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Democrazia Futura. Il coraggio del confronto schietto tra due generazioni di militanti

In Quarta di copertina Bruno Somalvico commenta il saggio di Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli “Comunisti a modo nostro. Storia di un partito lungo un secolo”, considerando questo libro “Una gradevole eccezione nella memorialistica in occasione del centenario del PCI” e sottolinea “Il coraggio del confronto schietto tra due generazioni di militanti “. “Dal loro racconto di quasi mezzo secolo di storia e nel caso di Macaluso anche di militanza nel PCI emerge certamente –  rileva Somalvico – la fierezza di essere “Comunisti a modo nostro” e l’importanza della svolta di Salerno e della costituzione del “partito nuovo” voluto da Togliatti […]. La descrizione della vicenda umana e politica nel racconto di due suoi protagonisti non costituisce per nulla un’abiura della loro esperienza politica.
Ma vuole finalmente fare i conti con questo passato: non per ripetere le confessioni di staliniana memoria che, anziché correggere e riconoscere gli errori compiuti servivano appunto come abiure per farsi perdonare dai nuovi gruppi dirigenti avvicendatisi al potere in seno al partito-guida sovietico – ma, al contrario, finalmente per capire, ovvero riconoscere, sedimentare nel proprio percorso quegli errori e accettarne le logiche conseguenze.

Emanuele Macaluso, Giornalista e parlamentare comunista, ha diretto l’Unità e Il Riformista,
Claudio Petruccioli, Giornalista parlamentare , ha diretto l’Unità ed è stato Presidente della Rai

L’anniversario del Congresso di Livorno non è stata l’occasione per rivisitare criticamente la storia del Partito Comunista d’Italia (poi Partito Comunista Italiano). Né sul piano storiografico, dove quel partito ha esercitato un’indubbia influenza soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento con ampie ricostruzioni delle proprie vicende interne affidate – a cominciare dalla Storia uscita per Einaudi in vari volumi, allo storico ufficiale del PCI Paolo Spriano, né su quello della memorialistica, dove le autobiografie di singoli protagonisti – talune peraltro di pregevole fattura letteraria come nel caso di quella di Giorgio Amendola – non dovevano mai scalfire le certezze e solo in rarissimi casi riuscivano a fare affiorare dubbi e tormenti di varie generazioni di militanti e protagonisti comunisti italiani convinti che la loro diversità, tanto sbandierata nell’epoca della segreteria di Enrico Berlinguer, costituisse la premessa della loro superiorità politica nei confronti degli altri esponenti della sinistra italiana, di volta in volta tacciati a loro volta di opportunismo, estremismo, ideologismo astratto, subalternità, collaborazionismo di classe nella migliore tradizione di demonizzazione acquisita alla Scuola della Terza Internazionale. Per non parlare del fango gettato dopo la fine dello stesso PCI su socialisti socialdemocratici e laici nella stagione di Tangentopoli.

Scrivere della propria parrocchia e, più in generale, ripercorrere le vicende politiche del proprio Paese doveva sempre rispondere a requisiti di auto controllo, rinunciare a esprimere giudizi troppo soggettivi, insomma rimanere dentro i canoni politicamente corretti dei custodi della “cultura comunista” incarnati di volta in volta da figure intellettuali di spicco che vanno da Mario Alicata sino a Aldo Tortorella. Dotate di un linguaggio spesso vivace e sofisticato e capacità dialettiche acquisite sotto la sapiente guida del Migliore, cioè di Palmiro Togliatti e memori delle lezioni di Antonio Gramsci, e capaci persino di assorbire figure eretiche come quella del suo fondatore Umberto Terracini o tollerare scrittori scomodi come Pier Paolo Pasolini.

Figure che in privato ribadivano di non avere nulla a che vedere con il marxismo volgare e con la langue de bois dei comunisti francesi, ma che alla prova dei fatti nutrivano grande fastidio quando venivano – come nel caso del Passato di un’illusione dell’ex intellettuale comunista transalpino Francois Furet – chiamati in causa a rispondere dei delitti perpetrati in nome di questa illusione o invitati a superare nuovi esamini di fede autenticamente democratica prendendo decisamente le distanze con l’ideologia originaria come fecero sin dal 1959 i socialdemocratici tedeschi a Bad Godesberg.

Questo libro uscito praticamente postumo nel caso di Emanuele Macaluso scomparso alla vigilia del centenario, mi pare costituisca una gradevole eccezione nella memorialistica uscita quest’anno. Dal loro racconto di quasi mezzo secolo di storia e nel caso di Macaluso anche di militanza nel PCI emerge certamente la fierezza di essere “Comunisti a modo nostro” e l’importanza della svolta di Salerno e della costituzione del “partito nuovo” voluto da Togliatti che peraltro – come scritto su queste colonne da Luigi Covatta recensendo un altro saggio di Petruccioli – avrebbe reso molto più complicata nel 1989 – o meglio del tutto “illusoria” secondo il compianto ex direttore di Mondoperaio – “l’exit strategy dal PCI” voluta dal suo ultimo segretario Achille Occhetto. La descrizione della vicenda umana e politica nel racconto di due suoi protagonisti non costituisce per nulla un’abiura della loro esperienza politica. Ma vuole finalmente fare i conti con questo passato: non per ripetere le confessioni di staliniana memoria che anziché correggere e riconoscere gli errori compiuti servivano appunto come abiure per farsi perdonare dai nuovi gruppi dirigenti avvicendatisi al potere in seno al partito-guida sovietico – ma, al contrario, finalmente per capire, ovvero riconoscere, sedimentare nel proprio percorso quegli errori e accettarne le logiche conseguenze – ben riassunte – nella Quarta di Copertina in una frase dello stesso Macaluso: “Non penso che la sinistra italiana possa affidarsi solo alla propria tradizione. Se non avrà un rapporto con i problemi reali, se non riuscirà a interpretarli e risolverli, e a fare su questi una battaglia politica, non supererà mai la propria crisi”.

Un monito testamentale quello di Macaluso ma anche un metodo di approccio originale applicato alla propria storia interna che approda finalmente ad alcune domande a mio parere ineludibili poste nell’introduzione e che rimangono purtroppo inevase nella maggior parte della produzione storiografica e nella memorialistica pubblicata in questo Centenario del Congresso di Livorno: “C’è una nostra [ovvero dei comunisti italiani] responsabilità per il fatto che la sinistra in Italia si si rattrappita nel modo che vediamo? C’è una nostra responsabilità per l’involuzione della democrazia e del panorama politico italiano? Per il suo degrado? A tali domande  – scriveva Macaluso a poche settimane della propria scomparsa nel mezzo della crisi del secondo Governo Conte – delle risposte sono doverose; senza di esse non è in alcun modo possibile una seria, solida ripresa […].

In effetti i due autori con questo libro intendono offrire ai lettori “una discussione in cui esprimiamo i nostri punti di vista, sulla base di fatti e documenti ma cerchiamo di difenderli e affermarli ma – dicono – teniamo nel dovuto conto quel che l’altro obietta o corregge, registriamo giudizi ben argomentati. E – aggiungono – quando ce ne convinciamo, aggiustiamo o correggiamo la posizione da cui siamo partiti. Insomma, una discussione vera, che ha per oggetto i comunisti italiani e il comunismo originato dalla Rivoluzione d’ottobre, dissoltosi con il crollo del muro di Berlino. E’ una discussione anche – forse soprattutto – nel senso che comunisti e comunismo li si mette in discussione, se ne cercano limiti e responsabilità” […] “L’intento non è di “parlar bene” del PCI; meno che mai di noi stessi. Vogliamo porre l’accento non sulle conquiste e i successi – che pure ci sono stati, molti e grandi – ma su quel che non si è capito o non si è fatto quando invece si poteva capire e si sarebbe dovuto fare. Vogliamo capire e capirci meglio, senza girare la testa dall’altra parte o mettere la polvere sotto il tappeto; e se è capitato anche a noi di averlo fatto nel corso della vita, vogliamo chiarire quando e perché è avvenuto. Usiamo la severità per rispettare il nostro passato, con la speranza di dire qualcosa di utile per il futuro”.

Con questo proposito Macaluso e Petruccioli fanno i conti dapprima con il ventennio togliattiano (1944-1964), poi con l’intermezzo della segreteria di Longo e la proposta di partito unico di Amendola nel capitolo “Il PCI senza capi (1964-1969), quindi con “l’epopea di Berlinguer” (1969-1984), infine con la crisi del gruppo dirigente e d’identità che scuote il partito dalla morte di Enrico Berlinguer allo scioglimento del PCI “Padova, Berlino, Rimini (1984-1991) non senza tentare in conclusione di tirare le somme dalla loro esperienza di dirigenti. In ognuno dei quattro capitoli, al centro della loro analisi troviamo il rapporto – complesso e altalenante “fra nuove alleanze e antiche divisioni” con il PSI, che nel tempo, dopo aver rinunciato all’idea amendoliana di fusione ed esauritasi la spinta innovativa della stagione del primo centro-sinistra, diventa “scontro di sintassi” a cavallo fra anni settanta e ottanta e infine “rapporto irrecuperabile” con la crisi e fine della prima repubblica.

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