobrugia settentrionale, attualmente in Romania], essendo quello il centro del mio regno, in cui tutte le ricchezze sono radunate: oro, seta, vino e vari frutti provenienti dalla Grecia, argento e cavalli provenienti dall’Ungheria e dalla Boemia, e dalla Russia [inteso lo Stato kievano] vengono pellicce, cera, miele e schiavi»[29].
C’è da chiedersi in effetti, e se lo chiese alcuni decenni fa anche lo storico Nicholas V. Riasanovsky, quali sarebbero state le possibili implicazioni se questo tanto sospirato trasferimento della capitale russa sulle sponde danubiane fosse effettivamente avvenuto.
Noi che assistiamo da inquieti spettatori allo svolgersi dell’operazione militare speciale nelle regioni orientali dell’Ucraina possiamo senz’altro immaginare quale avrebbe potuto essere una delle implicazioni. E dunque ci sentiamo in diritto di rivolgere un ringraziamento al gran principe di Kiev Svjatoslav, senza timore di recargli offesa, per non essersi trasferito, lui, la sua corte e il suo Stato, sulle rive del Danubio.
[1] Francisco Villar, Los indoeuropeos y los orígenes de Europa. Lenguaje e historia, II ed., Madrid, Gredos, 1996, 530 p.; trad. it. Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, Bologna, il Mulino, 1997, 681 p. [si vedano, in particolare le pp. 414-423].
[2] Nicholas V. Riasanovsky, A History of Russia, Oxford, Oxford University Press; 2018, 752 p.; trad. it. Storia della Russia dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1989, 730 p. [si vedano, in particolare le pp. 33-38].
[3] Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, il Mulino, 1995, 225 p. [si vedano, in particolare le pp. 11-12 e pp. 87-88].
[4] Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, op.cit. alla nota precedente, pp.104-106.
[5] Andreas Kappeler, Rußland als Vielvölkerreich. Entstehung. Geschichte. Zerfall, Monaco di Baviera, C. H. Beck, 2001, 395 p., trad. it., La Russia. Storia di un impero multietnico, Roma, Edizioni Lavoro, 2006, 485 p. [si vedano le pp.15-25].
[6] Si vedano, ad esempio, le vicende che, fra XII e XIII secolo, portarono a spostare il baricentro della rus’ dal sudovest (Kiev) al nordest (Vladimir, Suzdal’, in seguito Mosca) sotto i discendenti del gran principe kievano Vladimiro II Monomaco, nel contesto di una continuità dinastico-istituzionale possibile sulla base di una sufficiente omogeneità etnico-linguistica dei popoli soggetti (pur con la presenza in quel vasto spazio geografico di corpi estranei, come variaghi e finnici, inclusi nella rus’ e assimilati, nonché di popoli ostili, come peceneghi, poloviciani/cumani, mongoli e tatari, nemici della rus’ e ad essa rimasti estranei), omogeneità linguistica che soltanto nei secoli successivi, complici la distanza geografica fra Mosca e Kiev e la divisione politica del territorio attualmente ucraino, avrebbe iniziato a presentare sempre più marcate differenziazioni, tali da far individuare nella variante linguistica ucraina, a seconda dei punti di vista, un dialetto russo o una lingua a sé stante. In ogni caso è innegabile il legame storico che unisce Kiev a Mosca e l’affermazione che la rus’ di Kiev sarebbe l’antenata dell’attuale Ucraina indipendente si presta a ovvie contestazioni. Cfr. Nicholas V. Riasanovsky, Storia della Russia …, op.cit. alla nota 2, pp. 96-101.
[7] In contesti particolarmente intricati sotto l’aspetto etnico-culturale, come quello istriano, interessato non solo dalla dicotomia fra popolazioni latine (identificate in seguito come istro-venete e poi italiane) e slave (slovene, croate, morlacche, savrine), ma anche dalla presenza di genti etnicamente miste (slavo-latine) e appartenenti ad altri gruppi etnici (ad esempio i cici, di origine romena), l’identificazione nazionale dei singoli individui, spesso bilingui, era esemplificata dal loro luogo di residenza: gli abitanti dei principali centri urbani costieri, talvolta con cognomi di sicura origine slava, tendevano così a identificarsi come italiani, mentre quelli dell’entroterra prediligevano l’identità croata o slovena, non senza contraddizioni onomastiche anche in questo caso. Cfr. Egidio Ivetic, Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900), Roma, Viella, 2014, 328 p. [si vedano in particolare le pp. 177-194].
[8] Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni. Le guerre balcaniche di fine secolo, Milano, Feltrinelli, 1999, 212 p., [pp.186-187].
[9] L’architetto belgradese Bogdan Bogdanović (1922-2010), autore di numerosi memoriali e cenotafi nella Jugoslavia titina, frattanto che invitava i suoi studenti a disertare, ritrovandosi conseguentemente la porta del suo appartamento segnata da scritte che indicavano l’abitazione di un “nemico della nazione” (anche di questo si è letto negli scorsi mesi, a proposito di analoghe scritte comparse sull’uscio di casa di alcuni noti oppositori russi all’operazione militare speciale), si domandava:
«C’è un particolare della nostra guerra civile che non riesco davvero a capire. E cioè perché la strategia militare si è prefissa come obiettivo principale la distruzione delle città. […] A peggiorare le cose c’è il fatto -quasi diabolico- che sono tutte città di grande splendore, come Osijek, Vukovar, Zadar [Zara], e adesso persino Mostar e Sarajevo».
Bogdanović si riferiva poi al bombardamento di Dubrovnik [Ragusa] come al gesto di un folle che sfigura una bellissima donna per prometterle un volto ancora più perfetto, evidentemente depurato delle imperfezioni etniche, definendolo pertanto come una sorta di “massacro rituale delle città”. Cfr. Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni. …, op.cit. alla nota 8, p.101.
[10] Ibidem, pp. 64-68.
[11] Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, op.cit. alla nota 3, pp.143-147.
[12] Ibidem, p.79.
[13] Ibidem, pp. 144-146.
[14] Maldwyn A. Jones, The Limits of Liberty: American History (1607-1992), Oxford, Oxford University Press, 1983-1995, 752 p.; trad. it., Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 2015, 664 p. [si vedano n particolare p. 94, pp. 160-161 e pp. 167-169].
[15] Pjotr Saur, “Their golden hour: Donetsk and Luhansk leaders revel in rising profile”, The Guardian, 24 febbraio 2022.
[16] Al di là dei numerosi riferimenti bibliografici sulla tragica esperienza dello Stato Indipendente di Croazia, si può anche fare riferimento alle pagine con cui Curzio Malaparte descrisse a tinte fosche l’orrore della violenza ustascia. Ad un incontro fra Malaparte e il poglavnik (il capo del regime croato) Ante Pavelić, quest’ultimo ricevette nel suo ufficio un paniere di vimini:
«mentre si parlava, io osservavo un paniere di vimini posto sulla scrivania, alla sinistra del Poglawnik. Il coperchio era sollevato, si vedeva che il paniere era colmo di frutti di mare, così mi parvero, e avrei detto di ostriche, ma tolte dal guscio, come quelle che si vedono talvolta esposte, in grandi vassoi, nelle vetrine di Fortnum and Mason, in Piccadilly a Londra. Casertano [Raffaele Casertano, Ministro plenipotenziario d’Italia presso il governo croato] mi guardò, stringendo l’occhio: “Ti piacerebbe, eh, una bella zuppa di ostriche!”. “Sono ostriche della Dalmazia?” domandai al Poglawnik. Ante Pavelic sollevò il coperchio del paniere e mostrando quei frutti di mare, quella massa viscida e gelatinosa di ostriche, disse sorridendo, con quel suo sorriso buono e stanco: “È un regalo dei miei fedeli ustascia: sono venti chili di occhi umani”.
In Curzio Malaparte, Kaputt, Napoli, Casella, 1944, 691 p. Poi quarta edizione definitiva: Milano, Daria Guarnati, 1948, XII-484 p. Oggi fra le varie edizioni segnaliamo quella negli Oscar con un’introduzione di Mario Isnenghi: Milano, Mondadori, 1978, 455 p. Si veda in particolare il capitolo XIII: Un paniere di ostriche.
[17] Giulia Lami, Ucraina 1921-1956, Milano, Cuem, 2008, 154 p. [si vedano le pp. 84-91].
[18] Giulia Lami, Ucraina 1921-1956, op. cit. alla nota precedente, p.121.
[19] Nicholas.V. Riasanovsky, Storia della Russia …, op.cit. alla nota 2, pp.185-187.
[20] «Il popolo serbo è di nuovo minacciato da un genocidio» (naturalmente da parte degli ‘ustascia’ croati e dei loro alleati musulmani, nel caso anche da parte degli albanesi nel Kosovo) era la frase ricorrente nei comizi di Vuk Drašković, fondatore e leader nazionalista radicale del partito Rinnovamento Nazionale Serbo, a parole antagonista, ma nei fatti fiancheggiatore di Milošević. Cfr. Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni. …, op.cit alla nota 8, pp.121-122.
Nel villaggio di Hrtkovci, circa 3 mila abitanti tra Novi Sad e Belgrado, venivano affissi alle case dei foglietti che invitavano gli abitanti di origine croata a sloggiare: «in caso contrario ti butteremo fuori molto in fretta e lo stesso vale per altre camicie nere ustascia». Nello stesso centro abitato durante un comizio del Partito Radicale Serbo (estate 1991) fu letta una lista di persone indesiderate, donne comprese, definite, sebbene fossero serbe ma sposate a croati, «troie degli ustascia». Ibidem, p. 196.
[21]Ibidem, p.189.
[22] Miłosz J. Cordes, “Polonia e Ucraina, storie contro”, Limes, XXX (2), febbraio 2022, pp.134-135.
[23] Importante citare, a questo proposito, il Memorandum dell’Accademia serba delle scienze e delle arti, redatto nel maggio 1985 e pubblicato nel settembre 1986 sul popolare quotidiano Vecernje Novosti. Nel documento si parlava esplicitamente di una “coalizione antiserba” in seno alla repubbliche jugoslave, volta a ridurre il peso specifico della Serbia all’interno della federazione. Cfr. Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni. …, op.cit. alla nota 8, pp.83-85.
[24]Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, op.cit. alla nota 3, pp.70-71.
[25] Fabio Tonacci, “In Bosnia dove torna l’incubo della guerra: ‘rischio secessione’”, La Repubblica, 27 novembre 2021
[26] In due occasioni e per un periodo complessivo di quasi tre secoli l’attuale territorio della Macedonia del Nord fu incluso in compagini statuali bulgari, rispettivamente nel primo Impero bulgaro, esteso da Simeone I fino al cuore dell’Albania (fine IX secolo-inizio XI), e nel secondo Impero bulgaro, quando la dinastia degli zar Asen spinse i confini fino all’Adriatico e all’Egeo (1186-1396), conglobando per la seconda volta l’intera Macedonia. La città macedone di Ocrida (Ohrid), sulle rive dell’omonimo lago, divenne sotto la protezione del primo sovrano bulgaro, Boris, un centro di irradiazione del cristianesimo fra tutti i popoli slavi dei Balcani, grazie all’opera del monaco Clemente (morto nel 916), vero inventore dell’alfabeto che quindi impropriamente definiamo cirillico. Non è un caso che la principale università bulgara, quella di Sofia, sia ufficialmente denominata Sofijski Universitet “Sv. Kliment Ohridski”. Il legame che univa la popolazione slava dell’odierna Macedonia del Nord alla Bulgaria (la cui lingua è ritenuta una variante del bulgaro) riemerse prepotentemente secoli dopo tra Ottocento e Novecento. Dapprima attraverso la nascita dell’ORIM (Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone; in bulgaro VMRO), nata in funzione anti-ottomana nel 1893 e per lungo tempo guidata dal bulgaro Goce Delčev. Nel 1903 l’ORIM organizzò una sollevazione popolare durante la festa di Sant’Elia (Ilinden), estesa all’intero eyalet di Monastir (Bitola), fondando un’effimera repubblica abbattuta in pochi mesi dalla feroce rappresaglia ottomana. I vertici dell’ORIM sopravvissuti alla repressione ripararono in Bulgaria. Entrata la regione a far parte del Regno di Serbia, in seguito alla due guerre balcaniche (1913), durante la prima guerra mondiale fu occupata dalla Bulgaria (1914-18), che intendeva ristabilirvi il suo dominio, e così anche durante la seconda guerra mondiale (1941-44), quando fu anche ufficialmente annessa, tornando poi alla Jugoslavia. Per una sintesi delle vicende degli ultimi due secoli, cfr. Georges Castellan, Histoire des Balkans (XIVe-XXe siècle), Paris, Fayard, 1991, 643 p. Trad.it., Storia dei Balcani. XIV-XX secolo, Lecce, Argo, 1996, 614 p. [si vedano in. particolare, le pp. 402-410, pp. 425-430 e pp. 517-520].
[27] Federico Baccini, “Il Parlamento della Bulgaria ha approvato la revoca del veto alla richiesta di adesione UE della Macedonia del Nord”, EuNews, 24 giugno 2022 (https://www.eunews.it/2022/06/24/parlamento-bulgaria-approva-revoca-veto-richiesta-adesione-ue-macedonia-nord/).
[28] Nichola.V. Riasanovsky, Storia della Russia …, op.cit. alla nota 2, p. 66.
[29] Ibidem, p.43.