Lucio Leante, giornalista e scrittore già corrispondente dell’Ansa a Mosca, in un pezzo per Democrazia futura rievocando 110 anni dopo “Il delirio bellicista degli intellettuali interventisti (1914-1918)” spiega quello che nell’occhiello definisce “Le ragioni per le quali si produsse una forte avversione per i fondamenti della civiltà europea”. “Il delirio degli intellettuali interventisti del 1914-15 dovrebbe essere un monito per l’oggi. In particolare per quei politologi, professori, giornalisti, conduttori televisivi di oggi che, davanti a nuovi conflitti, sembrano ripetere la retorica e le illusioni di allora. Molti sembrano infatti pronti a demonizzare questo o quel Paese (come allora si fece con la Germania) o, sulla base di frettolose e terrorizzanti analogie (con una propagandistica e pericolosissima “reductio ad Hitlerum, questo o quel leader; a scovare nella guerra virtù democratiche e pacificatrici o persino coltivando, come allora, l’illusione che la guerra in corso sia finalmente quella buona e giusta, perché eviterebbe futuribili e più pericolose guerre o sia quella che finalmente metterebbe fine a tutte le guerre. Già visto e sentito”.
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Una vera frenesia bellicista pervase molti intellettuali europei alla vigilia della prima guerra mondiale. La guerra venne vista da molti di loro come “la soluzione” non solo dei problemi nazionali irrisolti, ma anche addirittura alla crisi della civiltà europea. Molti scrittori, poeti ed artisti la auspicarono come un lavacro purificatore, un’ordalia rigeneratrice del vecchio continente vissuto, nonostante che proprio nella belle époque avesse toccato i vertici dei suoi successi economici, tecnici e sociali, come putrescente, corrotto ed ormai irrimediabilmente avviato al tramonto.
Alcuni videro la guerra come un’alternativa alla “rivoluzione” o come una sua premessa o una scorciatoia o un mezzo per costringere le “masse amorfe” a partecipare alla rigenerazione di un mondo che solo gli intellettuali, nel mezzo di una società gaudente, vivevano sia come “disumano” e “invivibile”, sia come in agonia. Quegli intellettuali andarono al fronte come a una festa, a un rito purificatore, a cui era doveroso e bello prender parte perché avrebbe inaugurato una nuova lunga era di pace e di felicità universale.
Quelle illusioni erano anche l’effetto di un misto di umori catastrofisti e di cieche speranze palingenetiche che si erano diffusi nei decenni precedenti. Che si sia trattato di un delirio collettivo lo dimostrano i successivi pentimenti degli interventisti e soprattutto il fatto che, dopo la guerra, nessuna delle “rigenerazioni” e “purificazioni” previste dagli interventisti si realizzò. La guerra, dopo avere generato un’inutile strage di milioni di uomini e donne, creò le premesse dell’avvento al potere dei totalitarismi in Russia e in Germania, mentre in Italia generò un regime autoritario di massa con alcune caratteristiche totalitarie. Essa pose anche le premesse per lo scoppio della seconda guerra mondiale e fu perciò il primo atto di quello che gli storici di oggi chiamano il “suicidio dell’Europa.
“Ed ecco che il 28 giugno 1914 echeggiò la rivoltellata di Sarajevo, la quale in un attimo solo mandò in frantumi, quasi fosse un vaso vuoto di coccio, il mondo della sicurezza e della ragione creatrice, in cui noi avevamo avuto educazione e dimora”. Quella guerra “era staccata dalla realtà, ma serviva ancora a fare persistere una illusione: il sogno di un mondo migliore, giusto e pacifico. Ma soltanto l’illusione, non la verità, rende felici. Per questo allora le vittime si avviarono al macello inneggiando e cantando, con i fiori e i ramoscelli di quercia sull’elmetto, mentre le strade splendevano ed echeggiavano come a una festa”[1].
Thomas Mann, subito dopo lo scoppio del conflitto europeo, che solo pochi avevano presentito, scrisse:
“Non avevamo creduto alla guerra. La nostra intelligenza politica non era bastata a farci riconoscere la necessità della catastrofe europea. Quali esseri morali avevamo visto arrivare la calamità. Direi di più: in un certo senso la avevamo invocata. Il nostro io più profondo aveva sentito che il mondo, il nostro mondo, non poteva più proseguire. Questo mondo di pace e di costume da can-can, un mondo atroce che ora non è più o per lo meno non sarà più quando l’uragano sarà passato. Non vi brulicavano parassiti dello spirito come vermi? Non fermentava e non puzzava per il decomporsi della civilizzazione? Come avrebbe potuto l’artista, il soldato nell’artista non lodare Iddio per il crollo di quel mondo di pace che era così sazio, così nauseante. Guerra. Quale senso di purificazione di liberazione di immane speranza ci pervase allora. Ecco di questo parlavano i poeti, solo di questo. Era la guerra di per sé stessa ad entusiasmarci. La guerra quale calamità, come necessità morale”.
Lo storico italiano Emilio Gentile, ricordando quella pagina di Mann, ha commentato:
“Mann esaltava la guerra come il grande evento purificatore per un mondo, quello della belle époque, visto come un mondo corrotto, verminoso, nauseante, putrefatto, tanto che bisognava invocare una guerra, volere una guerra e partecipare ad una grande guerra per poterlo purificare”.
L’ansia di “purificazione” del mondo europeo fu il sentimento comune che spinse molti intellettuali di diverso orientamento culturale e politico a vedere nella violenza bellica o rivoluzionaria il solo mezzo per rigenerare la società europea.
Da quale logica o ragionamento nascessero quelle convinzioni e quelle speranze salvifiche è un mistero ancora oggi insoluto perché le motivazioni addotte dagli interventisti non sono oggi comprensibili e fanno pensare appunto ad un delirio collettivo.
Il delirio interventista in Italia
Il delirio bellicista e interventista che si si diffuse tra gli intellettuali europei alla vigilia della Prima guerra mondiale è particolarmente visibile in Italia nel periodo (giugno 1914-maggio 1915) della sua indecisione dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia e dopo la dichiarazione di neutralità dell’Italia.
La neutralità era sostenuta da cattolici, socialisti, liberali giolittiani e dalla maggioranza del Parlamento e delle masse popolari. Tuttavia su di essa prevalse di una minoranza che vide nella guerra, in una contagiosa frenesia irrazionalista, la soluzione ad ogni problema nazionale e, per alcuni anche europeo.
L’irrazionalità delle posizioni interventiste è evidente nell’atteggiamento dei nazionalisti che in un primo tempo avevano chiesto l’intervento a favore degli imperi centrali austriaco e tedesco come lotta delle nazioni proletarie contro quelle “plutocratiche” (Francia e Inghilterra), ma poi virarono a favore di queste ultime, per irredentismo scoprendo che la Germania era stata da sempre il nemico storico dell’Italia come portato dell’antitesi bimillenaria in Europa “tra pensiero latino e pensiero germanico”. Insomma si voleva la guerra per la guerra.
Alla guerra comunque
“bisognava parteciparvi e, non potendo in un campo, ebbene nell’altro”[2].
L’esaltazione della guerra in quanto tale contagiò molti intellettuali che a quella frenesia cercarono di dare varie, ma poco convincenti, giustificazioni “logiche”. In generale si presentava la guerra come catarsi, ordalia sacra, festa crudele, lavacro di sangue purificatore.
I più fanatici interventisti accanto ai nazionalisti furono i letterati, gli scrittori e i poeti. Esteti armati, futuristi, dannunziani, carducciani presero ad esaltare la guerra come una soluzione dei problemi storici lasciati aperti dal Risorgimento e dall’unificazione nazionale, come catarsi purificatrice nel corso della quale si sarebbero forgiati il carattere, l’unità e l’identità degli italiani.
Tra le varie motivazioni della campagna interventista troviamo quella dell’annessione delle popolazioni italiane “irredente” che vivevano nell’impero austro-ungarico, come quelle di Trento, Trieste ed altre città istriane e dalmate e l’avversione politica e culturale alla Germania militarista ed imperiale, una cui vittoria – si temeva – avrebbe reso la Germania egemone e totalizzante anche ai danni dell’Italia.
Ma erano diffuse anche motivazioni più generali e culturali: la guerra avrebbe rigenerato non solo l’Italia, ma l’Europa intera, una vittoria delle democrazie liberali avrebbe contagiato e risanato anche gli imperi centrali autoritari e militaristi mentre una vittoria della Germania avrebbe significato la vittoria della tecnica sull’umanesimo latino (italiano e francese).
Le varie motivazioni confluivano poi in un’avversione profonda per il vecchio statista liberale Giovanni Giolitti, leader dei neutralisti, dipinto da molti a tinte fosche come il “ministro della malavita” che si opponeva, forse perché “amico dell’Austria”, al riscatto dell’Italia (e per alcuni anche dell’Europa) dai suoi mali storici.
Molti ripeterono il vecchio mantra: era la guerra che avrebbe abolito tutte le guerre.
Tra questi ci fu Giuseppe Ungaretti, il quale fu fervente interventista in nome degli ideali universali di uguaglianza e libertà, (ma anche, nato ad Alessandria d’Egitto, per un desiderio personale di italianizzazione). Egli, dopo le sue tragiche esperienze sul Carso, a guerra finita, ricordò:
“l’avevamo voluta, ci sembrava che fosse l’ultima guerra, che fosse la guerra per liberare l’uomo dalla guerra”.
Poi, dopo aver toccato con mano l’orrore, si pentì e scrisse che la guerra era sempre stata e sarà sempre “l’atto più bestiale dell’uomo”. Scrisse anche le sue più strazianti poesie di guerra manifestando una coscienza infelice dilaniata dai ricordi e dai rimpianti.
Uno degli interventisti più fanatici, in Italia, fu il nicciano ed ex-futurista Giovanni Papini: sosteneva la necessità della guerra come rivalsa italiana rispetto agli altri popoli europei, ma anche come rivoluzione rigeneratrice e riscatto italiano ed europeo dalla mediocrità, dalla corruzione e dalla miseria spirituale, dal “letame” politico ed umano: la guerra – diceva- avrebbe generato un salutare risveglio e ricambio generazionale. Lo stesso Papini, che fu esonerato dal servizio militare per la sua forte miopia, restò a casa sua a Firenze, ed ebbe così il tempo ed il modo poi per pentirsi (come vedremo in seguito) di questo suo interventismo bellicoso della prima ora e, anche per questa sua crisi di coscienza, si convertì al cristianesimo.
Papini e Ardengo Soffici nell’editoriale introduttivo del numero del 15 agosto 1914 di Lacerba spiegarono che non si poteva restare neutrali e indifferenti perché non si trattava solo di uno scontro tra due stati, ma di uno scontro fra due culture: il pangermanesimo tedesco da un lato e, dall’altro, la cultura latina, rappresentata dalla Francia sotto attacco.
Furono interventisti praticamente tutti gli intellettuali che animavano la rivista La Voce. Giuseppe Antonio Borgese, che pure era professore universitario di letteratura tedesca e Ugo Ojetti, in due pamphlet usciti nel 1915, dopo dotte analisi delle condizioni storico culturali, conclusero entrambi che la Germania era il nemico contro il quale schierarsi. Per il circolo de La Voce la finezza della cultura latina doveva vincere contro la rozzezza delle armi teutonica. La sfida era tra l’esercito degli uomini e quello delle macchine. Questa posizione umanistica era anche polemica verso i futuristi, contro il loro culto della modernità tecnica e delle armi e l’oblio distruttivo e programmatico dell’intera cultura del passato preconizzato dall’avanguardia marinettiana. La rivista fiorentina in generale parlava di una guerra culturale tra l’individuo, l’uomo rinascimentale italiano (fiorentino) e la tecnica militare.
Giuseppe Prezzolini e l’interventismo liberale e cosmopolita
Tra i vociani fu interventista precoce persino il liberale crociano Giuseppe Prezzolini. Le sue motivazioni non erano solo e tanto nazionali. Egli fu sempre contrario alle motivazioni irredentiste, espansioniste e imperialiste dei nazionalisti e sottolineava da “idealista militante” soprattutto motivazioni liberali, internazionaliste e cosmopolite.
Una “catastrofe palingenetica”, una “guerra rigeneratrice”, avrebbe continuato l’opera di demolizione del vecchio uomo e del vecchio “ordine di Dio”, inaugurando in tutta l’Europa un nuovo ordine, la civiltà di un “uomo nuovo moderno” liberato del tutto dai residui religiosi trascendenti. L’Italia non poteva sottrarsi all’“esame della storia” per il rinnovamento generale e per l’avanzamento della “religione dell’uomo moderno” in Europa e in tutto il mondo.
Prezzolini, nel corso del 1914, in diversi articoli, pungolò ripetutamente Benito Mussolini a passare dal neutralismo all’interventismo. Prezzolini collaborò con il giornale Il Popolo d’Italia uscito nelle edicole dal 15 novembre con un editoriale del suo fondatore e direttore Mussolini, che si concludeva con un saluto “ai giovani d’Italia” appartenenti “alla generazione cui il destino ha commesso di fare la storia”, incitandoli all’azione con “una parola paurosa e fascinatrice: guerra!”. Quando il 24 novembre 1914 Mussolini fu espulso dal Partito socialista per avere scelto l’interventismo, Prezzolini con altri vociani, tra cui Giovanni Amendola e Leonida Bissolati, gli mandò un telegramma
“Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie”.
Egli partecipò alle radiose giornate dal 12 al 14 maggio 1915 e persino all’assalto a Montecitorio in polemica con il neutralismo dei giolittiani. Si scontrò per questo anche con il suo venerato maestro Benedetto Croce, contrario alla guerra perché l’Italia non vi era preparata, perché non necessaria e non sentita dagli italiani. Nonostante Croce lo invitasse ripetutamente ad annacquare il suo “vino idealista”,
Prezzolini non cambiò idea e contraddisse il suo maestro per ragioni morali (la neutralità significava -per lui- “viltà”) e politiche (i vincitori, chiunque fossero stati– diceva- avrebbero fatta pagare cara la neutralità all’Italia). “Meglio vinti che neutrali” – rispose a Croce. Poi sul fronte Prezzolini, come molti altri interventisti, cambiò drasticamente idea, come vedremo.
Gaetano Salvemini e l’interventismo democratico
Anche Gaetano Salvemini fu, come Prezzolini, un interventista atipico, alieno da esaltazione belliciste ed ostile alle motivazioni espansioniste ed imperialiste dei nazionalisti.
Fu infatti, insieme a Leonida Bissolati, uno dei capifila del cosiddetto interventismo democratico che giustificava la guerra per affermare il principio di nazionalità (assimilava la Serbia del tempo al Piemonte del 1859) e quello di democrazia negati dagli imperi autocratici austro-ungarico e tedesco dei quali auspicava apertamente la distruzione alla luce dell’auto-determinazione dei popoli in linea con la posizione del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson.
Nell’ottobre del 1914 si complimentò con lo stesso Mussolini per aver abbandonato le posizioni neutraliste ed il partito socialista, auspicando la formazione di un nuovo partito socialista interventista.
“La vittoria della Germania sulla Francia – egli diceva – sarebbe considerata come la prova della incapacità della democrazia a vivere libera accanto ai regimi politici autoritari e scatenerebbe su tutta l’Europa i danni e le vergogne di una lunga reazione anti-democratica”[3]
La guerra era per lui un mezzo per creare un nuovo ordine internazionale, capace di garantire per un lungo periodo la pace:
“bisognava che questa guerra uccidesse la guerra”[4].
Anch’egli si arruolò volontario ma fu congedato per malattia nel dicembre del 1915.
Carlo Emilio Gadda
Carlo Emilio Gadda, anche lui interventista della prima ora, mantenne a lungo la sua fede nella necessità della guerra. Nel suo Giornale di guerra e di prigionia del 1916 pur narrando l’orrore, le assurdità militaresche, le incapacità dei comandi, la definiva “necessaria e santa”,
Abbondano nel diario dello scrittore-soldato vocaboli come gloria, bellezza, civiltà, arte, giustizia, progresso, giustezza della causa, eroismo, nobilitazione della patria. Vi si trova anche l’esaltazione del pericolo e della prospettiva della “morte utile e bella” al fronte nonché aggettivi come “sublime”, “divino”, “fulgido”, “sacro”, “santo”, “splendido”. D’altra parte, nello stesso Giornale abbondano anche i racconti realistici dei combattimenti di guerra, i massacri anonimi, gli stermini, gli ordini stupidi e micidiali, le morti massicce e vane, le agonie e le ferite atroci, la riduzione dell’uomo al livello di materiale bellico. Nell’ottobre del 1917 fu preso prigioniero e trasferito in un campo di concentramento in Germania dove patì la fame ed il freddo.
Tuttavia ancora nel 1934 nel suo libro Il Castello di Udine scriveva:
“Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. […] E il mio giudizio circa la necessità della guerra è rimasto sostanzialmente coerente”. E anche: “In guerra ho passato alcune ore delle migliori della mia vita, di quelle che m’hanno dato oblio e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità”.
Corrado Alvaro
Anche il calabrese Corrado Alvaro fu accesissimo interventista nel 1913-14, tanto da essere per questo arrestato. Dopo il periodo di istruzione militare a Firenze, andò al fronte col grado di sottotenente di fanteria. Fu ferito alle braccia nel 1915, sul Monte Sei Busi sul Carso. Anche lui si pentì del suo interventismo.
Nel romanzo Vent’anni del 1930, il suo disincanto si fece cruda denuncia delle illusioni dei guerrafondai, dell’aspra condizione del soldato contadino e dello sgomento esistenziale dei soldati ventenni. Non guerrieri né cavalieri, ma contadini e artigiani, i fanti immersi nelle viscere della terra, combattevano e morivano non per la grandezza dell’Italia, ma per il loro senso dell’onore.
Dopo il delirio
La guerra smentì del tutto tutte le aspettative nutrite alla vigilia dagli intellettuali europei che erano andati al fronte con entusiasmo e con la falsa coscienza di partecipare ad un festoso rito salvifico e purificatore. E che poi videro questa loro frenesia come una delirante ubriacatura. La guerra mostrò agli intellettuali il suo volto feroce e disumano ben lontano dalle loro fantasie eroiche e rigeneratrici. Essi rimasero storditi e traumatizzati dagli aspetti più devastanti di quella modernità caratterizzata dal protagonismo delle macchine e della tecnologia moderna e dalla loro supremazia sull’uomo. Una tempesta di acciaio, di ferro e di gas aveva inchiodato i soldati ad una vita da topi nelle trincee. Era scomparso il modello di combattimento fino ad allora conosciuto e immaginato alla vigilia. L’eroismo nelle forme tradizionali era risultato impossibile. L’orrore della guerra tradizionale era stato moltiplicato oltre ogni ragionevole previsione.
Nacque così una letteratura di guerra ad opera di scrittori combattenti, molti dei quali sottolineavano lo scontro epico ed ineguale fra l’uomo e la macchina bellica. Ne sono testimonianza i numerosi diari, memoriali e romanzi autobiografici di Soffici, Stanghellini, Gadda, Frescura, Pastorino, Comisso, Monelli, Salsa, Jahier, Lussu, Marinetti, de Lollis, d’Amico, Alvaro, Borgese, Stuparich, Malaparte, a cui bisogna aggiungere fuori i dall’Italia quelli di Jünger, Remarque, Hemingway, Barbusse, Dorgelès, Genevoix, Céline ed altri.
Gli intellettuali passarono dal delirio interventista di prima della guerra al disgusto e all’orrore per le trincee, per il sangue e per le stragi e le distruzioni che avevano vissuto di persona e vivevano come bestiali ed inutili. La tecnologia prodotta dalla cultura europea aveva generato qualcosa di mostruoso, di brutale e volgare che si rivoltava distruttivamente, contro il suo umanesimo ed il senso della comune umanità. Quest’ultimo sembrò loro come il principale sconfitto dalla grande guerra. Qualcuno ebbe orrore di sé a ripensare alla retorica che avevano condiviso con i rispettivi governi e i capi militari e che ora si rivelava un miraggio ingannatore.
Prezzolini: il disincanto di un “apota”
Prezzolini partì in guerra come volontario, ma bastò una sola settimana di caserma nell’agosto del 1915 per cominciare a perdere il suo entusiasmo:
“Sono in caserma da una settimana. Venni avido di imparare, di obbedire, di lavorare. Non riesco a nulla. Ci tengono a ciondolare dalla mattina alla sera. Siamo avviliti e umiliati. I superiori hanno organizzato le cose in modo da impedire che si impari. Essi (gli ufficiali di carriera, ndr) non ci stimano. Gli inferiori si accorgono della nostra ignoranza. Il pubblico si beffa di noi. La cosa più militare che mi è stata ordinata è stata quella di farmi crescere i baffi…La cosa più importante che ho imparato nella vita militare è arrangiarsi”
– scrisse nel suo Diario il 1° agosto del 1915. Poi, passò alcuni mesi al fronte, dove si rese conto della demotivazione dei soldati italiani a cui gli ufficiali non spiegavano le ragioni della guerra che forse non conoscevano nemmeno loro. Toccò con mano le irrazionalità della mentalità e della “logica” militare e la “superstizione dei regolamenti”. Sempre più deluso, in novembre chiese ed ottenne di fare un ulteriore addestramento a Novara “per imparare a comandare”. “Tutto dipende dai capi” diceva: se i capi sono inadeguati, i soldati saranno demotivati, sfiduciati e indisciplinati. Nel dicembre 1915 apprese della morte in combattimento di Slataper, interventista e irredentista e ne fu traumatizzato. Il 25 dicembre annotò sul suo diario:
“Mi sento inutile, incapace, freddo. Che cosa ci sto a fare in questo luogo, in questo momento, in questo mondo?”.
Il 31 dicembre scrisse sul suo diario:
“Nel baccano della notte di fine anno sento una nota di stupore, di insoddisfazione, di rabbia, di fermento. Fingono di festeggiare la fine dell’anno. Ma in realtà protestano contro la guerra”.
L’ubriacatura dell’interventismo bellicista gli era passata del tutto. Poi si “imboscò” nell’Ufficio storico dell’esercito. E nel 1918 tornò al fronte fino alla fine della guerra. Ma la guerra lo aveva cambiato. All’entusiasmo dionisiaco subentrò il distacco scettico dell’“apota” che “non se la beve” (come anni dopo certificò su La Rivoluzione liberale di Piero Gobetti). Crollò la sua fede, nella razionalità della Storia, nell’uomo-Dio dominatore del mondo e nella capacità degli uomini e degli italiani di assorbire il suo idealismo militante e il suo liberalismo radicalmente immanentista.
La storia non è un’epifania dello Spirito universale, ma è una tragedia senza razionalità, un avvicendarsi senza senso e senza scopo di illusioni, ambizioni, conquiste e massacri, lotta per l’esistenza e la supremazia, in cui predominano la volontà di potenza, la vitalità e il caso. Gli uomini conservano sotto la scorza civile un’immodificabile natura ferina e rimarranno moralmente sempre gli stessi- scrisse anni dopo nel suo libro The American Years[5].
Papini: il rimorso e l’approdo al crocifisso
Gli orrori della guerra spinsero l’ateo nicciano Papini alla conversione dall’interventismo più acceso al cristianesimo. Riformato per la sua forte miopia, negli anni di guerra, nella sua casa di Firenze, scrisse una Storia di Gesù ed anche un libro La seconda nascita (che in vita non volle mai pubblicare) dove faceva i conti con il suo precedente interventismo.
Vi confessa il suo rimorso:
“rimorso di avere predicato la guerra e di vederla ora tanto diversa da quella che aspettavo; rimorso della mia inazione e rimorso di aver fatto, nella mia piccolezza anche troppo; rimorso di aver preparato anch’io, col cinismo misantropico degli ultimi anni, quell’accecamento”[6].
Chiamò la guerra Mortura e la definì un “immane sciupìo di sangue e di anime” che tutto “scompigliava, imbestiava e affoscava”. La guerra non era né un duello omerico, né un o scontro cavalleresco, né la carica garibaldina, ma un macello scientifico, un massacro all’ingrosso, una distruzione tenebrosa, una serie di sacrifici anonimi.
Quel “mio cinismo dei primi giorni era sparito, mutato in una pietà che non conoscevo” – scrisse segnando il suo passaggio dal radicalismo rivoluzionario e futurista del periodo interventista a un realismo conservatore d’ispirazione cristiana che gli faceva considerare la guerra una “barbarie purulenta e armata dalla scienza e dalla meccanica per moltiplicare la crudeltà”. La gloria e l’onore avevano ceduto il passo alla Macchina da guerra. A Papini la guerra appariva ora come
“il disfarsi precipitoso delle antiche unità civili, dell’Europa, della cristianità, della cosmopoli degli spiriti”[7].
Solo dopo la sua morte, nel 1958, fu pubblicato il libro La seconda nascita.
Jünger: le tempeste d’acciaio
Lo scrittore tedesco Ernst Jünger, che prima del conflitto mondiale aveva esaltato le virtù esistenziali della guerra ed auspicato la mobilitazione totale, dopo il conflitto, nel libro Nelle tempeste di acciaio del 1920, constatò, con freddo orrore, il prevalere nella guerra (a cui partecipò restando ferito ben 14 volte e guadagnandosi una decorazione) dei materiali d’acciaio sull’eroismo. La tecnica si era rivoltata contro l’uomo e aveva travolto l’umano.
Nella sua fase giovanile Ernst Jünger vedeva nella guerra, per la vicinanza costante della morte, la possibilità unica di una vita vissuta intensamente e per la possibilità di esprimere le energie individuali e la personale ribellione nei confronti della borghesia che, chiusa nel suo egoismo di classe, mirava – secondo lui- a godere di un comodo benessere privo di rischi. Essa meritava “il lanciafiamme” – secondo lo stesso Jünger giovane.
Dopo la guerra Jünger cambiò radicalmente atteggiamento e divenne un pacifista. Scrisse che il primo conflitto mondiale era stato l’evento storico decisivo del Novecento, non in quanto confronto tra le nazioni europee e per le ambizioni delle loro classi dirigenti, bensì perché non assimilabile ai precedenti conflitti e perché aveva segnato il tramonto della guerra limitata e parziale in favore di un nuovo tipo di conflitto di natura totale e collettiva che aveva visto per la prima volta il dominio assoluto delle macchine sull’uomo.
Il suo romanzo Nelle tempeste d’acciaio del 1920 è un “diario di vita e di morte” che non riporta solo fatti e scenari di guerra: sottolinea l’effetto devastante che la tecnologia applicata alle esigenze militari produce su uomini, animali e cose e la nascita di un nuovo tipo di guerra totale e dominata dalle macchine.
“Là dove la macchina fa la sua apparizione, la lotta dell’uomo contro di essa appare senza speranza”[8].
La prima guerra mondiale e le rivoluzioni che l’hanno accompagnata e seguita, hanno per la prima volta – secondo Jünger – rivelato il vero volto del mitico Progresso,
“grande religione popolare del XIX secolo, l’unica che goda di effettiva autorità e di acritica fede”,
strappando a quel mito l’incanto della retorica ottimistica, pacifistica e umanitaria che ne faceva una promessa di “benessere collettivo”. Il progresso racchiude in sé un volto maligno e demoniaco, reso inaccessibile dalla “maschera della ragione” un’”eccellente copertura” che il primo conflitto mondiale ha svelato. La prima guerra mondiale ha ucciso l’uomo antico, libero e padrone della sua coscienza, e ha partorito l’uomo-massa[9].
Benedetto Croce: una lucida eccezione
Benedetto Croce fu forse l’unico dei grandi intellettuali italiani del tempo che mantenne, con lo statista liberale Giovanni Giolitti, la testa lucida nella generale ubriacatura interventista del 1914-15. Il 18 settembre 1914 scrisse al filosofo Giovanni Gentile (che fu interventista “per costruire una nuova Italia”), allora suo amico:
“E veramente, uscire in guerra perché? E se la guerra si prolungasse per mesi e anni, che cosa avverrebbe di un paese come il nostro, non ricco e non preparato?”.
In una successiva lettera a Giovanni Gentile del 16 ottobre, Croce parlava della “miseria morale” di cui davano prova gli uomini di cultura:
“ragionamenti puerili, asserzioni fantastiche, cupidigie folli e vergognose, nessun senso di onore nazionale”.
Croce ironizzava sul “guerriero” Giuseppe Lombardo-Radice, definiva Salvemini un “astrattista fallito”, Prezzolini uno “sconclusionato”. In una lettera del 14 dicembre dello stesso anno notava:
“l’eccitare l’Italia alla guerra è un vero delitto contro la nostra patria. Noi rischiamo di perdere tutto il lavoro penosissimo compiuto per alcuni decenni; e, forse, compromettere l’opera dei nostri uomini del Risorgimento”[10]
Nelle sue Pagine sulla guerra nel dicembre 1914 annotava:
“Ma quel che soprattutto mi stupisce è il tentativo di indurre un popolo alla guerra a forza di raziocinii e di sollecitazioni. La guerra è come l’amore e lo sdegno: qualcosa che mille raziocinii ed incitamenti non producono, ma che, a un tratto, non si sa come, si produce da sé, invade l’anima ed il corpo, ne centuplica e indirizza le forze, e si giustifica da sé, pel solo fatto che è ed agisce”[11].
Croce fu profeta lucido, ma inascoltato. E quando l’Italia dichiarò guerra agli ex alleati imperi centrali accettò a malincuore il fatto compiuto per amor di patria:
“al filosofo in quanto cittadino, non spetta altro dovere in tempo di guerra che lasciar da banda la filosofia e sentirsi tutt’uno col suo popolo, farsi popolo”[12].
L’avversione per i fondamenti della civiltà europea
Nessuna delle presunte virtù della guerra e nessuna delle previsioni ottimistiche profetizzate con una caduta nel pensiero magico e nel delirio, si realizzò. Le sue conseguenze anzi furono peggiori di ogni più pessimistica previsione.
La tragedia della Grande Guerra accentuò e diffuse ulteriormente la forte delusione ed avversione per i fondamenti stessi della civiltà europea, che nei primi decenni del secolo si era diffusa tra gli intellettuali europei e che poi aveva generato il delirio interventista della vigilia nutrito da un’irrazionale e infondata speranza di “rigenerazione” attraverso la violenza bellica o “rivoluzionaria”. Persino Thomas Mann nel 1918 giunse ad auspicare un’alleanza tra la Russia ormai bolscevica e la Germania per combattere l’Occidente e la sua “civilizzazione” borghese, che Mann in quel periodo vedeva come la riduzione della civiltà vera e propria (Kultur) a mera tecnica[13].
Quella speranza aveva generato anche un fittizio odio reciproco tra europei ed un folle entusiasmo per il massacro reciproco in una guerra civile che si rivelò suicidaria per l’Europa e per molti di coloro che la guerra avevano auspicato. L’odio per il vicino europeo si rivelava un patologico odio di sé che era l’altra faccia di un paradossale odio di molti intellettuali europei di quel tempo per la propria civiltà che, nonostante le sue imperfezioni, proprio tra la fine dell’Ottocento e i primi quindici anni del Novecento aveva toccato i vertici di potenza mondiale, di benessere sociale e di progresso tecnico.
Il delirio degli intellettuali interventisti del 1914-15 dovrebbe essere un monito per l’oggi. In particolare per quei politologi, professori, giornalisti, conduttori televisivi odierni che, davanti a nuovi conflitti, sembrano ripetere la retorica e le illusioni di allora. Molti sembrano infatti pronti a demonizzare questo o quel Paese (come allora si fece con la Germania) o, sulla base di frettolose e terrorizzanti analogie (con una propagandistica e pericolosissima “reductio ad Hitlerum”), questo o quel leader; a scovare nella guerra virtù democratiche e pacificatrici o persino coltivando, come allora, l’illusione che la guerra in corso sia finalmente quella buona e giusta, perché eviterebbe futuribili e più pericolose guerre o sia quella che finalmente metterebbe fine a tutte le guerre. Già visto e sentito.
[1] Stefan Zweig, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers, Bermann-Fischer, Stockholm 1942. Poi S. Fischer, Frankfurt am Main, 1981. Traduzione italiana di Lavinia Mazzucchetti: Il mondo di ieri: ricordi di un europeo, Milano, Mondadori, 1946.
[2]Gioacchino Volpe, Il popolo italiano tra pace e guerra, (1914-!915), Milano, ISPI, 1940, 269 p. [si vedano le pp. 72 sgg].
[3] Giuseppe Bedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2002, 442 p. [il passo citato è a p. 92].
[4] Giuseppe Bedeschi, La fabbrica delle ideologie, op. cit. alla nota 3, p. 93.
[5] Giuseppe Prezzolini, The American Years (1929-1962), New York-Firenze, Vanni – Gabinetto Viesseux, 1994, 115 p. [si veda p. 22].
[6] Giovanni Papini, La seconda nascita, Vallecchi, Firenze, 1958, 348 p.
[7] Giovanni Papini, La seconda nascita, op. cit. alla nota 6.
[8]Ernst Jünger, Im Stahlgewittern Aus dem Tagebuch eines Stoßtruppführers, Leipzig 1920 im Selbstverlag. Traduzione itaiana di Giorgio Zampaglione: Nelle tempeste d’acciaio, introduzione di Giorgio Zampa, Parma, Guanda, 1990, 352 p.
[9] Ernst Jünger, “La mobilitazione totale”, Il Mulino. Rivista bimestrale di cultura e di politica, XXXIV (301), settembre-ottobre 1985, pp. 753-770; Ernst Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt. Hamburg Hanseat Verlagsanst, 1932, 300 p. Traduzione italiana, L’operaio. Dominio e forma, a cura di Quirino Principe, Parma, Guanda, 1991, 274 p. Vedi anche Carlo Galli, “Al di là del progresso secondo Ernst Jünger: ‘magma vulcanico’ e ‘mondo di ghiaccio’”, Il Mulino, loc. cit., pp. 771-786 e Ferruccio Masini, “Ernst Jünger: dall’‘Arbeiter’ all’‘anarca’”, il Mulino, eodem loco, pp. 787-801.
[10] Benedetto Croce, Lettere a Giovanni Gentile, (1896-1924), a cura di Alda Croce, Milano, Mondadori, 1981, 687 p.
[11] Benedetto Croce, Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1928, 358 p. [il passo citato è a p. 19].
[12] Benedetto Croce, Pagine sulla guerra, op. cit. alla nota 11, p. 59.
[13] Thomas Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen , Berlin, Fischer Verlag, 1918, 611 p. Considerazioni di un impolitico (1875-1955), Saggio introduttivo, traduzione e note di Marianello Marianelli: Bari, De Donato, 1967, XXXVIII-528 p.